
Fondi in manovra per evitare il default di Napoli, Reggio Calabria, Torino e Palermo. In cambio i sindaci dovranno alzare le tasse e tagliare servizi e versamenti alle aziende.Vi ricordate Mario Draghi che all’assemblea di Confindustria affermò - in contrasto con Enrico Letta che voleva inserire una tassa di successione - che non era assolutamente il momento di togliere soldi agli italiani ma di dare soldi agli italiani? E chi erano questi italiani? Le fondamenta dell’economia: le famiglie e le imprese. Ebbene il provvedimento salva Comuni, inserito dal governo nella manovra e che riguarda i Comuni di Napoli, Torino, Palermo e Reggio Calabria, a guardarci bene dentro va nel senso esattamente opposto. Alla fine graverà, e pesantemente, sulle famiglie e sulle imprese di quei territori. È vero che siamo abituati ormai a tutto ma quando lo abbiamo letto gli occhi sono usciti dalle orbite. Ci pareva francamente impossibile. Vediamo due numeri giusto per capire. Si tratta di un fondo di nientepopodimenoché 2,7 miliardi di euro da spalmare su 21 anni per evitare che i quattro Comuni citati vadano in default, cioè non paghino più i creditori, cioè falliscano - tanto per intenderci - con conseguenze gravi sui cittadini. I debiti accumulati da questi Comuni sono impressionanti: Napoli 2,74 miliardi, Torino 888 milioni, Palermo 632, Reggio Calabria 339. In termini di debito che pesa sulle spalle dei cittadini le somme ammontano a 2.599 euro a testa a Napoli, 1.938,4 a Reggio Calabria, 1.035,5 a Torino e 960,8 a Palermo. È esclusa Roma che pure ha un debito di 507 milioni perché divisa questa somma per il numero dei cittadini risulta inferiore a 700 euro che è la soglia pro capite stabilita per l’aiuto di Stato, infatti a Roma sulla testa di ogni romano pesano «solo» 180,5 euro.Fin qui i numeri e fin qui sembrerebbe filare tutto dritto. I Comuni rischiano di andare a gambe all’aria, se vanno loro a gambe all’aria ci vanno anche le famiglie e le imprese del territorio e non solo quelle del territorio ma anche quelle che pur non essendo di quei luoghi hanno lavorato per quei Comuni, insomma un disastro. Quindi tutto bene, no? Va nella direzione di quello che aveva solennemente affermato il presidente del Consiglio, Mario Draghi? No, purtroppo no. Va nella direzione opposta. Infatti anche in questo caso, come ha dovuto fare l’Italia per ottenere gli aiuti dall’Europa, i Comuni interessati dovranno sottoscrivere un Accordo per il ripiano del disavanzo e per il rilancio degli investimenti che recherà alla fine le firme del sindaco e del presidente del Consiglio. In sintesi questo accordo prevede delle norme molto dannose proprio per le famiglie e per le imprese che hanno lavorato per quei Comuni e devono avere i soldi da anni e anni. Partiamo dalle famiglie. A oggi i Comuni non possono aumentare l’addizionale Irpef oltre lo 0,8 per mille, dopo la firma dell’Accordo la potranno aumentare senza un limite prefissato. Secondo voi dovendo sistemare i conti, cioè come si dice in gergo tecnico «ristrutturare» i Comuni, i sindaci dove li andranno a prendere i soldi? Utilizzando gli unici due strumenti possibili: taglio dei servizi e aumento delle addizionali. Chi pagherà dunque questo accordo? Le famiglie che tra l’altro si vedranno portare via anche quell’elemosina di riduzione dell’Irpef che troveranno nello stipendio. Neanche il mago Silvan: te li do da una parte (briciole), te li tolgo dall’altra.Per le imprese, se possibile, sarà pure peggio. I fornitori dei Comuni, le imprese che hanno gestito servizi sociali, manutenzione del verde e delle strade, opere edilizie e tutto quello che serve al normale andamento di un Comune dovranno, entro giugno prossimo, firmare un accordo che prevederà un taglio alle imprese creditrici (che pur avendo lavorato non vedono il becco d’un quattrino da anni, molti anni, tanto che qualcuno ha portato i libri in tribunale) che andrà dal 20% per i crediti inferiori ai tre anni e poi su su fino al 60% per quelli superiori ai dieci anni, che non sono pochi, soprattutto per le manutenzioni e le opere edilizie, ma anche per molto altro. Insomma tagli che, salvo imprese con le spalle molto grosse e scarsamente indebitate (una minoranza), saranno tali da farle fallire. Ora la domanda è: che colpa hanno famiglie e imprese sul disastro combinato da questi Comuni? Nessuna. E perché allora deve ricadere - come accadrà - proprio su di loro la colpa di altri? Una misura palesemente ingiusta e vessatoria. Un provvedimento indegno che andrebbe rivisto in profondità proprio a partire da quell’Accordo semplicemente perché è totalmente sbagliato.
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Le riserve auree del nostro Paese non appartengono alla cassa centrale ma a tutti noi.
«Vogliamo mettere le cose in chiaro. L’oro di Banca d’Italia è frutto del lavoro della nostra gente. È di sua proprietà. In Italia la proprietà di ogni immobile, automobile e barca è registrata. Perché non dovrebbe valere lo stesso per un patrimonio di quasi 300 miliardi?». Sono le dichiarazioni rilasciate al Financial Times dal capogruppo dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, primo firmatario di un emendamento alla legge di bilancio che stabilisce che «le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo Italiano».
Palazzo Koch, sede della Banca d'Italia (Ansa)
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«Vogliamo mettere le cose in chiaro. L’oro di Banca d’Italia è frutto del lavoro della nostra gente. È di sua proprietà. In Italia la proprietà di ogni immobile, automobile e barca è registrata. Perché non dovrebbe valere lo stesso per un patrimonio di quasi 300 miliardi?». Sono le dichiarazioni rilasciate al Financial Times dal capogruppo dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, primo firmatario di un emendamento alla legge di bilancio che stabilisce che «le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo Italiano».
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