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2022-07-24
Dal fisco all’Ue, agenda per il centrodestra
Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi (Ansa)
L’agenda Draghi è un trucco politico, ma di programmi c’è bisogno eccome. O almeno, chi ambisce a governare una situazione come quella italiana di fine 2022 ha l’onere di proporre approcci e risposte realistiche su una serie di urgenze. Abbiamo provato, in un inizio di campagna elettorale fin qui costruita su accuse e personalismi, a identificare quattro macro-temi, provando non a fornire sterili ricette ma suggerendo un perimetro di questioni non eludibili. Il primo è il rapporto con l’Ue: ruolo della Bce, problema dei titoli di Stato, eventuale collocazione internazionale dell’ex premier, posizione sul Patto di stabilità e alleanze sono la precondizione per qualunque politica. Secondo: il fisco. Terzo: l’energia. Quarto: la pandemia, perché Speranza sia il passato.
Il piano per affrontare l’emergenza senza inseguire il green a ogni costo

Ansa
Le campagne elettorali raramente si focalizzano sul tema energetico, considerato forse troppo specialistico o marginale, almeno fino a quando le bollette prosciugano il portafoglio dei cittadini. In quel caso, all’improvviso, ci si accorge che qualcosa non va e certamente, oggi, c’è molto che non va. Il governo uscente lascia una situazione a metà tra l’incompiuto e l’inconsistente, anche se non si può accusarlo di non avere fatto nulla: sono state avviate relazioni per avere gas da fornitori alternativi alla Russia, sono stati acquistati due rigassificatori e stanziati 33 miliardi di euro per abbassare le bollette, altri 4 per lo sconto sulle accise praticate sui carburanti. È stata imposta una tassa sui cosiddetti extraprofitti delle società energetiche e sono state riavviate le procedure per lo sfruttamento di un paio di giacimenti di gas. Il problema di tutte queste misure è che si tratta di toppe messe per pratica a situazioni mal gestite sin dall’inizio, con costi altissimi e senza un disegno.
Il governo di Mario Draghi ha sottovalutato la crisi sin dall’inizio, si è trovato sempre in ritardo sul tema, reagendo a posteriori con provvedimenti-tampone, ha aderito ciecamente alle indicazioni dell’Ue, tra cui quella di abbandonare le forniture di gas dalla Russia, senza mai riuscire a incidere sulle cause della crisi energetica che sono precedenti alla guerra in Ucraina. Dopo il tragicomico do ut des draghiano «aria condizionata o pace», abbiamo sentito parlare per mesi di una proposta italiana per mettere un tetto al prezzo del gas russo, che si è persa nei corridoi dei palazzi di Bruxelles e a cui in realtà ben pochi credevano.
Visto che il nuovo governo si formerà all’inizio di un autunno che rischia di essere assai critico dal punto di vista energetico (oltre che economico), cosa hanno intenzione di fare i partiti per riportare sotto controllo la situazione dell’energia? Vediamo quali sono i nodi principali.
1) La nuova maggioranza proseguirà nella rincorsa ideologica del green a tutti i costi o deciderà innanzitutto di porre in sicurezza energetica il Paese? In altri termini, si intende (o no) lavorare alla sicurezza degli approvvigionamenti senza preclusioni sulle fonti, per avere energia sicura e a costi contenuti per famiglie e imprese? Meglio ancora: si intende ricercare un equilibrio realmente ottimale tra le fonti di energia, lavorando sui vincoli geopolitici e senza barriere ideologiche?
2) Legata alla prima domanda è la seconda: quale politica estera si intende adottare, considerando che la corsa all’energia verde ci rende dipendenti in larga parte dalla Cina e che lo strappo con la Russia ci ha lasciato senza sufficiente gas, mentre l’Algeria è diventata il nostro maggiore fornitore aprendo un nuovo fronte di rischio e la Libia è di nuovo nel caos?
3) Come intendono gestire i partiti della futura maggioranza il rapporto con l’Unione europea sulla questione energetica? A un embargo su carbone, petrolio e gas russi, come quello imposto dalla Ue, chiaramente non può che conseguire una carenza di energia: si intende mettere in discussione questa strategia, che sinora ha fatto più male al sanzionante che al sanzionato?
4) Il nuovo governo sfrutterebbe compiutamente le riserve di gas naturale presenti sotto i fondali marini che circondano l’Italia, facendo ripartire la produzione di gas nazionale?
5) Il passaggio dal motore a scoppio all’auto elettrica è un fattore destabilizzante per l’indotto italiano dell’automobile, fatto soprattutto di piccole e medie imprese. I partiti sono in grado di disegnare un piano per il settore dell’automobile italiano, che lo preservi e lo rilanci?
6) Un nuovo governo avrebbe un approccio laico alle tecnologie per la generazione elettrica, considerando quindi anche il nucleare tra le fonti su cui è possibile investire? I partiti sono in grado di indicare un budget pluriennale per la ricerca scientifica pubblica sulle fonti energetiche?
Questi sono solo alcune tra le tante domande possibili. Sarebbe interessante conoscere le risposte dei partiti.
Serve una linea tributaria unica per l’Italia dei prossimi 10 anni

Ansa
Con la fine anticipata della legislatura è venuta meno la possibilità di portare a termine la riforma fiscale, o meglio la legge delega inclusiva del pericoloso intervento sul catasto. La cosa non ci dispiace affatto. Il percorso della delega è stato funestato da una serie di ricatti politici (la balla della correlazione con i fondi del Pnrr) e da una mediazione che per definizione non poteva che essere al ribasso. Nonostante il centrodestra - bisogna ammetterlo - si sia mosso unito, sono comunque emersi due aspetti negativi e forse inevitabili. Il primo era insito nella necessità di mediazione alla base della ampia maggioranza di governo: avere a che fare con la sinistra del Pd o, peggio, con Leu, porta automaticamente al tavolo strenui sostenitori di patrimoniali e minacce alla proprietà privata. L’altro aspetto sbagliato ab origine sta invece nella forma stessa del percorso di delega. Mai delegare a un governo futuro. Soprattutto se non si ha la minima idea di quale colore lo tingerà. Si sa soltanto che avrà le mani libere di fare ciò che vuole.
Adesso è quindi il caso di tirare una linea e chiedere al centro destra che sui temi del fisco, del lavoro e della tutela della proprietà privata faccia una sintesi al rialzo e non al ribasso. Agli elettori che hanno partite Iva oppure sono proprietari di piccole o piccolissime imprese interessa conoscere al più presto (e in ogni caso ben prima del 25 settembre) quale sarà la linea sulla riforma tributaria. Vale anche per i lavoratori dipendenti, e pure per i pensionati. Su questo, però, i tre partiti che andranno a comporre la coalizione fino ad oggi si sono mossi su filoni contigui ma in molti casi filosoficamente distanti. Fdi si è speso per sostenere il taglio del costo del lavoro e gli incentivi alle aziende che assumono. Ne consegue un approccio critico e fortemente riformista del reddito di cittadinanza. La Lega ha lavorato per spalleggiare le partite Iva, creando una sorta di flat tax ma al tempo stesso ha accettato che la spesa per il Rdc salisse in modo spropositato. Forza Italia si è impegnata per il taglio di Irap e Irpef, e per il sostegno alle famiglie. Nessuno dei tre partiti si è impuntato per spiegare agli elettori come abbia intenzione di riformare il sistema di riscossione e l’intera macchina dell’Agenzia delle entrate, in modo da impedire che si utilizzi quasi sempre (anche una volta è fin troppo) l’inversione dell’onere della prova nei confronti del cittadino/contribuente.
La pandemia ha insegnato che in Italia, come in tutti i Paesi dove ci sono comunisti nel governo o a rischio di infettarsi di quel virus, la proprietà privata è in pericolo. I bar e i ristoranti sono stati chiusi a forza di leggi vistate da una sola persona, il presidente del Consiglio. La scelta della gestione Covid ha ucciso una buona fetta della piccola imprenditoria italiana. Abbiamo accettato di sostituire la libertà della partita Iva con semplici elemosine chiamate bonus. La riforma del fisco va fatta tenendo presente questi elementi conservatori. C’è ancora un pezzo di Italia che non desidera l’aiuto dello Stato ma preferisce che quest’ultimo gli stia il più possibile lontano, per la precisione esattamente alla distanza concordata attraverso un patto che, più che mai ora, deve essere un patto elettorale.
È logico aspettarsi dal centrodestra unito una linea comune. Quanto verrà messo a budget per il taglio delle imposte? Quali imposte saranno tagliate? Via i bonus? Oppure quali bonus resteranno? Ci saranno politiche attive del lavoro? Come si farà a sostenere la produttività e quindi il rialzo dei salari? Infine, come ci porremo di fronte alle richieste dell’Ue che chiaramente ha detto di voler spostare la pressione fiscale dalle persone alle cose? Sappiamo bene che la richiesta serve semplicemente per aggredire il patrimonio immobiliare italiano che in Europa resta anomalia da debellare. Tutte le leggi sulla transizione ecologica porteranno in questa direzione. Non a caso attorno alla riforma del catasto si è scatenata una chiusura incomprensibile se non come elemento portante per un cambio sostanziale dell’Italia. Ecco, quel modello non è conservatore, non è del centrodestra. In campagna elettorale interessa leggere parola per parola quale sarà il modello fiscale che sosterrà la società italiana nei prossimi 10 anni.
Quale futuro per Draghi nella Ue? Aiutarci contro il cappio monetario

Mario Draghi (Ansa)
Molto probabilmente il prossimo autunno sarà il più difficile degli ultimi 40 anni. Inflazione reale intorno al 10%, debito pubblico altissimo, produttività delle aziende ai minimi e mercato del lavoro fermo agli anni Novanta. Se non bastasse a peggiorare la situazione c’è la fine della globalizzazione come l’abbiamo intesa a partire dal Duemila, e quindi fortissime tensioni (anche di prezzo) sulle materie prime. In tutto ciò l’euro si sta dimostrando strutturalmente debole. Non solo verso il dollaro o il franco svizzero, ma anche nei confronti di molte valute minori. Le nostre aziende, però, non potranno cavalcare l’onda della svalutazione.
Non saranno in grado di produrre (per mancanza di materie prime) e spesso, anche quando saranno in grado di farlo, avranno marginalità molto basse. Volenti o nolenti, nei prossimi mesi l’inflazione andrà combattuta con la geopolitica e con le mosse della Bce. Una gamba del problema si affronta con la politica monetaria, l’altra con la diplomazia o la forza militare. Sarà sempre più importante cercare di esercitare influenza verso i Paesi africani che esportano materie prime, così come sarà cruciae il riallineamento delle mosse della nostra banca centrale europea con quelle della Fed.
L’Italia purtroppo ha già un cappio (monetario) attorno al collo. Le scelte annunciate tre giorni fa da Christine Lagarde attorno allo schema anti spread sono così vaghe da rivestire una enorme valenza politica. Al tempo stesso l’esercizio del programma Pepp di acquisto in corso sui titoli sovrani rende Francoforte sia termometro che cura del nostro debito pubblico e, quindi, ci riporta al punto di partenza. Servirà l’ok della Commissione per avere salvagente o per non averlo. La nostra autonomia dal punto di vista della politica fiscale è dunque limitata dal vincolo accettato implicitamente con l’avvio del Pnrr e del Recovery fund. Pena l’arrivo di un modello di intervento non troppo difforme dalla Troika. È bene che il centrodestra non nasconda questi problemi. Anzi, li affronti in modo trasparente e trovi, pure in questo campo, unità d’intenti. Ad esempio, per essere più terra terra, quale sarà la posizione dei tre partiti, Lega, Fdi e Forza Italia, rispetto a un futuro ruolo di Mario Draghi? Se le indiscrezioni non sono fasulle, c’è aperta una strada che porta in direzione Nato. Potrebbe essere una scelta da sostenere? Oppure, potrebbe esserci un altro percorso che porta a un ruolo primario dentro la compagine europea. Non è nemmeno questo un segreto.
Draghi potrebbe prendere il posto di Charles Michel, al vertice del Consiglio Ue, in scadenza il prossimo anno. Potrebbe essere uno step intermedio verso il gradino più alto, adesso occupato da Ursula von der Leyen. Probabilmente troppo presto per studiare le strategie, ma soprattutto è chiaro che tali mosse non verrebbero certo esternate. Ciò che è importante capire è però se il centrodestra vorrà portare avanti una politica di rottura verso l’Ue, come spesso ha fatto la Lega sui temi dell’euro, oppure cambiare passo e avviare una politica di dialogo. Con l’obiettivo di cercare di sfilare il collo dal cappio o non farselo stringere troppo forte. In ogni caso, Draghi è non solo un tema ma anche una figura politica che sarebbe un vero peccato non prendere in considerazione. Per due motivi. Primo, ha una storia molto più vicina al centrodestra che al Pd. Secondo, è chiaramente in contrasto con Sergio Mattarella, il quale non sosterrà mai e poi mai un governo di centrodestra sia in patria che a Bruxelles. Su questo tema c’è posizione comune? Sarebbe interessante scoprirlo, a cominciare dalle alleanze dentro l’Europarlamento. La partita andrebbe avviata in contemporanea con la campagna elettorale.
Quattro impegni sulla stagione Covid che segnino una cesura con Speranza
Inutile far finta di guardare da un’altra parte o negare ipocritamente l’esistenza del problema. Per tanti elettori resta letteralmente indimenticabile (e non è un complimento, ma un sinonimo di «incancellabile») il comportamento di molti esponenti di centrodestra in tempo di pandemia. E più ancora dei voti parlamentari a sostegno delle misure di Roberto Speranza, più ancora delle mancate battaglie in senso contrario, più ancora dello schiacciamento sulla linea di Speranza anche delle regioni governate dal centrodestra, pesa il ricordo delle (evitabilissime) esibizioni mediatiche di non pochi parlamentari di centrodestra, campioni di zelo nel difendere l’indifendibile: elogi lirici del green pass e dell’obbligo vaccinale surrettizio (con relativa impossibilità di lavorare e portare il pane a casa per i «reprobi»), sostegno alle restrizioni più feroci e inutili, criminalizzazione dei dissenzienti, silenzio perfino rispetto all’approccio chiusurista che ha massacrato commercio-ristorazione-turismo-consumi.
Lo scriviamo non per riaprire polemiche o per esacerbare divisioni. Al contrario, la chiarezza è nel più totale interesse del centrodestra, che - alle prossime elezioni del 25 settembre - deve in primo luogo temere l’astensione, la non partecipazione di quote di elettori che potenzialmente non voterebbero a sinistra, ma che sono rimasti colpiti - nell’ultimo biennio - dalle ambiguità di molti parlamentari, e dalla indistinguibilità dei loro orientamenti e scelte rispetto a quanto veniva proposto e imposto dal titolare del dicastero della Salute. Meglio dunque chiarire prima le intenzioni dello schieramento in pole position per vincere: proprio per evitare che un segmento significativo (e magari decisivo) di elettori scelga di stare a casa.
Dunque, non si tratta - qui - di recriminare sul passato o di chiedere abiure politiche a chicchessia (ci mancherebbe), ma il punto è ragionare laicamente e pragmaticamente sul futuro, sulla stagione che si prepara, chiedendo a tutto il centrodestra quattro impegni pubblici, trasparenti, da onorare con serietà.
Primo. Siamo entrati (da tempo, anche se troppi fanno finta di non capirlo) nella fase che le persone più ragionevoli indicavano da tempo: quella in cui bisogna «convivere con il Covid». Dunque, in primo luogo, il centrodestra deve impegnarsi a un approccio razionale, non emotivo, non ansiogeno, non tremendista, non chiusurista, che non terrorizzi l’opinione pubblica, che non alimenti la logica emergenziale.
Secondo. Il centrodestra deve impegnarsi a non far ripartire lo strumento liberticida del green pass, e meno che mai a farne - com’è successo in passato - il cavallo di Troia per colpire la libertà delle persone, il loro diritto di muoversi e lavorare, di non essere punite e discriminate per una loro eventuale diversa scelta personale e sanitaria.
Terzo. Il centrodestra, in vista dell’autunno, deve impegnarsi a una consecutio (logica e cronologica) inversa rispetto a quella caldeggiata da Speranza. Razionalità suggerisce (prima) di sapere quali nuovi vaccini saranno disponibili, (quindi) di capire che tipo di copertura avranno tali vaccini rispetto alle varianti esistenti, e (infine) di offrire tali vaccini a chi vorrà liberamente farne uso. Ribadiamo: offrire, non obbligare. Naturalmente informando i cittadini in modo corretto e completo, segnalando in particolare agli anziani e ai fragili cosa sia più opportuno per loro. Ma senza obblighi, né diretti né surrettizi.
Quarto. Per questi motivi, è essenziale sapere preventivamente chi sia la persona che Fdi-Lega-Fi candideranno, in caso di vittoria, al ministero della Salute.
Domandare è lecito, rispondere è cortesia.
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Altro che metodo Draghi, chi vuol governare faccia proposte sui temi chiave. Il Pd sposterà la campagna elettorale su atlantismo e guerra. Ci vuole invece un programma d’urto sulla crisi. Fdi, Lega e Forza Italia affrontino ciò che interessa alla gente: salari, gestione Covid, bollette e rapporto con l’Ue.Pd e centrosinistra hanno già avviato una campagna elettorale basata su due schemi. Il primo è il tentativo di rafforzare i mini partiti di centro con l’intento di indebolire il centrodestra, nella speranza che i Calenda di turno portino via un po’ di voti (o attraggano pezzi) di Lega o di Forza Italia. D’altro canto, il centrosinistra punterà tutto sul tema dell’atlantismo. O meglio, del rischio che in caso di vittoria di Lega, Fdi e Fi si spezzi l’equilibrio Nato e si favorisca l’avanzata dei russi. Arriveranno alcune accuse generiche e altre più puntuali. Non va escluso il peso e l’impatto di eventuali inchieste giudiziarie. Chi ha l’ambizione di governare il Paese non potrà restare succube di questa narrativa. Accompagnando il dibattito della campagna elettorale, giornalisticamente ci interessa il presidio di temi cruciali che rischiano di essere oscurati da personalismi e accuse rivolte alla genesi del «draghicidio». E cioè: come affrontare la crisi d’autunno? Quale politica energetica attuerà il Paese? Come ci muoveremo di fronte alle pressioni Ue sulla transizione energetica? Poi c’è la necessità di una riforma fiscale degna di tale nome, che impari dagli errori di metodo e merito degli ultimi mesi. Ci sarà da affrontare il dramma della inflazione e maneggiare con cura i rapporti con la Bce. Infine, l’enorme capitolo del Covid. Non basterà cacciare Speranza e il suo entourage. Immaginare una alternativa implica una presa di posizione sulla pandemia e sui futuri vaccini. L’adozione del green pass e l’obbligo prima surrettizio e poi per legge (vedi gli over 50) di vaccinarsi ha spezzato la società in due. Lega e Forza Italia sono stati in quella maggioranza di governo e ora non possono più nascondersi dietro Draghi: dovranno trovare una linea comune e farsene carico davanti agli elettori.Lo speciale contiene quattro articoli.L’agenda Draghi è un trucco politico, ma di programmi c’è bisogno eccome. O almeno, chi ambisce a governare una situazione come quella italiana di fine 2022 ha l’onere di proporre approcci e risposte realistiche su una serie di urgenze. Abbiamo provato, in un inizio di campagna elettorale fin qui costruita su accuse e personalismi, a identificare quattro macro-temi, provando non a fornire sterili ricette ma suggerendo un perimetro di questioni non eludibili. Il primo è il rapporto con l’Ue: ruolo della Bce, problema dei titoli di Stato, eventuale collocazione internazionale dell’ex premier, posizione sul Patto di stabilità e alleanze sono la precondizione per qualunque politica. Secondo: il fisco. Terzo: l’energia. Quarto: la pandemia, perché Speranza sia il passato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/fisco-ue-agenda-centrodestra-2657717918.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-piano-per-affrontare-lemergenza-senza-inseguire-il-green-a-ogni-costo" data-post-id="2657717918" data-published-at="1658620865" data-use-pagination="False"> Il piano per affrontare l’emergenza senza inseguire il green a ogni costo Ansa Le campagne elettorali raramente si focalizzano sul tema energetico, considerato forse troppo specialistico o marginale, almeno fino a quando le bollette prosciugano il portafoglio dei cittadini. In quel caso, all’improvviso, ci si accorge che qualcosa non va e certamente, oggi, c’è molto che non va. Il governo uscente lascia una situazione a metà tra l’incompiuto e l’inconsistente, anche se non si può accusarlo di non avere fatto nulla: sono state avviate relazioni per avere gas da fornitori alternativi alla Russia, sono stati acquistati due rigassificatori e stanziati 33 miliardi di euro per abbassare le bollette, altri 4 per lo sconto sulle accise praticate sui carburanti. È stata imposta una tassa sui cosiddetti extraprofitti delle società energetiche e sono state riavviate le procedure per lo sfruttamento di un paio di giacimenti di gas. Il problema di tutte queste misure è che si tratta di toppe messe per pratica a situazioni mal gestite sin dall’inizio, con costi altissimi e senza un disegno. Il governo di Mario Draghi ha sottovalutato la crisi sin dall’inizio, si è trovato sempre in ritardo sul tema, reagendo a posteriori con provvedimenti-tampone, ha aderito ciecamente alle indicazioni dell’Ue, tra cui quella di abbandonare le forniture di gas dalla Russia, senza mai riuscire a incidere sulle cause della crisi energetica che sono precedenti alla guerra in Ucraina. Dopo il tragicomico do ut des draghiano «aria condizionata o pace», abbiamo sentito parlare per mesi di una proposta italiana per mettere un tetto al prezzo del gas russo, che si è persa nei corridoi dei palazzi di Bruxelles e a cui in realtà ben pochi credevano. Visto che il nuovo governo si formerà all’inizio di un autunno che rischia di essere assai critico dal punto di vista energetico (oltre che economico), cosa hanno intenzione di fare i partiti per riportare sotto controllo la situazione dell’energia? Vediamo quali sono i nodi principali. 1) La nuova maggioranza proseguirà nella rincorsa ideologica del green a tutti i costi o deciderà innanzitutto di porre in sicurezza energetica il Paese? In altri termini, si intende (o no) lavorare alla sicurezza degli approvvigionamenti senza preclusioni sulle fonti, per avere energia sicura e a costi contenuti per famiglie e imprese? Meglio ancora: si intende ricercare un equilibrio realmente ottimale tra le fonti di energia, lavorando sui vincoli geopolitici e senza barriere ideologiche? 2) Legata alla prima domanda è la seconda: quale politica estera si intende adottare, considerando che la corsa all’energia verde ci rende dipendenti in larga parte dalla Cina e che lo strappo con la Russia ci ha lasciato senza sufficiente gas, mentre l’Algeria è diventata il nostro maggiore fornitore aprendo un nuovo fronte di rischio e la Libia è di nuovo nel caos? 3) Come intendono gestire i partiti della futura maggioranza il rapporto con l’Unione europea sulla questione energetica? A un embargo su carbone, petrolio e gas russi, come quello imposto dalla Ue, chiaramente non può che conseguire una carenza di energia: si intende mettere in discussione questa strategia, che sinora ha fatto più male al sanzionante che al sanzionato? 4) Il nuovo governo sfrutterebbe compiutamente le riserve di gas naturale presenti sotto i fondali marini che circondano l’Italia, facendo ripartire la produzione di gas nazionale? 5) Il passaggio dal motore a scoppio all’auto elettrica è un fattore destabilizzante per l’indotto italiano dell’automobile, fatto soprattutto di piccole e medie imprese. I partiti sono in grado di disegnare un piano per il settore dell’automobile italiano, che lo preservi e lo rilanci? 6) Un nuovo governo avrebbe un approccio laico alle tecnologie per la generazione elettrica, considerando quindi anche il nucleare tra le fonti su cui è possibile investire? I partiti sono in grado di indicare un budget pluriennale per la ricerca scientifica pubblica sulle fonti energetiche? Questi sono solo alcune tra le tante domande possibili. Sarebbe interessante conoscere le risposte dei partiti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/fisco-ue-agenda-centrodestra-2657717918.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="serve-una-linea-tributaria-unica-per-litalia-dei-prossimi-10-anni" data-post-id="2657717918" data-published-at="1658620865" data-use-pagination="False"> Serve una linea tributaria unica per l’Italia dei prossimi 10 anni Ansa Con la fine anticipata della legislatura è venuta meno la possibilità di portare a termine la riforma fiscale, o meglio la legge delega inclusiva del pericoloso intervento sul catasto. La cosa non ci dispiace affatto. Il percorso della delega è stato funestato da una serie di ricatti politici (la balla della correlazione con i fondi del Pnrr) e da una mediazione che per definizione non poteva che essere al ribasso. Nonostante il centrodestra - bisogna ammetterlo - si sia mosso unito, sono comunque emersi due aspetti negativi e forse inevitabili. Il primo era insito nella necessità di mediazione alla base della ampia maggioranza di governo: avere a che fare con la sinistra del Pd o, peggio, con Leu, porta automaticamente al tavolo strenui sostenitori di patrimoniali e minacce alla proprietà privata. L’altro aspetto sbagliato ab origine sta invece nella forma stessa del percorso di delega. Mai delegare a un governo futuro. Soprattutto se non si ha la minima idea di quale colore lo tingerà. Si sa soltanto che avrà le mani libere di fare ciò che vuole. Adesso è quindi il caso di tirare una linea e chiedere al centro destra che sui temi del fisco, del lavoro e della tutela della proprietà privata faccia una sintesi al rialzo e non al ribasso. Agli elettori che hanno partite Iva oppure sono proprietari di piccole o piccolissime imprese interessa conoscere al più presto (e in ogni caso ben prima del 25 settembre) quale sarà la linea sulla riforma tributaria. Vale anche per i lavoratori dipendenti, e pure per i pensionati. Su questo, però, i tre partiti che andranno a comporre la coalizione fino ad oggi si sono mossi su filoni contigui ma in molti casi filosoficamente distanti. Fdi si è speso per sostenere il taglio del costo del lavoro e gli incentivi alle aziende che assumono. Ne consegue un approccio critico e fortemente riformista del reddito di cittadinanza. La Lega ha lavorato per spalleggiare le partite Iva, creando una sorta di flat tax ma al tempo stesso ha accettato che la spesa per il Rdc salisse in modo spropositato. Forza Italia si è impegnata per il taglio di Irap e Irpef, e per il sostegno alle famiglie. Nessuno dei tre partiti si è impuntato per spiegare agli elettori come abbia intenzione di riformare il sistema di riscossione e l’intera macchina dell’Agenzia delle entrate, in modo da impedire che si utilizzi quasi sempre (anche una volta è fin troppo) l’inversione dell’onere della prova nei confronti del cittadino/contribuente. La pandemia ha insegnato che in Italia, come in tutti i Paesi dove ci sono comunisti nel governo o a rischio di infettarsi di quel virus, la proprietà privata è in pericolo. I bar e i ristoranti sono stati chiusi a forza di leggi vistate da una sola persona, il presidente del Consiglio. La scelta della gestione Covid ha ucciso una buona fetta della piccola imprenditoria italiana. Abbiamo accettato di sostituire la libertà della partita Iva con semplici elemosine chiamate bonus. La riforma del fisco va fatta tenendo presente questi elementi conservatori. C’è ancora un pezzo di Italia che non desidera l’aiuto dello Stato ma preferisce che quest’ultimo gli stia il più possibile lontano, per la precisione esattamente alla distanza concordata attraverso un patto che, più che mai ora, deve essere un patto elettorale. È logico aspettarsi dal centrodestra unito una linea comune. Quanto verrà messo a budget per il taglio delle imposte? Quali imposte saranno tagliate? Via i bonus? Oppure quali bonus resteranno? Ci saranno politiche attive del lavoro? Come si farà a sostenere la produttività e quindi il rialzo dei salari? Infine, come ci porremo di fronte alle richieste dell’Ue che chiaramente ha detto di voler spostare la pressione fiscale dalle persone alle cose? Sappiamo bene che la richiesta serve semplicemente per aggredire il patrimonio immobiliare italiano che in Europa resta anomalia da debellare. Tutte le leggi sulla transizione ecologica porteranno in questa direzione. Non a caso attorno alla riforma del catasto si è scatenata una chiusura incomprensibile se non come elemento portante per un cambio sostanziale dell’Italia. Ecco, quel modello non è conservatore, non è del centrodestra. In campagna elettorale interessa leggere parola per parola quale sarà il modello fiscale che sosterrà la società italiana nei prossimi 10 anni. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/fisco-ue-agenda-centrodestra-2657717918.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="quale-futuro-per-draghi-nella-ue-aiutarci-contro-il-cappio-monetario" data-post-id="2657717918" data-published-at="1658620865" data-use-pagination="False"> Quale futuro per Draghi nella Ue? Aiutarci contro il cappio monetario Mario Draghi (Ansa) Molto probabilmente il prossimo autunno sarà il più difficile degli ultimi 40 anni. Inflazione reale intorno al 10%, debito pubblico altissimo, produttività delle aziende ai minimi e mercato del lavoro fermo agli anni Novanta. Se non bastasse a peggiorare la situazione c’è la fine della globalizzazione come l’abbiamo intesa a partire dal Duemila, e quindi fortissime tensioni (anche di prezzo) sulle materie prime. In tutto ciò l’euro si sta dimostrando strutturalmente debole. Non solo verso il dollaro o il franco svizzero, ma anche nei confronti di molte valute minori. Le nostre aziende, però, non potranno cavalcare l’onda della svalutazione. Non saranno in grado di produrre (per mancanza di materie prime) e spesso, anche quando saranno in grado di farlo, avranno marginalità molto basse. Volenti o nolenti, nei prossimi mesi l’inflazione andrà combattuta con la geopolitica e con le mosse della Bce. Una gamba del problema si affronta con la politica monetaria, l’altra con la diplomazia o la forza militare. Sarà sempre più importante cercare di esercitare influenza verso i Paesi africani che esportano materie prime, così come sarà cruciae il riallineamento delle mosse della nostra banca centrale europea con quelle della Fed. L’Italia purtroppo ha già un cappio (monetario) attorno al collo. Le scelte annunciate tre giorni fa da Christine Lagarde attorno allo schema anti spread sono così vaghe da rivestire una enorme valenza politica. Al tempo stesso l’esercizio del programma Pepp di acquisto in corso sui titoli sovrani rende Francoforte sia termometro che cura del nostro debito pubblico e, quindi, ci riporta al punto di partenza. Servirà l’ok della Commissione per avere salvagente o per non averlo. La nostra autonomia dal punto di vista della politica fiscale è dunque limitata dal vincolo accettato implicitamente con l’avvio del Pnrr e del Recovery fund. Pena l’arrivo di un modello di intervento non troppo difforme dalla Troika. È bene che il centrodestra non nasconda questi problemi. Anzi, li affronti in modo trasparente e trovi, pure in questo campo, unità d’intenti. Ad esempio, per essere più terra terra, quale sarà la posizione dei tre partiti, Lega, Fdi e Forza Italia, rispetto a un futuro ruolo di Mario Draghi? Se le indiscrezioni non sono fasulle, c’è aperta una strada che porta in direzione Nato. Potrebbe essere una scelta da sostenere? Oppure, potrebbe esserci un altro percorso che porta a un ruolo primario dentro la compagine europea. Non è nemmeno questo un segreto. Draghi potrebbe prendere il posto di Charles Michel, al vertice del Consiglio Ue, in scadenza il prossimo anno. Potrebbe essere uno step intermedio verso il gradino più alto, adesso occupato da Ursula von der Leyen. Probabilmente troppo presto per studiare le strategie, ma soprattutto è chiaro che tali mosse non verrebbero certo esternate. Ciò che è importante capire è però se il centrodestra vorrà portare avanti una politica di rottura verso l’Ue, come spesso ha fatto la Lega sui temi dell’euro, oppure cambiare passo e avviare una politica di dialogo. Con l’obiettivo di cercare di sfilare il collo dal cappio o non farselo stringere troppo forte. In ogni caso, Draghi è non solo un tema ma anche una figura politica che sarebbe un vero peccato non prendere in considerazione. Per due motivi. Primo, ha una storia molto più vicina al centrodestra che al Pd. Secondo, è chiaramente in contrasto con Sergio Mattarella, il quale non sosterrà mai e poi mai un governo di centrodestra sia in patria che a Bruxelles. Su questo tema c’è posizione comune? Sarebbe interessante scoprirlo, a cominciare dalle alleanze dentro l’Europarlamento. La partita andrebbe avviata in contemporanea con la campagna elettorale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/fisco-ue-agenda-centrodestra-2657717918.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="quattro-impegni-sulla-stagione-covid-che-segnino-una-cesura-con-speranza" data-post-id="2657717918" data-published-at="1658620865" data-use-pagination="False"> Quattro impegni sulla stagione Covid che segnino una cesura con Speranza Inutile far finta di guardare da un’altra parte o negare ipocritamente l’esistenza del problema. Per tanti elettori resta letteralmente indimenticabile (e non è un complimento, ma un sinonimo di «incancellabile») il comportamento di molti esponenti di centrodestra in tempo di pandemia. E più ancora dei voti parlamentari a sostegno delle misure di Roberto Speranza, più ancora delle mancate battaglie in senso contrario, più ancora dello schiacciamento sulla linea di Speranza anche delle regioni governate dal centrodestra, pesa il ricordo delle (evitabilissime) esibizioni mediatiche di non pochi parlamentari di centrodestra, campioni di zelo nel difendere l’indifendibile: elogi lirici del green pass e dell’obbligo vaccinale surrettizio (con relativa impossibilità di lavorare e portare il pane a casa per i «reprobi»), sostegno alle restrizioni più feroci e inutili, criminalizzazione dei dissenzienti, silenzio perfino rispetto all’approccio chiusurista che ha massacrato commercio-ristorazione-turismo-consumi. Lo scriviamo non per riaprire polemiche o per esacerbare divisioni. Al contrario, la chiarezza è nel più totale interesse del centrodestra, che - alle prossime elezioni del 25 settembre - deve in primo luogo temere l’astensione, la non partecipazione di quote di elettori che potenzialmente non voterebbero a sinistra, ma che sono rimasti colpiti - nell’ultimo biennio - dalle ambiguità di molti parlamentari, e dalla indistinguibilità dei loro orientamenti e scelte rispetto a quanto veniva proposto e imposto dal titolare del dicastero della Salute. Meglio dunque chiarire prima le intenzioni dello schieramento in pole position per vincere: proprio per evitare che un segmento significativo (e magari decisivo) di elettori scelga di stare a casa. Dunque, non si tratta - qui - di recriminare sul passato o di chiedere abiure politiche a chicchessia (ci mancherebbe), ma il punto è ragionare laicamente e pragmaticamente sul futuro, sulla stagione che si prepara, chiedendo a tutto il centrodestra quattro impegni pubblici, trasparenti, da onorare con serietà. Primo. Siamo entrati (da tempo, anche se troppi fanno finta di non capirlo) nella fase che le persone più ragionevoli indicavano da tempo: quella in cui bisogna «convivere con il Covid». Dunque, in primo luogo, il centrodestra deve impegnarsi a un approccio razionale, non emotivo, non ansiogeno, non tremendista, non chiusurista, che non terrorizzi l’opinione pubblica, che non alimenti la logica emergenziale. Secondo. Il centrodestra deve impegnarsi a non far ripartire lo strumento liberticida del green pass, e meno che mai a farne - com’è successo in passato - il cavallo di Troia per colpire la libertà delle persone, il loro diritto di muoversi e lavorare, di non essere punite e discriminate per una loro eventuale diversa scelta personale e sanitaria. Terzo. Il centrodestra, in vista dell’autunno, deve impegnarsi a una consecutio (logica e cronologica) inversa rispetto a quella caldeggiata da Speranza. Razionalità suggerisce (prima) di sapere quali nuovi vaccini saranno disponibili, (quindi) di capire che tipo di copertura avranno tali vaccini rispetto alle varianti esistenti, e (infine) di offrire tali vaccini a chi vorrà liberamente farne uso. Ribadiamo: offrire, non obbligare. Naturalmente informando i cittadini in modo corretto e completo, segnalando in particolare agli anziani e ai fragili cosa sia più opportuno per loro. Ma senza obblighi, né diretti né surrettizi. Quarto. Per questi motivi, è essenziale sapere preventivamente chi sia la persona che Fdi-Lega-Fi candideranno, in caso di vittoria, al ministero della Salute. Domandare è lecito, rispondere è cortesia.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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