2021-01-27
Il tribunale di Facebook censura il nostro libro sull’immigrazione
Il social ha bloccato la pubblicità del volume «Contro l'invasione» distribuito con «La Verità» e «Panorama». Il testo, contenente un inedito dell'intellettuale francese Jean Raspail, sgradito agli algoritmi politicamente corretti.Vietato pubblicizzare sui social Contro l'invasione. Almeno se si scelgono le parole «sbagliate». L'inedito dello scrittore francese Jean Raspail, in edicola con La Verità e Panorama a 7.90 euro con prefazione del direttore Maurizio Belpietro, non può essere sponsorizzato sui social network con una breve (e innocua) didascalia, altrimenti i permalosissimi algoritmi di Facebook pongono un veto, con conseguente danno economico per l'azienda che si trova impossibilitata a dare visibilità al suo prodotto. «It doesn't comply with our advertising policies», spiega una laconica comunicazione di Facebook: la pubblicità del pamphlet di Raspail «non è conforme alle nostre norme sulle campagne pubblicitarie». Del libro si può ancora parlare, vivaddio, ma la multinazionale di Menlo Park impedisce all'editore di pagare annunci sponsorizzati con una breve didascalia. Che era la seguente: «In edicola con La Verità e Panorama, Contro l'invasione: Maurizio Belpietro presenta Jean Raspail e il saggio che ne riassume idee e profezie sull'immigrazione di massa. A cura di Francesco Borgonovo». Nulla di illegale, come si vede. Nulla di traumatico anche per il lettore più angelico, se è per questo. Eppure, la sponsorizzazione è stata rifiutata, per essere poi accettata il giorno seguente, ma solo senza didascalia. Si dirà: in tempi in cui persino il presidente degli Stati Uniti può essere oscurato dai social, si tratta di questioni irrilevanti. E invece non è così, perché la vigilanza sulle comunicazioni social di un algoritmo che, verosimilmente, censura in automatico i post che contengano determinate parole come «immigrazione» o «invasione» spiega bene l'arbitrio su cui si basa questa nuova forma di potere. Tanto più che, come detto, far perdere a una casa editrice una giornata di sponsorizzazioni nel giorno di uscita di un libro costituisce anche un non trascurabile danno economico. Di sicuro il nome dello scrittore di Chemillé-sur-Dême, morto lo scorso giugno a 95 anni, sembra avere la particolare capacità di attirare su di sé l'astio dei custodi del politicamente corretto. Appena 10 giorni fa, commentando la goffa carnevalata di Capitol Hill e mettendo in guardia i lettori dallo spauracchio del fantomatico «suprematismo bianco», Linkiesta si lasciava andare a una digressione letteraria su The Turner Diaries, il romanzo razzista di Andrew Macdonald, pseudonimo di William Luther Pierce. E, del tutto arbitrariamente, vi associava Il campo dei santi di Raspail, tracciandone un ritratto che è tutto un programma. I due romanzi, si leggeva, «fanno parte delle librerie degli estremisti di destra americani (ma, appunto non solo). Sono opere che fomentano la lotta tra le razze, promuovono la superiorità dei bianchi e invitano al genocidio. Sono, in poche parole, libri che vengono utilizzati per uccidere, punti di riferimento deliranti e velenosi». Raspail mandante di genocidio, addirittura. Chiunque abbia letto Il campo dei santi e, ora, Contro l'invasione, capirà quanto la descrizione di un Raspail stragista razziale sia lontanissima dalla verità. Più che dall'odio per i popoli altrui, l'opera di Raspail è semmai animata dall'amore per il proprio e dalla preoccupazione (fondata) per la sua scomparsa a causa delle élite sedotte dal «Grande Altro» (Big Other, calco evidente del più famoso Big Brother, è per l'appunto il titolo del testo raccolto in Contro l'invasione). Né è possibile fare di Raspail l'equivalente di qualche oscuro compilatore di opuscoli complottisti. Basti pensare che l'Académie française, una delle più antiche istituzioni culturali di Francia, fondata nel 1635 sotto re Luigi XIII dal cardinale Richelieu, ed espressione diretta dello Stato francese, ha premiato Raspail per tre volte: nel 2003 ha ricevuto il Grand Prix de Littérature per l'insieme della sua opera (nell'albo d'oro figurano accanto a lui personalità come Régis Debray, Milan Kundera e Marguerite Yourcenar), nel 1981 il Grand Prix du Roman per il suo romanzo Moi, Antoine de Tounens, roi de Patagonie e nel 1970 il Prix Jean Walter per l'insieme della sua opera. Non esattamente il primo venuto, insomma. Che Raspail non fosse razzista lo ha del resto messo nero su bianco persino la giustizia francese, pure non insensibile al fascino della caccia alle streghe contro gli scrittori dissidenti. Eppure, quando gli antirazzisti della Licra, nel 2004, lo denunciarono per istigazione all'odio razziale dopo un editoriale anti immigrazione uscito su Le Figaro, i giudici si rifiutarono di condannarlo. Se pensiamo che è la stessa magistratura che oggi sta perseguendo Renaud Camus per dei tweet, possiamo tranquillamente affermare che evidentemente Raspail è alieno da qualsiasi tentazione razzista. Qualcuno lo dica a Facebook.
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