2022-10-04
I fan di Bruxelles in cortocircuito per lo scudo tedesco
Carlo Bonomi (Imagoeconomica)
Dopo quelle dem, arrivano le critiche di Carlo Bonomi. Caduti dal tetto del gas, ora sarebbe il caso avviassero critiche al modello green.Era giugno scorso quando il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, andava in trasferta a Kiev per ribadire la vicinanza delle aziende italiane a quelle ucraine. In quell’occasione ebbe a ribadire l’urgenza di «trovare un tetto al prezzo del gas». Il capo degli industriali non ha perso l’occasione per chiedere più Europa per risolvere i problemi energetici. La stessa cosa che fece con la transizione ecologica, salvo - giustamente - criticarne l’impatto sul settore dell’auto. Così, dopo aver sbattuto contro il muro di gomma dell’ideologia comunitaria, ieri Bonomi ha sollevato forti critiche al modello imposto negli ultimi giorni dai tedeschi: fondi subito senza alcun coordinamento. «La politica europea», ha detto, «con due pesi e due misure mette a rischio l’idea di Europa unita». Insomma, lo ha fatto, come tanti altri, pensando che la scelta portata avanti da Berlino di destinare 200 miliardi al salvataggio delle aziende sia un cambio di passo. In realtà è semplicemente la prosecuzione degli equilibri di potere interni all’Ue soltanto con altri mezzi. Per anni il governo di Angela Merkel ha sfruttano il proprio surplus commerciale alla faccia delle regole europee che lo vieterebbero. Ha usato la moneta comune a proprio beneficio e poi ha stabilito rapporti preferenziali con la Russia e con la Cina. L’obiettivo è stato sempre quello di mantenere uno scarto a favore delle aziende tedesche. Esattamente ciò che sta tentando di fare in queste ore. Consentire a chi produce o trasforma prodotti in Germania di avere ampio margine competitivo sulla concorrenza interna al Vecchio continente. Non è detto che accada. O meglio potrebbe accadere ma per difetto: il resto dell’Ue rischia la desertificazione industriale. Fa dunque sorridere che Bonomi si allinei con tutti coloro che si indignano contro i tedeschi. Berlino fa da anni Berlino, nulla sta cambiando. È quindi altrettanto ingenuo pensare che i summit europei possano decidere qualcosa e trovare una soluzione. A partire dal price cap. L’idea di mettere un tetto al prezzo del gas è stata per la prima volta discussa a metà aprile. Sono passati quasi sei mesi e nulla è stato fatto. Proprio niente. Per il semplice motivo che lo schema non è applicabile. L’unico schema che l’Ue potrà cercare di portare avanti è quello dei blackout programmati. Meno consumi per evitare eccessiva carenza di materia prima e per cercare di raffreddare i prezzi. L’effetto collaterale è il taglio della produzione industriale. Un taglio maggiore di quello vissuto fino a oggi e già abbiamo assistito al dimezzamento delle attività del comparto acciaio e al taglio del 70% della produzione de fertilizzanti. È facile dedurre che quando il prezzo sarà ulteriormente sceso per via dei tagli, a quel punto l’Ue si vanterà di aver messo un tetto al prezzo di un gas che però non c’è più. Nel tentativo di mischiare le acque, il Pd prima del voto ha volutamente confuso Polonia e Ungheria con Germania e Olanda. Alla riunione di fine agosto oltre la metà dei Paesi si è opposta al price cap. A guidare la schiera Berlino e Amsterdam. Enrico Borghi fu tra i primi a twittare sostenendo che gli amici della destra tirano gli scherzi all’Italia. Seguì Carlo Cottarelli, il perenne candidato, che arrivò ad accusare la Polonia di aver votato contro. Non è stato così. Ma è chiaro che tra le fila del Pd si è cominciato a sentire la necessità di prendere le distanze da un muro che sta pesantemente scricchiolando. Fino a Enrico Letta che ha deciso di andare a trovare Olaf Scholz cinque giorni prima del voto. Con il solo risultato di tornare, perdere le elezioni e poi dover criticare il maxi piano tedesco da 200 miliardi. Bene, pazienza se è andata così. Non è un caso che il Pd abbia perso le elezioni. Certo, desidereremmo che chi ha sostenuto un tale modello per anni debba rendere conto al Paese di appartenenza. Temiamo che non accadrà mai. Ma a questo punto vale la pena guardare avanti ed evitare che fra un po’ di tempo qualcuno si svegli e si stupisca del fatto che l’acqua scorre verso il basso e che l’Europa ha interessi troppo divergenti. Per guardare avanti bisognerebbe ammettere che al di là della guerra in Ucraina la crisi che stiamo vivendo non è una causa esterna che rischia di mettere in ginocchio il Continente ma è l’effetto delle politiche ecologiste dell’Ue. L’Europa è causa del suo male. Da qui varrebbe la pena partire. Gli ultimi arrivati, quali noi siamo, hanno capito già alla fine della primavera del 2021 che ci saremmo strozzati con l’inflazione e che ci saremmo impiccati all’energia. Per mesi le autorità finanziarie di Bruxelles, ma anche quelle di Roma, hanno sostenuto che l’inflazione fosse temporanea e che i problemi energetici fossero di breve respiro. Ora lo capiscono in tanti. Eppure non si accenna minimamente all’idea di azzerare le imposte sulla CO2, alla revisione degli Ets, alle regole sul carbone e ai conseguenti criteri di decarbonizzazione. L’industria dell’auto con motore a scoppio va salvaguardata e al tempo stesso bisogna abbandonare gli schemi multilaterali per passare a quelli bilaterali. Nel nostro caso serve molta più Africa e possibilmente zero ideologia.