2021-06-07
Fatta sposare a 11 anni con uno di 42: «Il mio inferno di moglie bambina»
Dalal si è liberata dopo che il padre marocchino ha picchiato la madre fino a ucciderla.«Mi hanno legata. Non voglio dire che mi hanno fatta sposare, perché il matrimonio è una cosa troppo bella per essere paragonata a quello che hanno fatto a me». Dalal è nata in Marocco nel 1985. È arrivata in Italia con la famiglia nel 1989. È stata data in sposa a un uomo nel 1996. Fate voi conti: quando si è presentata in abito azzurro e dorato davanti all'imam aveva appena undici anni. Oggi fatica a ricostruire le tempistiche, a ritrovare le date esatte, e bisogna capirla perché ogni volta si tratta di scavare dentro un grumo di dolore. Dalal è stata vittima di un matrimonio forzato, ha sofferto sulla pelle e nella carne il destino che ancora oggi viene riservato a tante, troppe giovani musulmane. Era il destino che la famiglia pachistana aveva in serbo per Saman Abbas, la diciottenne di Novellara che si sospetta sia stata uccisa dai parenti proprio perché rifiutava le nozze imposte. Quando parla di lei, e quando ricorda il suo passato, Dalal ha la voce incrinata. Ma con una forza incredibile che le sgorga dal petto racconta nei dettagli una storia abominevole. Noi fatichiamo a sentirla, lei l'ha dovuta vivere. «L'uomo che avevano scelto per me era il figlio di un amico di mio padre», racconta. Anche se, a dire il vero, non chiama «padre» l'individuo che le ha dato i natali, e fra poco capirete perché. «Io avevo 11 anni, il marito che mi avevano scelto ne aveva 42. Il giorno del matrimonio mi avevano truccata, sembravo più grande. Mi hanno fatto salire su un panchetto per farmi le foto, perché ero tanto piccola. Quelle foto le ho strappate tutte, una volta diventata grande. Non riuscivo a guardarle, mi facevano rabbia». Ma le foto, la cerimonia e il trucco sono stati, paradossalmente, il momento meno difficile di quelle nozze atroci. «Nessuno racconta mai quello che succede prima. Mi hanno esaminata, mi hanno fatta visitare dal medico per assicurarsi che fossi vergine. Ero in Italia da tre anni, la prima volta che sono tornata in Marocco è stata per il matrimonio. Per la prima notte di nozze la madre dello sposo aveva preparato tutto. Aveva scelto con cura le lenzuola bianche». Sì, bianchissime: il giorno dopo avrebbero dovuto esporle per mostrare le macchie di sangue. «So già cosa mi vuole chiedere», sospira Dalal. «Vuole sapere se il matrimonio è stato consumato. Certo che sì. Ci ho messo anni a elaborare quella violenza. Rivedo lui che entra nella stanza... Non è che mi dà un bacino, no, prende e va... È stata una violenza pesantissima».Dopo il matrimonio, Dalal è rientrata in Italia, in attesa che il marito la raggiungesse. La sua famiglia viveva a Settimo Milanese. A parte il padre c'erano la madre e la sorella maggiore. «Andavo a scuola e i miei compagni sapevano che ero sposata. Mi vergognavo. Una volta, ai giochi della gioventù, abbiamo vinto una partita di pallavolo e un mio amichetto mi ha abbracciata. Mio padre voleva ammazzarlo di botte. Aveva comprato uno di quei cellulari enormi, ogni volta che mio marito chiamava io dovevo rispondere. Una volta non l'ho fatto, mio padre mi ha chiuso in una stanza minacciando di uccidermi aprendo la bombola del gas». Non erano minacce a vuoto. Alle parole seguivano sempre i fatti. Nabih Bachir picchiava regolarmente la moglie e le figlie. Soprattutto la figlia più grande, quella più ribelle, che prendeva le difese della mamma. «Una sera lui stava prendendo a calci mia madre nella pancia. Non smetteva e mia sorella si è messa a pregarlo. Lui per tutta risposta le ha spaccato la testa». Nabih effettivamente finì nei guai con la giustizia, ma non fu separato dalla famiglia. E continuò con le solite abitudini. Botte, minacce, maltrattamenti infernali. Che non gli impedivano, tuttavia, di frequentare regolarmente la moschea e di fare la figura del buon musulmano. Fino al giorno in cui non ha ammazzato la moglie. «Lo ha praticamente fatto davanti a me», sussurra Dalal. «Poi mi ha presa ed è scappato un Marocco». Tornato nel suo Paese natale, Nabir andò a costituirsi ad Agadir. Beh, più che altro si recò in una stazione di polizia e disse di aver ucciso la moglie in Italia. «Gli dissero di star tranquillo e di andare a casa», racconta Dalal. Il resto è cronaca. Nabih Bachir non ha mai fatto un giorno di carcere. È rimasto in Marocco, non si sa nemmeno se sia entrato in un tribunale lì. Di certo non ha mai pagato per aver massacrato la moglie e martoriato le figlie per anni. I giornali italiani hanno parlato distrattamente di lui qualche anno fa, poi il buio. Dalal si è salvata grazie ai parenti della madre. È riuscita a tornare in Italia, ha passato anni nelle comunità di accoglienza. La morte della madre, per un macabro gioco del fato, l'ha strappata al matrimonio imposto, facendola finire sotto tutela delle autorità italiane. Infine l'incontro con Souad Sbai e la sua associazione che da anni combatte per difendere le donne marocchine (e non solo) vittime di violenza. «Souad mi ha salvato. È una parte fondamentale della mia famiglia», sorride Dalal. Che oggi lavora, ha un figlio e un compagno. Ma sta alla larga dalla moschea. «Quando sono andata a dire quello che aveva fatto mio padre mi hanno detto di perdonarlo, che avrà avuto i suoi motivi, che non dovevo insistere. Lì non ci metto più piede». Delle violenze che ha subito restano le tracce, solchi profondi. Una sorella che non si è più ripresa, una madre che non c'è più. E i brandelli di qualche vecchia foto. Da mostrare soltanto perché servano come prova dell'orrore. E consentano, muovendo qualche coscienza, di salvare la vita ad altre ragazze. Quelle che la nostra indifferenza abbandona nella prigione di una cultura brutale, la stessa che si è portata via Saman Abbas.