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2023-10-02
I formaggi Dop e Igp, un tesoro che l’Italia non valorizza appieno
(IStock)
Si è svolto lunedì 25 settembre al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (Masaf) la conferenza stampa di Afidop, Associazione formaggi italiani Dop e Igp, «Formaggi Dop - Promuovere e tutelare un comparto strategico del Made in Italy». Presentata dal vicedirettore Tg5 Mediaset Giuseppe De Filippi, ha ospitato Antonio Auricchio, presidente Afidop, Roberto Calugi, direttore generale Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi, Lamberto Coppa, ceo Grieffshield, Roberta Sala Peup, chief protection officer Grieffshield, e il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida.
Nel corso della conferenza stampa, sono stati resi noti i dati del sondaggio commissionato da Afidop a Grieffshield. Sebbene 1 ristorante su 4 (25,3%) usi formaggi Dop, soltanto 1 su 10 (10,2%) li valorizza riportando la corretta denominazione nel menù. Per noi italiani, le nostre eccellenze sono la norma e in buona fede diciamo Parmigiano intendendo Parmigiano Reggiano Dop. Nel mondo sempre più globale, però, dobbiamo imparare a guardare le nostre cose anche con gli occhi altrui e ad «etichettarle» correttamente per porgerle ai consumatori che non le conoscono col corredo culturale, storico, nutrizionale, olfattivo, gustativo, estetico che le caratterizza. Da questo punto di vista, i nostri formaggi non sono differenti dal vino: l’indicazione geografica del formaggio è l’equivalente del terroir del vino, come osserviamo le caratteristiche estetiche, olfattive e gustative del vino possiamo apprezzare quelle dei formaggi, la fase di maturazione del vino non è così differente dalla stagionatura del formaggio, il remuage dello champagne non può non ricordare il rivoltamento delle forme casearie. Pensateci: il formaggio italiano è il nuovo vino italiano, suona bene anche all’inglese, «italian cheese is the new italian wine». O, se preferite, la nuova pasta, il nuovo pane, la nuova pizza.
L’unità culinaria italiana, spinta da quella sorta di globalizzazione interna per cui a Trento trovo un prodotto di Canicattì, si sta realizzando negli ultimi decenni. Se sappiamo tutto, e lo sanno anche tanti stranieri, del nostro pane, della nostra pizza, della nostra pasta, è ora che esploriamo e studiamo altre categorie, come i formaggi. E non divulgare le caratteristiche di un formaggio Dop o Igp (come anche di un formaggio che non rientra in questa categoria) è un’occasione mancata. Da ogni punto di vista per tutti quelli possibili tra i due poli culturale ed economico, per un comparto che, con 4,68 miliardi di euro di valore alla produzione e 56 denominazioni, rappresenta il 59% del valore del cibo Dop, Igp e Sgt del Paese e detiene il primato mondiale per numero di produzioni casearie certificate. Perché certificato vuol dire controllato, il Consorzio controlla che ogni forma sia prodotta secondo disciplinare. Se su un menu trova indicato che il Provolone in questione è un Valpadana Dop il cliente saprà che è quel provolone che può esser fatto solo in alcune province di precise regioni del nord, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto-Adige. Se invece è un Del Monaco Dop allora sarà prodotto solo in alcuni comuni della città metropolitana di Napoli. E ci saranno tante altre differenze.
Afidop e Fipe stileranno le Linee Guida di corretta evidenziazione delle produzioni certificate nei menù. Il ministro Lollobrigida ha dato il suo placet: «Dobbiamo spiegare che cosa c’è dietro i formaggi Dop in termini di produzione e trasformazione. Dobbiamo difendere i nostri prodotti dall’aggressione di chi invece, sui mercati internazionali, usa il metodo della contraffazione di denominazioni che richiamano i nostri prodotti di eccellenza senza che vengano realizzati con i nostri metodi e con la nostra capacità. Apriremo un tavolo insieme ad Afidop per cercare di capire, senza particolari aggravi per la distribuzione, come riuscire a dare la possibilità alle persone di sapere verso quali prodotti indirizzarsi e avere la libertà di scegliere in maniera più oculata cosa acquistare». In occasione della candidatura della cucina italiana al patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, presentata a Pompei ad agosto, Lollobrigida aveva già ribadito cosa sia la nostra cucina, per lui, per noi e per chiunque ci entri in contatto: «Non si tratta solo di piatti. Dietro ogni cibo, ogni ricetta c’è la storia del nostro Paese, contaminazioni, ricerca, evidenze di biodiversità. Uno stesso piatto preparato in decine di modi diversi, anche nella stessa città, nelle contrade, nelle frazioni. C’è una filiera di capacità e professionalità uniche e differenti. E tutto questo va valorizzato, illustrato, promosso, perché fa la differenza».
«I pubblici esercizi svolgono da sempre il ruolo di porta d’accesso alla cultura, alle tradizioni e ai valori del nostro Paese e rappresentano un veicolo estremamente importante per la valorizzazione dei prodotti Made in Italy» ha dichiarato Roberto Calugi. Molti ignorano i consorzi e il loro ruolo di contrasto alla concorrenza sleale dell’italian sounding che subiamo all’estero, essi intanto lottano per noi. Risale a questi giorni il riconoscimento della Dop Gorgonzola in Cile, traguardo per cui il consorzio, di cui è presidente sempre Antonio Auricchio, lotta dal 2018: nonostante l’opposizione degli statunitensi che producono e smerciano i similari anche in Sudamerica, abbiamo vinto: solo il nostro vero Gorgonzola Dop può essere venduto col nome Gorgonzola in Cile. Ancora: due tipologie si affiancano alla Fontina Dop, «Fontina Dop lunga stagionatura» e «Fontina Dop alpeggio».
«Dietro ogni marchio c’è una storia che andrebbe insegnata a scuola»
Abbiamo intervistato Antonio Auricchio, cremonese, classe 1953, appassionato presidente Afidop, altrettanto appassionato presidente del Consorzio Gorgonzola Dop e ancora ugualmente appassionato cheesemaker (è presidente della Gennaro Auricchio S.p.A., ai più nota come la Auricchio del provolone).
È contento dell’intesa tra Afidop, ministro Lollobrigida e Fipe per la valorizzazione dei formaggi Dop e Igp?
«Proprio in questa occasione abbiamo presentato il nuovo logo Afidop che ho voluto fortemente. I grafici del Parmigiano Reggiano, bravissimi, hanno messo una goccia di latte stilizzata, perché tutti i formaggi vengono dal latte, sotto una forma di formaggio e naturalmente la bandiera italiana perché io sono un paladino dei formaggi italiani. Sono stato contento, non mi era mai capitato un personaggio politico, soprattutto un ministro, che arriva in perfetto orario, pensi che è stato con noi 3 ore e mezza. Ho pregato il ministro Lollobrigida di fare due cose per la tutela del consumatore: nei supermercati, in uno scaffale solo prodotti Dop (avevamo già fatto un intervento in questa direzione col Consorzio del Gorgonzola e del Parmigiano Reggiano) e in un altro i prodotti, buonissimi, ma che non sono Dop. Che non vuol dire “Mangiate solo Dop”, ma “Mangiate ciò che volete, ma sappiate che uno è Dop e uno no”. Poi, con Fipe, abbiamo proposto di stilare le linee guida per far capire a tutti, consumatori italiani ed esteri, cosa sono esattamente i formaggi Dop e Ig. Se diciamo Dop molti pensano al Parmigiano Reggiano Dop, al Grana Padano Dop, al Gorgonzola Dop, Mozzarella di bufala campana Dop, Pecorino Romano Dop, Provolone Dop e Asiago Dop, ma ce ne sono tanti altri, piccoli, che sono leccornie, spesso prodotte in situazioni difficilissime: il Bitto, strepitoso, la Casciotta di Urbino, la Toma piemontese, formaggi del sud. Ho anche proposto ai consorzi grandi di prendere per mano i consorzi più piccoli e accompagnarli sulla strada dell’esportazione nel mondo, per esempio negli Usa ci vogliono i permessi di importazione per formaggi di latte vaccino. Altro discorso, continuare la battaglia contro il Nutriscore. Mettere il bollino rosso, simbolo di pericolo, sul Parmigiano o sul Pecorino, è una brutta cosa. Va invece spiegato che se mangi due chili di formaggio non fa bene alla salute, ma anche mangiare tre chili di insalata non fa bene. Sono stato negli Stati Uniti a Fancy Food e ho notato dei formaggi lanciati da una multinazionale molto importante chiamati “Not cheese” però al gusto di provolone, al gusto di parmesan... Dobbiamo anche contrastare le imitazioni dell’italian sounding. Il mio sogno sono esportazioni dei nostri veri prodotti che superino in valore l’italian sounding. Il ministro Lollobrigida ha candidato la cucina italiana a patrimonio culturale immateriale Unesco, dobbiamo andare a braccetto col Masaf».
Si tratta di acculturare gentilmente italiani e non italiani che amano i nostri prodotti, e anche quelli che non li amano, di porgere loro la storia e le caratteristiche che rendono i formaggi quasi dei vini solidi? Tutto ciò che facciamo degustando vini possiamo farlo degustando i formaggi.
«Esattamente. Io vorrei seminare storia, cultura, territorialità. 56 prodotti Dop e Ig caseari, forse ne avremo altri come il Branzi o la Mozzarella di Gioia del Colle, siamo i primi al mondo ed è un grande onore, ma anche un grande onere: è ovvio che alcuni all’estero non ci amino, è ovvio che chi non ha nemmeno un buon formaggio ci metta il Nutriscore o dice che i nostri non sono buoni... Dobbiamo far capire che dietro un pezzettino di formaggio non solo c’è la difficoltà di produrre latte anche in zone impervie, non solo c’è la fatica di un numero pazzesco di lavoratori, ma anche la salvaguardia del territorio perché se nella Val di Taro oltre che i porcini, Ig anche quelli, noi non avessimo il Parmigiano Reggiano, beh in quelle valli lì tutti chiuderebbero perché non avrebbero il riscontro importante del prezzo del latte che il Dop può garantire».
Quali sono le idee con Fipe per valorizzare attraverso i ristoranti?
«Insieme con Fipe, ho proposto al ministro Lollobrigida che ci dia una mano, anche con le normative. Ciò servirebbe al cittadino italiano, ma anche, per esempio, al cittadino americano in visita che scopre il Provolone Valpadana Dop e poi tornato a casa lo paragona al finto provolone fatto in Wisconsin: lei pensa che quel turista sappia, se non gliela si spiega, la differenza? Dobbiamo agire per una cura potentissima dei nostri marchi, anche a tutela dei turisti stranieri che poi tornano nel loro paese e chiedono quel prodotto, non la scopiazzatura che invece viene loro venduta. Ecco perché io chiedo una protezione, come imprese, come industria. L’industria è quella che ha portato i grandi marchi dei nostri prodotti in America e in tutto il mondo a fine Ottocento, inizio Novecento. Perché il pecorino Locatelli negli Usa è premium price? Perché il signor Locatelli ha avuto la genialità di farlo buono, di esportarlo e di fargli avere una storia più che centenaria. Così pure la mia famiglia: il provolone Auricchio e il provolone Valpadana Dop possono sembrare due prodotti diversi ma sono lo stesso. Noi dobbiamo andare nei ristoranti e poter dire “Io voglio avere il Gorgonzola Dop Baruffaldi o l’Arioli piccante perché per me è più buono”. Questo è il mio sogno nel cassetto».
Ci difendiamo dai similari americani anche raccontando i nostri originali. Prima lei parlava di denominazione di formaggio e poi di marchio di produttore, proprio come il vino, perché io, per dire, posso apprezzare il Soave Doc e in particolare quello della Cantina Coffele, ma molti non sanno nemmeno la differenza tra Dop e Igp...
«Esattamente. Questa è la chiave anche per i formaggi. Io apro il mio caseificio da tanti anni. Le domande più simpaticamente toccanti e intelligenti le ho avute dai ragazzi di elementari e medie. Un altro mio sogno è quello di avere un’ora alla settimana di lezioni di arte culinaria, di arte alimentare. Tutti ci invidiano il made in Italy, la cucina italiana sta diventando più importante di quella francese, dobbiamo annaffiare questa pianta che sta diventando grande. La scuola è determinante».
Le piace lo slogan che ho coniato, Meno foodporn, più foodknowing? I social network sono pieni di foodporn, si vedono solo mani che spremono creme da cibi, ma il cibo non è questa cosa pacchiana divulgata in modo pacchiano, ci sarebbe così tanto da raccontare sui prodotti italiani...
«Mi piace e siccome quando sento qualcosa che mi piace mi faccio fare delle magliette, le farò fare con questo concetto carinissimo. Una volta ad una serata di beneficenza, che amo, avevo messo un mio pecorino di Sardegna stagionato in grotta. Una signora si avvicina, domando se vuole assaggiarlo e mi dice che i formaggi di pecora hanno un sapore da vomito e non li ha mai mangiati. Io le racconto com’è fatto e le chiedo di assaggiare, libera di sputare. Beh, lo assaggia e poi ne mangia metà: non credeva che il formaggio di pecora potesse essere così buono. Non serve uno che “racconti storie”, ma che racconti la verità. Tanti dicono: “Non mangio il parmigiano perché sono allergica al lattosio”, ma il Parmigiano è naturalmente privo di lattosio.
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Sarà forse perché all’alta qualità siamo abituati, ma solo un ristorante su dieci precisa nel menu che i suoi prodotti sono certificati. Eppure vantiamo il primato mondiale delle etichette di pregio.Il presidente Afidop Antonio Auricchio: «Nei supermercati vorrei scaffali dedicati. Il Nutriscore va combattuto: all’estero non ci amano e cercano di boicottarci con iniziative come il bollino rosso sul Parmigiano o sul Pecorino».Lo speciale contiene due articoli.Si è svolto lunedì 25 settembre al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste (Masaf) la conferenza stampa di Afidop, Associazione formaggi italiani Dop e Igp, «Formaggi Dop - Promuovere e tutelare un comparto strategico del Made in Italy». Presentata dal vicedirettore Tg5 Mediaset Giuseppe De Filippi, ha ospitato Antonio Auricchio, presidente Afidop, Roberto Calugi, direttore generale Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi, Lamberto Coppa, ceo Grieffshield, Roberta Sala Peup, chief protection officer Grieffshield, e il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Nel corso della conferenza stampa, sono stati resi noti i dati del sondaggio commissionato da Afidop a Grieffshield. Sebbene 1 ristorante su 4 (25,3%) usi formaggi Dop, soltanto 1 su 10 (10,2%) li valorizza riportando la corretta denominazione nel menù. Per noi italiani, le nostre eccellenze sono la norma e in buona fede diciamo Parmigiano intendendo Parmigiano Reggiano Dop. Nel mondo sempre più globale, però, dobbiamo imparare a guardare le nostre cose anche con gli occhi altrui e ad «etichettarle» correttamente per porgerle ai consumatori che non le conoscono col corredo culturale, storico, nutrizionale, olfattivo, gustativo, estetico che le caratterizza. Da questo punto di vista, i nostri formaggi non sono differenti dal vino: l’indicazione geografica del formaggio è l’equivalente del terroir del vino, come osserviamo le caratteristiche estetiche, olfattive e gustative del vino possiamo apprezzare quelle dei formaggi, la fase di maturazione del vino non è così differente dalla stagionatura del formaggio, il remuage dello champagne non può non ricordare il rivoltamento delle forme casearie. Pensateci: il formaggio italiano è il nuovo vino italiano, suona bene anche all’inglese, «italian cheese is the new italian wine». O, se preferite, la nuova pasta, il nuovo pane, la nuova pizza. L’unità culinaria italiana, spinta da quella sorta di globalizzazione interna per cui a Trento trovo un prodotto di Canicattì, si sta realizzando negli ultimi decenni. Se sappiamo tutto, e lo sanno anche tanti stranieri, del nostro pane, della nostra pizza, della nostra pasta, è ora che esploriamo e studiamo altre categorie, come i formaggi. E non divulgare le caratteristiche di un formaggio Dop o Igp (come anche di un formaggio che non rientra in questa categoria) è un’occasione mancata. Da ogni punto di vista per tutti quelli possibili tra i due poli culturale ed economico, per un comparto che, con 4,68 miliardi di euro di valore alla produzione e 56 denominazioni, rappresenta il 59% del valore del cibo Dop, Igp e Sgt del Paese e detiene il primato mondiale per numero di produzioni casearie certificate. Perché certificato vuol dire controllato, il Consorzio controlla che ogni forma sia prodotta secondo disciplinare. Se su un menu trova indicato che il Provolone in questione è un Valpadana Dop il cliente saprà che è quel provolone che può esser fatto solo in alcune province di precise regioni del nord, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Trentino Alto-Adige. Se invece è un Del Monaco Dop allora sarà prodotto solo in alcuni comuni della città metropolitana di Napoli. E ci saranno tante altre differenze. Afidop e Fipe stileranno le Linee Guida di corretta evidenziazione delle produzioni certificate nei menù. Il ministro Lollobrigida ha dato il suo placet: «Dobbiamo spiegare che cosa c’è dietro i formaggi Dop in termini di produzione e trasformazione. Dobbiamo difendere i nostri prodotti dall’aggressione di chi invece, sui mercati internazionali, usa il metodo della contraffazione di denominazioni che richiamano i nostri prodotti di eccellenza senza che vengano realizzati con i nostri metodi e con la nostra capacità. Apriremo un tavolo insieme ad Afidop per cercare di capire, senza particolari aggravi per la distribuzione, come riuscire a dare la possibilità alle persone di sapere verso quali prodotti indirizzarsi e avere la libertà di scegliere in maniera più oculata cosa acquistare». In occasione della candidatura della cucina italiana al patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, presentata a Pompei ad agosto, Lollobrigida aveva già ribadito cosa sia la nostra cucina, per lui, per noi e per chiunque ci entri in contatto: «Non si tratta solo di piatti. Dietro ogni cibo, ogni ricetta c’è la storia del nostro Paese, contaminazioni, ricerca, evidenze di biodiversità. Uno stesso piatto preparato in decine di modi diversi, anche nella stessa città, nelle contrade, nelle frazioni. C’è una filiera di capacità e professionalità uniche e differenti. E tutto questo va valorizzato, illustrato, promosso, perché fa la differenza». «I pubblici esercizi svolgono da sempre il ruolo di porta d’accesso alla cultura, alle tradizioni e ai valori del nostro Paese e rappresentano un veicolo estremamente importante per la valorizzazione dei prodotti Made in Italy» ha dichiarato Roberto Calugi. Molti ignorano i consorzi e il loro ruolo di contrasto alla concorrenza sleale dell’italian sounding che subiamo all’estero, essi intanto lottano per noi. Risale a questi giorni il riconoscimento della Dop Gorgonzola in Cile, traguardo per cui il consorzio, di cui è presidente sempre Antonio Auricchio, lotta dal 2018: nonostante l’opposizione degli statunitensi che producono e smerciano i similari anche in Sudamerica, abbiamo vinto: solo il nostro vero Gorgonzola Dop può essere venduto col nome Gorgonzola in Cile. Ancora: due tipologie si affiancano alla Fontina Dop, «Fontina Dop lunga stagionatura» e «Fontina Dop alpeggio».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/formaggi-dop-igp-2665781019.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dietro-ogni-marchio-ce-una-storia-che-andrebbe-insegnata-a-scuola" data-post-id="2665781019" data-published-at="1696262374" data-use-pagination="False"> «Dietro ogni marchio c’è una storia che andrebbe insegnata a scuola» Abbiamo intervistato Antonio Auricchio, cremonese, classe 1953, appassionato presidente Afidop, altrettanto appassionato presidente del Consorzio Gorgonzola Dop e ancora ugualmente appassionato cheesemaker (è presidente della Gennaro Auricchio S.p.A., ai più nota come la Auricchio del provolone). È contento dell’intesa tra Afidop, ministro Lollobrigida e Fipe per la valorizzazione dei formaggi Dop e Igp? «Proprio in questa occasione abbiamo presentato il nuovo logo Afidop che ho voluto fortemente. I grafici del Parmigiano Reggiano, bravissimi, hanno messo una goccia di latte stilizzata, perché tutti i formaggi vengono dal latte, sotto una forma di formaggio e naturalmente la bandiera italiana perché io sono un paladino dei formaggi italiani. Sono stato contento, non mi era mai capitato un personaggio politico, soprattutto un ministro, che arriva in perfetto orario, pensi che è stato con noi 3 ore e mezza. Ho pregato il ministro Lollobrigida di fare due cose per la tutela del consumatore: nei supermercati, in uno scaffale solo prodotti Dop (avevamo già fatto un intervento in questa direzione col Consorzio del Gorgonzola e del Parmigiano Reggiano) e in un altro i prodotti, buonissimi, ma che non sono Dop. Che non vuol dire “Mangiate solo Dop”, ma “Mangiate ciò che volete, ma sappiate che uno è Dop e uno no”. Poi, con Fipe, abbiamo proposto di stilare le linee guida per far capire a tutti, consumatori italiani ed esteri, cosa sono esattamente i formaggi Dop e Ig. Se diciamo Dop molti pensano al Parmigiano Reggiano Dop, al Grana Padano Dop, al Gorgonzola Dop, Mozzarella di bufala campana Dop, Pecorino Romano Dop, Provolone Dop e Asiago Dop, ma ce ne sono tanti altri, piccoli, che sono leccornie, spesso prodotte in situazioni difficilissime: il Bitto, strepitoso, la Casciotta di Urbino, la Toma piemontese, formaggi del sud. Ho anche proposto ai consorzi grandi di prendere per mano i consorzi più piccoli e accompagnarli sulla strada dell’esportazione nel mondo, per esempio negli Usa ci vogliono i permessi di importazione per formaggi di latte vaccino. Altro discorso, continuare la battaglia contro il Nutriscore. Mettere il bollino rosso, simbolo di pericolo, sul Parmigiano o sul Pecorino, è una brutta cosa. Va invece spiegato che se mangi due chili di formaggio non fa bene alla salute, ma anche mangiare tre chili di insalata non fa bene. Sono stato negli Stati Uniti a Fancy Food e ho notato dei formaggi lanciati da una multinazionale molto importante chiamati “Not cheese” però al gusto di provolone, al gusto di parmesan... Dobbiamo anche contrastare le imitazioni dell’italian sounding. Il mio sogno sono esportazioni dei nostri veri prodotti che superino in valore l’italian sounding. Il ministro Lollobrigida ha candidato la cucina italiana a patrimonio culturale immateriale Unesco, dobbiamo andare a braccetto col Masaf». Si tratta di acculturare gentilmente italiani e non italiani che amano i nostri prodotti, e anche quelli che non li amano, di porgere loro la storia e le caratteristiche che rendono i formaggi quasi dei vini solidi? Tutto ciò che facciamo degustando vini possiamo farlo degustando i formaggi. «Esattamente. Io vorrei seminare storia, cultura, territorialità. 56 prodotti Dop e Ig caseari, forse ne avremo altri come il Branzi o la Mozzarella di Gioia del Colle, siamo i primi al mondo ed è un grande onore, ma anche un grande onere: è ovvio che alcuni all’estero non ci amino, è ovvio che chi non ha nemmeno un buon formaggio ci metta il Nutriscore o dice che i nostri non sono buoni... Dobbiamo far capire che dietro un pezzettino di formaggio non solo c’è la difficoltà di produrre latte anche in zone impervie, non solo c’è la fatica di un numero pazzesco di lavoratori, ma anche la salvaguardia del territorio perché se nella Val di Taro oltre che i porcini, Ig anche quelli, noi non avessimo il Parmigiano Reggiano, beh in quelle valli lì tutti chiuderebbero perché non avrebbero il riscontro importante del prezzo del latte che il Dop può garantire». Quali sono le idee con Fipe per valorizzare attraverso i ristoranti? «Insieme con Fipe, ho proposto al ministro Lollobrigida che ci dia una mano, anche con le normative. Ciò servirebbe al cittadino italiano, ma anche, per esempio, al cittadino americano in visita che scopre il Provolone Valpadana Dop e poi tornato a casa lo paragona al finto provolone fatto in Wisconsin: lei pensa che quel turista sappia, se non gliela si spiega, la differenza? Dobbiamo agire per una cura potentissima dei nostri marchi, anche a tutela dei turisti stranieri che poi tornano nel loro paese e chiedono quel prodotto, non la scopiazzatura che invece viene loro venduta. Ecco perché io chiedo una protezione, come imprese, come industria. L’industria è quella che ha portato i grandi marchi dei nostri prodotti in America e in tutto il mondo a fine Ottocento, inizio Novecento. Perché il pecorino Locatelli negli Usa è premium price? Perché il signor Locatelli ha avuto la genialità di farlo buono, di esportarlo e di fargli avere una storia più che centenaria. Così pure la mia famiglia: il provolone Auricchio e il provolone Valpadana Dop possono sembrare due prodotti diversi ma sono lo stesso. Noi dobbiamo andare nei ristoranti e poter dire “Io voglio avere il Gorgonzola Dop Baruffaldi o l’Arioli piccante perché per me è più buono”. Questo è il mio sogno nel cassetto». Ci difendiamo dai similari americani anche raccontando i nostri originali. Prima lei parlava di denominazione di formaggio e poi di marchio di produttore, proprio come il vino, perché io, per dire, posso apprezzare il Soave Doc e in particolare quello della Cantina Coffele, ma molti non sanno nemmeno la differenza tra Dop e Igp... «Esattamente. Questa è la chiave anche per i formaggi. Io apro il mio caseificio da tanti anni. Le domande più simpaticamente toccanti e intelligenti le ho avute dai ragazzi di elementari e medie. Un altro mio sogno è quello di avere un’ora alla settimana di lezioni di arte culinaria, di arte alimentare. Tutti ci invidiano il made in Italy, la cucina italiana sta diventando più importante di quella francese, dobbiamo annaffiare questa pianta che sta diventando grande. La scuola è determinante». Le piace lo slogan che ho coniato, Meno foodporn, più foodknowing? I social network sono pieni di foodporn, si vedono solo mani che spremono creme da cibi, ma il cibo non è questa cosa pacchiana divulgata in modo pacchiano, ci sarebbe così tanto da raccontare sui prodotti italiani... «Mi piace e siccome quando sento qualcosa che mi piace mi faccio fare delle magliette, le farò fare con questo concetto carinissimo. Una volta ad una serata di beneficenza, che amo, avevo messo un mio pecorino di Sardegna stagionato in grotta. Una signora si avvicina, domando se vuole assaggiarlo e mi dice che i formaggi di pecora hanno un sapore da vomito e non li ha mai mangiati. Io le racconto com’è fatto e le chiedo di assaggiare, libera di sputare. Beh, lo assaggia e poi ne mangia metà: non credeva che il formaggio di pecora potesse essere così buono. Non serve uno che “racconti storie”, ma che racconti la verità. Tanti dicono: “Non mangio il parmigiano perché sono allergica al lattosio”, ma il Parmigiano è naturalmente privo di lattosio.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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