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2018-12-11
Maria Antonietta li profumava, Cleopatra li riempiva di lacrime: la storia passa da un fazzoletto
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All'epoca dei Romani ne esistevamo di due tipi: l'orarium, che si portava annodato al polso sinistro per asciugarsi la bocca durante le orazioni, e il sudarium, legato alla cintura oppure al collo. Diventano veri e propri gioielli nel XV secolo, come raccontano i manuali di buone maniere, tenuti dalle signore tra le mani, come vezzo. Pegni d'amore sono i cinque fazzoletti di fili d'oro, d'argento e seta che Enrico IV regalò a Gabrielle D'Estréss, la sua favorita, in modo che li esibisse durante i ricevimenti a Corte, come attestazione sociale. Abitudine analoga l'avevano anche i sultani, che facevano planare una pezzuola all'interno dell'harem, così da invitare le loro ancelle a giochi amorosi. Nel tempo, con l'arrivo dell'abitudine di fiutare il tabacco, il fazzoletto bianco lasciò il passo a quelli colorati, che mascheravano meglio lo sporco.
E quando si è trasformato in un feticcio di lusso? Nel diciassettesimo secolo, quando ricami di perle, incrostazioni di gemme, trine, fiocchi e arabeschi gli domarono una inaspettata tridimensionalità: fu allora che le iniziali apparirono sulle stoffe, aprendo le porte alla mania della personalizzazione, che ancora oggi ci appartiene, con l'intento di ritrovarli in caso venissero persi. Era il 1687 quando Luigi XIV decise per legge che la forma ufficiale dovesse essere rigorosamente quadrata e fu Maria Antonietta a inventarsi il capriccio di profumarli, per lasciare una scia indimenticabile.
Tutti gli usi frivoli del fazzoletto furono messi in pausa durante la Rivoluzione francese, quindi sparirono come accessori eleganti per la seduzione. Tornarono a spron battuto nell'Ottocento, diventando indispensabili nella celebrazione della femminilità. Come avrete capito, quel piccolo lenzuolino era custode di segreti – dal pegno d'amore all'espediente per nascondere i denti cariati – ma anche un fedele amico per nascondere i sanguinamenti dalla bocca provocati dalla tisi. Regalare un fazzoletto era tutt'altro che un gesto banale, lo si faceva in segno di amicizia, per corteggiare, per dire qualcosa, per promettere.
Dall'Ottocento in poi è cominciata l'abitudine di lasciar cadere a terra il fazzoletto sperando che qualche baldo giovanotto lo raccogliesse, dando inizio a un corteggiamento e poi chissà, a qualcosa di più. Gli uomini usavano tenerlo in tasca, ma poi con il passare del tempo le signore, stufe di doverlo trattenere tra le dita, lo infilarono in borsetta, poiché in mano già c'erano ventaglio, guanti, fiori e spesso un ombrellino per ripararsi dal sole.
Oggi dove sono finiti quei piccoli tesori della nonna? Negli armadi con la naftalina, custodi di pensieri femminili, a volte peccaminosi, a volte tristi, come sintesi di un mondo emotivo difficile da spiegare a parole. In borsa, invece, si tengono fazzoletti di carta, spesso con disegni stampati o intrisi di aloe vera, profumi ed eucalipto.
Dal magico archivio di Lineapiù abbiamo estratto le lavorazioni del pizzo che in tutte le epoche hanno avuto più successo, soprattutto quando si parla di decorazioni per fazzoletti. C'è la lavorazione a buratto, che crea un effetto a rete quadrata, con un risultato geometrico. Il filet invece, che è una tecnica nata nel Trecento, ha i nodini e spesso è stata usata per le acconciature femminili di perle. La lavorazione a fili tirati è invece quella che ha segnato il passaggio dal ricamo al merletto ed è nata in Sicilia (famosi infatti sono i tipici sfilati siciliani). Proseguendo, c'è il reticello, tipico del Rinascimento, con la sua assenza di strutture rigide; la tecnica ad ago, che è la più complessa e dunque pregiata, e infine la lavorazione a fuselli, molto conosciuta perché realizzata con il tombolo, sintesi di una lunga serie di competenze artigiane.
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Nell'archivio storico di Lineapiù, grande azienda di filati per la maglieria, La Verità è andata alla scoperta della nuova sala dedicata alle collezioni di pizzi, ricami e campionari tessili. Grande protagonista, il fazzoletto, di cui abbiamo potuto tracciare la storia attraverso i libri antichi e le riviste di costume e moda raccolti nelle due librerie dello spazio fiorentino. Si racconta che Cleopatra inviasse ad Antonio fazzoletti intrisi di lacrime, ma già si parlava di rettangoli di tessuto bordati di frange nella Cina dell'anno mille prima di Cristo.All'epoca dei Romani ne esistevamo di due tipi: l'orarium, che si portava annodato al polso sinistro per asciugarsi la bocca durante le orazioni, e il sudarium, legato alla cintura oppure al collo. Diventano veri e propri gioielli nel XV secolo, come raccontano i manuali di buone maniere, tenuti dalle signore tra le mani, come vezzo. Pegni d'amore sono i cinque fazzoletti di fili d'oro, d'argento e seta che Enrico IV regalò a Gabrielle D'Estréss, la sua favorita, in modo che li esibisse durante i ricevimenti a Corte, come attestazione sociale. Abitudine analoga l'avevano anche i sultani, che facevano planare una pezzuola all'interno dell'harem, così da invitare le loro ancelle a giochi amorosi. Nel tempo, con l'arrivo dell'abitudine di fiutare il tabacco, il fazzoletto bianco lasciò il passo a quelli colorati, che mascheravano meglio lo sporco.E quando si è trasformato in un feticcio di lusso? Nel diciassettesimo secolo, quando ricami di perle, incrostazioni di gemme, trine, fiocchi e arabeschi gli domarono una inaspettata tridimensionalità: fu allora che le iniziali apparirono sulle stoffe, aprendo le porte alla mania della personalizzazione, che ancora oggi ci appartiene, con l'intento di ritrovarli in caso venissero persi. Era il 1687 quando Luigi XIV decise per legge che la forma ufficiale dovesse essere rigorosamente quadrata e fu Maria Antonietta a inventarsi il capriccio di profumarli, per lasciare una scia indimenticabile.Tutti gli usi frivoli del fazzoletto furono messi in pausa durante la Rivoluzione francese, quindi sparirono come accessori eleganti per la seduzione. Tornarono a spron battuto nell'Ottocento, diventando indispensabili nella celebrazione della femminilità. Come avrete capito, quel piccolo lenzuolino era custode di segreti – dal pegno d'amore all'espediente per nascondere i denti cariati – ma anche un fedele amico per nascondere i sanguinamenti dalla bocca provocati dalla tisi. Regalare un fazzoletto era tutt'altro che un gesto banale, lo si faceva in segno di amicizia, per corteggiare, per dire qualcosa, per promettere. Dall'Ottocento in poi è cominciata l'abitudine di lasciar cadere a terra il fazzoletto sperando che qualche baldo giovanotto lo raccogliesse, dando inizio a un corteggiamento e poi chissà, a qualcosa di più. Gli uomini usavano tenerlo in tasca, ma poi con il passare del tempo le signore, stufe di doverlo trattenere tra le dita, lo infilarono in borsetta, poiché in mano già c'erano ventaglio, guanti, fiori e spesso un ombrellino per ripararsi dal sole.Oggi dove sono finiti quei piccoli tesori della nonna? Negli armadi con la naftalina, custodi di pensieri femminili, a volte peccaminosi, a volte tristi, come sintesi di un mondo emotivo difficile da spiegare a parole. In borsa, invece, si tengono fazzoletti di carta, spesso con disegni stampati o intrisi di aloe vera, profumi ed eucalipto.Dal magico archivio di Lineapiù abbiamo estratto le lavorazioni del pizzo che in tutte le epoche hanno avuto più successo, soprattutto quando si parla di decorazioni per fazzoletti. C'è la lavorazione a buratto, che crea un effetto a rete quadrata, con un risultato geometrico. Il filet invece, che è una tecnica nata nel Trecento, ha i nodini e spesso è stata usata per le acconciature femminili di perle. La lavorazione a fili tirati è invece quella che ha segnato il passaggio dal ricamo al merletto ed è nata in Sicilia (famosi infatti sono i tipici sfilati siciliani). Proseguendo, c'è il reticello, tipico del Rinascimento, con la sua assenza di strutture rigide; la tecnica ad ago, che è la più complessa e dunque pregiata, e infine la lavorazione a fuselli, molto conosciuta perché realizzata con il tombolo, sintesi di una lunga serie di competenze artigiane.
Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovich c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.