
Finalmente abbiamo compreso quale sia il grande problema delle trattative di pace in Medio Oriente. Non il difficoltoso disarmo di Hamas, non le esecuzioni pubbliche compiute dai jihadisti, non la foga espansionista dei coloni israeliani o il grilletto facile dell’Idf. Il problema è che a discutere di tregua a Sharm el-Sheikh non ci sono abbastanza donne. Lo abbiamo compreso perché - con mirabile womansplaining (cioè col piglio saputo delle donne che spiegano cose ai maschi inetti) - ce lo ha chiarito ieri su Avvenire Antonella Mariani.
«Di un mondo “maschiocentrico” abbiamo assaggiato un antipasto lunedì sera, con la assai discussa photo-opportunity che ritrae i leader radunati dal presidente Trump in Egitto per la cerimonia della firma dell’accordo: 32 uomini, paludati nelle grisaglie nere o nelle tuniche immacolate», scrive l’editorialista del quotidiano dei vescovi. «E poi lei, l’unica donna, la premier italiana Giorgia Meloni, peraltro un po' isolata al margine esterno, come a rimarcare anche fisicamente una separazione di genere. Assenti le altre leader europee che avrebbero almeno un po’ riequilibrato il gap, Ursula von der Leyen e Kaja Kallas non erano state invitate, il fermo immagine riflette la scarsità di donne che arrivano ai vertici della politica, ne rimangono escluse per i meccanismi ben noti di conservazione del potere o per vere e proprie discriminazioni (a Sharm erano presenti molti Paesi del mondo arabo)».
La Mariani si domanda con preoccupazione se quegli uomini in grisaglia o in divisa saranno capaci di fare davvero gli interessi dei loro popoli, cosa che sarebbe assicurata se al tavolo ci fossero più donne. «Premi Nobel e mediatrici internazionali ci hanno raccontato la loro esperienza e confermato che le donne, quando siedono ai tavoli, portano anche altre questioni oltre al rilascio degli ostaggi, i confini, la demilitarizzazione e il disarmo…», spiega la firma di Avvenire. «Se applichiamo questa evidenza alle trattative in corso per il Medio Oriente, possiamo prevedere che la mancanza di mediatrici donne comporterà una ferita al futuro dei popoli di questa parte del mondo. Tutti quegli uomini ai tavoli - generali, spie, funzionari, politici - metteranno a tema la ricostruzione del sistema scolastico, l’accesso all’acqua, la sicurezza dei civili, i processi di riconciliazione, le politiche per una parità di genere?».
Ora, certo non sappiamo dire se i maschi presenti a Sharm riusciranno davvero a portare la pace nella martoriata Palestina. Sappiamo tuttavia un paio di altre cose. La prima è che a Giorgia Meloni è presente, e non defilata come suggerisce Avvenire, non in quanto femmina ma in quanto guida di una nazione ritenuta affidabile e rilevante nel processo di pacificazione, motivo per cui è un filo ridicolo cercare di sminuirne il ruolo. La seconda verità che ci sentiamo di esporre è che una maggioranza di donne non potrebbe fare granché di diverso in Egitto come altrove. Anzi, forse addirittura peggiorerebbe la situazione. E non perché le donne non siano in grado di trattare, ma perché conosciamo fin troppo bene le esponenti politiche europee per fingere che possano applicare dolcezza materna a qualsivoglia conflitto.
La Mariani si strugge per l’assenza di Kallas e von der Leyen. Dimentica forse di stare parlando di due delle più determinate guerrafondaie degli ultimi decenni. Ancora pochi giorni fa, la Kallas ha ribadito il fulcro del suo pensiero: «Il modo migliore per prevenire la guerra è essere indiscutibilmente pronti a vincerla». Sono anni che lei e Ursula spingono per uno spaventoso aumento della spesa militare nell’Ue e si oppongono a qualsiasi ammorbidimento dell’ostilità nei confronti della Russia. Se queste due donne non siedo ai tavoli mediorientali, dunque, non è per via di una presunta discriminazione di genere, ma per la loro incompetenza.
Sono state totalmente incapaci di avviare anche solo mezzo tentativo di dialogo con la Russia al fine di risolvere la crisi ucraina, anzi a dirla tutta continuano da fin troppo tempo a versare benzina sul fuoco. Quanto alla partita palestinese, di nuovo non risultano pervenute. Dunque in virtù di quale merito si dovrebbe coinvolgerle in processi che non hanno contribuito a sostenere o peggio che hanno ostacolato?
Più in generale, non si capisce perché le donne in quanto tali dovrebbero garantire relazioni più pacifiche. Per smentire tale affermazione basterebbe citare due parole: Hillary Clinton. Ma possiamo anche chiamare in causa personaggi meno rilevanti per le sorti del mondo. Un interessante esempio di discussione al femminile sul problema palestinese ci è stato offerto negli ultimi giorni da Francesca Albanese, che anche ieri accusava la stampa italiana di essere «filo sionista». E non parliamo delle baruffe che la hanno opposta a Liliana Segre e hanno poi opposto quest’ultima a Eugenia Roccella (altro esempio di concordia femminile). Parliamo banalmente dell’insistenza con cui continua a dire che non si può chiamare pace l’accordo in corso perché «è sia un insulto che una distrazione. [...] Israele dovrà affrontare giustizia, sanzioni, disinvestimenti e boicottaggi fino a quando l’occupazione, l’apartheid e il genocidio non saranno finiti e ogni crimine non sarà stato reso conto». Come a dire: il conflitto non può certo fermarsi qui.
L’amara realtà è che la politica estera si gioca sui rapporti di forze, e non sulla morale. Non esistono solo giuste o sbagliate, ma solo soluzioni possibili o impossibili. Finora tutte le radiose donne ai vertici della politica mondiale, assieme a tanti uomini dell’élite, non hanno fatto nulla di concreto per salvare vite in Ucraina, in Palestina e altrove. Ci sta provando ora un maschio brutto e cattivo, Donald Trump. E certo lo fa per i suoi interessi, non per bontà d’animo. Ma almeno uno spiraglio si è aperto. Solo che una bella fetta di intellettuali, commentatori e politici - maschi e femmine - ce la stanno mettendo tutta per otturarlo, quello spiraglio. Preferiscono guerra e morte alla caduta dei loro pregiudizi. Non ammettono che la pace è buona in quanto pace, e non per altro. Non vogliono la pace di Trump: vogliono la «pace giusta». Ovvero quella che non arriva mai.