2025-03-10
Ferragni in lite con i soci per i conti in rosso
Fenice, la società dell’influencer, ha accusato pesanti perdite e il cda ha deliberato un aumento di capitale da 6,4 milioni di euro per compensare il «pandoro gate». Ci sono però forti tensioni: l’azionista Morgese vota contro e valuta di impugnare il bilancio.Per Chiara Ferragni è davvero l’ultimo atto di una débâcle di cui non si intravede la possibilità di una inversione di tendenza. Dopo la caduta d’immagine, con l’esercito dei follower in fuga, il contraccolpo del caso Balocco, scoppiato a dicembre del 2023 che le è costato anche un rinvio a giudizio per truffa aggravata, si è fatto sentire sul bilancio 2024. Ieri si è svolta l’assemblea di Fenice, la società titolare dei marchi e cuore delle attività dell’imprenditrice digitale. È stato votato l’aumento di capitale per 6,4 milioni di euro, passato con il voto favorevole di Sisterhood e di Alchimia. In particolare Sisterhood si è detta «pronta alla sottoscrizione in proporzione alla quota detenuta» ed eventualmente anche per la parte che non fosse sottoscritta dagli altri soci, per consentire a Fenice di «proseguire con successo la propria attività». L’assemblea è stata caratterizzata da un clima molto teso. Le indiscrezioni della vigilia sullo stato di salute del bilancio sono state confermate. Come pure la spaccatura tra i soci, con la posizione del socio Pasquale Morgese che ieri ha votato contro e ora valuta l’impugnazione del bilancio. L’imprenditore pugliese delle calzature avrebbe ritenuto le perdite troppo elevate e secondo i rumors della vigilia, citati dal Corriere della Sera, non vedrebbe «prospettive per Fenice, il cui unico asset è il marchio Chiara Ferragni, tutt’altro che attraente oggi per i grandi player della moda». In passato Morgese aveva espresso parole critiche sul futuro di Fenice: «Il business nel 2024 è crollato drammaticamente, ma in questi mesi nessuno ha mosso un dito». E poi: «Bisognava fare un piano industriale e tracciare una strada, cosa che gli amministratori non hanno fatto. Da dicembre a oggi non siamo mai stati messi al corrente di possibili sviluppi. Era una società ferma, bloccata, dove nessuno dava istruzioni ai collaboratori sulla direzione da intraprendere. Gli amministratori dovevano prevedere lo scenario di quest’anno, con tutte le cautele e gli accantonamenti necessari, visto che il business nel 2024 è crollato drammaticamente». Parole dure lanciate a ottobre scorso, ma che avrebbero avuto un’eco nell’assemblea e portato il socio ad assumere una posizione drastica.Gli azionisti, oltre all’aumento del capitale di Fenice, hanno approvato il bilancio, che ha accusato pesanti perdite nell’ultimo anno a seguito dello scandalo del pandoro e delle uova di Pasqua. Secondo indiscrezioni (i dati non sono pubblici dal momento che la società non è quotata a Piazza Affari) Fenice, a seguito di ricavi che nel 2023 hanno raggiunto i 12 milioni di euro, avrebbe chiuso l’esercizio del 2024 con una cifra al di sotto dei 2 milioni, cumulando nel biennio perdite fino a 10 milioni che avrebbero azzerato il patrimonio. Chiara Ferragni possiede il 32,5% di Fenice attraverso la holding Sisterhood, Paolo Barletta attraverso Alchimia il 40% e Pasquale Morgese il 27,5%. Da giugno 2024 la direttrice generale di Sisterhood è la madre di Chiara Ferragni, Marina Di Guardo. Amministratore unico è Claudio Calabi, insediatosi a novembre scorso, dopo le dimissioni di Barletta e Ferragni e autore di drastici tagli.La ricapitalizzazione è a garanzia della continuità aziendale ed è il primo passo per poi definire un piano di rilancio. I prossimi dodici mesi saranno decisivi. C’è chi sostiene che la società potrebbe avere sbocchi di mercato nel settore del make up, della gioielleria e della pelletteria, con uno sguardo ai mercati internazionali. La partita è comunque complessa, la crisi di reputazione ha fatto terra bruciata attorno al brand e i grandi marchi della moda hanno battuto la ritirata. Un tentativo di riconquistare visibilità positiva l’imprenditrice l’ha fatto partecipando in prima fila alle sfilate milanesi e poi a quelle parigine, ostentando tranquillità sulle vicende giudiziarie. Raggiunta dall’inviato del programma di Massimo Giletti, Lo stato delle cose, Ferragni ha commentato l’attesa dell’udienza del prossimo settembre: «Come mi sto preparando? Bene, sono serena, alla fine non ho fatto niente». E a Rai Tre: «Qualcosa che non rifarei? Beh tante cose, tipo fidarmi di persone sbagliate, tutto qui. Ma alla fine c’è un rimedio a tutto quanto», ha aggiunto. Parole di ottimismo, che però si scontrano con la difficoltà del percorso sia dal punto di vista economico che della reputazione. Il Web può portare alle stelle, ma non perdona chi tradisce i follower. Ripulire un marchio sarà più complesso e avrà bisogno di più tempo di quanto c’è voluto per farlo brillare nel giro di pochi anni.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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