2024-01-24
Il calcio italiano entra al circo arabo senza capire di essere il pagliaccio
Inter-Napoli, finale di Supercoppa allo stadio di Riad. Il minuto di silenzio per Gigi Riva (Getty Images)
I fischi dei sauditi al minuto di silenzio per Gigi Riva sono colpa della Lega, che si è fiondata a Riyad per soldi totalmente priva di cognizione. Al costo di pochi spiccioli, gli sceicchi hanno deriso i critici e sfregiato un mito.«Tu non sai quanto ti amooo/tu sei il vanto di Milanooo». Cantato dai tifosi arabi in maglia nerazzurra che circondavano il giornalista della Rai, il coro dell’Inter al cous-cous faceva impressione. Poi un dettaglio ha rivelato la fiction: gli pseudo-ultrà sauditi leggevano il testo sul display del telefonino. Sostenitori cartonati, felici a comando per dare un senso alla festa nel deserto. Probabili figuranti, ingaggiati come ai mondiali del Qatar quando gli stadi venivano riempiti da plotoni di comparse. Lasciando Riyad ti rimane addosso la sensazione posticcia di qualcosa di finto, di forzato, come tutta l’operazione Supercoppa voluta dalla Lega (e avallata da una Federcalcio immobile) per dragare qualche milione di euro all’angolo di un semaforo. Pecunia non olet, sempre che non crei imbarazzi. E invece la trasferta collettiva ne ha provocati a raffica, rafforzandoci nella certezza d’essere finiti in mezzo a un evento quasi impresentabile, apparecchiato dai vertici del calcio italiano per compiacere gli sceicchi impegnati nel più smaccato degli sport washing. Una genuflessione senza compromessi, che ha avuto il suo culmine (o abisso) nei fischi alla memoria di Gigi Riva durante il minuto di silenzio all’inizio del secondo tempo della finale Inter-Napoli. Sorpresa, disgusto. Il segnale supremo che stava accadendo qualcosa che non ha niente a che vedere con il rito laico del pallone: mentre il tabellone luminoso dell’Al Awwal Park Stadium proiettava la fotografia di uno dei più grandi calciatori italiani di sempre, i tifosi arabi fischiavano. Non per colpa loro. Nella cultura musulmana il silenzio pubblico per onorare un defunto non è contemplato, è del tutto estraneo alle usanze. La Lega avrebbe dovuto saperlo ed evitare di esporre un’icona a un simile spettacolo. Avrebbe dovuto saperlo perché la medesima reazione era avvenuta due settimane fa con Franz Beckenbauer durante la Supercoppa spagnola fra Real Madrid e Atletico Madrid. Sarebbe stato meglio glissare e organizzare un momento speciale di memoria collettiva nella prossima giornata di campionato. Invece è andato in onda in mondovisione un minuto di dilettantismo che gli applausi commossi dei tifosi italiani non sono riusciti a mitigare. Un circo Medrano evitabile, nel quale la parte dei clown l’abbiamo fatta noi occidentali. Ancora una volta.L’irritante forzatura è proseguita nel dopo partita, quando Aurelio De Laurentiis si è presentato davanti ai microfoni. Tutti si aspettavano una feroce tirata vittimistica contro l’arbitro Antonio Rapuano, ma «o’ presidente» era concentrato su un altro tema (a lui più caro dal lato imprenditoriale): la beatificazione dell’Arabia Saudita. «La cosa meravigliosa di questa Supercoppa, che io ho anche contrastato, è stata il paese ospitante. Devo ammettere che mi hanno molto colpito la crescita e la democratizzazione dell’Arabia, in pochi mesi si è trasformata in un paese apertissimo. Diventerà la centrale del nuovo mondo, ho visto un luogo che annebbia Disneyland. Con 100.000 gru costruiranno un nuovo paese. Sono furbi e intelligenti questi arabi: usano il calcio per attrarre la gente in vista dei mondiali del 2030».Uno spottone in piena regola degno di un Matteo Renzi a cottimo. Un peana imbarazzante che seppellisce sotto un quintale di sabbia i diritti umani, la violenza di Stato, la democrazia per come la intendiamo noi. Tutto soffocato, azzerato, dall’estasi dell’oro senza neppure la fatica di cercarlo correndo, come faceva Eli Wallach nell’immortale scena del cimitero ne Il buono, il brutto e il cattivo. Poi il numero uno del Napoli ha aggiunto: «La Lega non funziona, hanno cambiato anche le regole delle ammonizioni, non si capisce più nulla e adesso pagheremo queste sanzioni in campionato (dove sennò, visto che in caso contrario dovrebbero essere saldate almeno fra un anno, senza sapere se Inter o Napoli saranno di nuovo in lizza, ndr). Così la Lega è nemica dei club».Alla fine il mini torneo nel deserto non è piaciuto a nessuno, men che meno a Maurizio Sarri che lo osteggiava da mesi: «Questa è una mercificazione della passione per il calcio». Il tecnico ha pagato la sua franchezza, condivisa dagli ultrà laziali assenti per protesta, con lo striscione «Lazio merda» esposto pure nella partita sbagliata, Fiorentina-Napoli. Tutto per un pugno di dollari, tutto da non ripetere. Non per il presidente di Lega, Lorenzo Casini, che si è fatto venire un’idea meravigliosa: giocare un’intera giornata di campionato all’estero sull’esempio della Nba di basket. Portare le 10 partite «magari proprio in Arabia Saudita, diventato un paese esempio per il calcio già da qualche anno. È una cosa che stiamo valutando, con pro e contro». Il primo contro è l’autorizzazione di Fifa e Uefa, tutt’altro che scontata. Il secondo lo spiega lui: «I tifosi potrebbero perdere una giornata». Traduzione: mancherebbero i relativi incassi. Ma, come sanno anche i raccattapalle, i milioni in petrodollari per coprire le perdite laggiù abbondano. La Lega è pronta ad aprire un ufficio operativo a Riyad e nonostante le gaffes e gli imbarazzi il circo verrà replicato a lungo. La minaccia arriva dall’ad della Lega, Luigi De Siervo: «Se ne giocheranno in Arabia altri quattro nei prossimi sei anni. Le partite saranno viste in 180 Paesi, con oltre 400 milioni di famiglie collegate. La final four è una formula che abbiamo fortemente voluto». Venghino signori, il torneo di plastica ha trovato la sua casa per «oscurare Disneyland». Dove tutto è finto. Tranne la Supercoppa alzata da Lautaro Martinez nella notte della mezzaluna.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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