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2024-02-07
Nuovo studio choc sull’eutanasia. Serve a eliminare gli anziani soli
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Il prossimo passo sul fine vita? Allargare ancora un po’ le maglie. Stiracchiando la decisione della Consulta sulla vicenda di dj Fabo. La questione l’ha sollevata, meno di un mese fa, il tribunale di Firenze. Essa verte sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio, nel caso in cui quelli che lo richiedono siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale». Una condizione che, secondo la Procura toscana, «discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche» e «discende da circostanze del tutto accidentali», «senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato». A pronunciarsi sarà, di nuovo, la Corte costituzionale. E il suo presidente emerito, Giuliano Amato, ha già suggerito come potrebbe andare a finire: «La formula “tenuto in vita da sostegni vitali”», ha spiegato a Repubblica il 31 gennaio, «non include solo pazienti dipendenti da macchinari - questo era il caso del dj Fabo - ma anche i malati che dipendono da terapie e farmaci». Un attimo: tra chi vive grazie all’uso dei farmaci non rientrano anche persone cardiopatiche, ipertese o diabetiche? Pure loro sono sopprimibili?
La tendenza è chiara: sempre meno paletti, nel nome dell’«autodeterminazione». È una strada scivolosa. E c’è il rischio che la battaglia per la libertà si trasformi in una tattica per evitare di investire nell’assistenza dei fragili. Lo affermano persino due studiosi difficilmente tacciabili di bigottismo, in un saggio uscito da poco su Population and development review. Si tratta di Asher Colombo, sociologo dell’Università di Bologna, e Gianpiero Dalla Zuanna, statistico dell’ateneo di Padova e già senatore, prima per il partito di Mario Monti, poi per il Pd.
Gli autori smontano le mistificazioni di chi va ripetendo che i cittadini sono favorevoli a un’ampia legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito. In realtà, «l’opinione pubblica sembra sostanzialmente d’accordo con una legislazione che […] caratterizza il suicidio medicalmente assistito come un modo di porre fine a una sofferenza intollerabile, piuttosto che per esercitare un diritto incondizionato a suicidarsi con l’assistenza di un dottore». Falso è anche che la depenalizzazione non favorisca la diffusione di quelle pratiche. All’opposto, «la crescita nel tempo è continua, ma dopo essere stata lineare negli anni successivi alla legalizzazione, aumenta progressivamente in quelli successivi».
L’aspetto più importante, però, riguarda l’effetto della liberalizzazione. Essa, da un lato, «rischia di diventare una scorciatoia», una scappatoia dalla necessità di organizzare «cure palliative appropriate»; dall’altro, unita all’«aumento di età degli anziani», la quale ovviamente «si accompagna anche a una rapida crescita nel numero di persone con deficit cognitivi», è in grado di «avere un impatto significativo sulla durata della sopravvivenza media».
Mettiamo che passi la filosofia secondo la quale eutanasia o suicidio assistito sono un modo per abbandonare vite «indegne di essere vissute» (così le chiamavano i nazisti di Aktion T4, il programma per eliminare i disabili mentali e chi era affetto da malattie genetiche inguaribili). Il combinato disposto tra la convinzione che, a un certo punto, ci si possa - o ci si debba - togliere di mezzo e la senilità galoppante, che tende a peggiorare la qualità dell’esistenza, minaccia di trasformare la vecchiaia in un evento raro. Lungi dall’accettare vite più lunghe, quelli che maturano disturbi neurodegenerativi, o magari, come dice Amato, «dipendono da terapie e farmaci», giungerebbero a considerare normale congedarsi da questo mondo prima di essere diventati un «peso». Sarebbe il trionfo della «cultura dello scarto», spesso denunciata da papa Francesco.
Il fenomeno è ancora circoscritto, ma in Olanda, «la proporzione dei deceduti con demenza senile come principale causa di morte che hanno fatto ricorso al suicidio assistito è salita dallo 0,9% nel periodo 2012-2015 all’1,4% nel periodo 2016-2019». Nei Paesi Bassi, nell’ultima decade, «più del 3% di tutte le morti non violente può essere attribuito a qualche forma di suicidio assistito». Dove prevale il principio che quelle pratiche servano ad affermare «il diritto dell’individuo di morire», piuttosto che afferire alla «fase terminale della malattia» o alla «sofferenza continua e insopportabile», la loro frequenza aumenta. E fa impressione che, nel 2021, «il 36%» dei 10.000 canadesi che hanno scelto l’eutanasia abbia citato «“il peso per la famiglia, gli amici o i caregiver” come parte della loro decisione e il 17% “l’isolamento o la solitudine”».
Certo, l’offerta di cure palliative, registrano Colombo e Della Zuanna, non per forza scoraggia la scelta della «dolce morte». Ma «l’interazione precoce tra medico e paziente, la rinuncia all’accanimento terapeutico e specialmente l’uso della terapia del dolore e, se necessario, della sedazione profonda, possono rallentare la diffusione del suicidio assistito». Di sicuro, snobbare le alternative, mascherando quel disinteresse da trionfo della libertà, è disonesto e pericoloso. Tocca restare vigili. In attesa della Consulta.
Neuropsichiatra in prestito e farmaci a volontà al Centro per i «bimbi trans»
Dopo una settimana di attesa, ieri è arrivata la risposta dell’assessore alla Salute della Regione Toscana, il dem Simone Bezzini, all’interrogazione del consigliere regionale di Fdi, Diego Petrucci, in merito al Centro per la disforia di genere dell’ospedale Careggi di Firenze. A fine gennaio, infatti, in seguito all’ispezione del ministero della Salute, erano emerse criticità circa l’uso dei bloccanti della pubertà, somministrati in certi casi in assenza di un adeguato percorso di psicoterapia. Le risposte fornite dall’assessore, però, non dipanano i dubbi sul Centro ma, anzi, fanno nascere nuovi interrogativi sul trattamento di bambini e adolescenti rivoltisi alla struttura. Parliamo, nello specifico, di 159 casi nel 2023, 137 nel 2022 e 103 nel 2021, di età compresa tra gli 8 e i 17 anni. Tra questi, nel triennio, in totale sono stati presi in carico dal Careggi 140 minorenni (con un’età media di 14,8 anni) 44 dei quali hanno iniziato la terapia con la triptorelina, ovvero il farmaco che inibisce temporaneamente l’ormone che regola le funzioni testicolare e ovarica, bloccando dunque la pubertà in una sorta di «vigile attesa» che dovrebbe permettere al paziente di «guadagnare tempo» nei casi in cui l’adolescente non si riconosca nel sesso di nascita ed evitare, in caso di futura transizione in età adulta, interventi chirurgici. I pazienti a cui è stato somministrato il bloccante della pubertà al Careggi hanno in media 14,5 anni. Un’età che supera quella indicata nel riassunto delle caratteristiche (Rcp) del farmaco in questione, tradizionalmente impiegato nella popolazione pediatrica contro la pubertà precoce e, in questa fattispecie, da sospendere a 12 anni per le femmine e a 13 anni per i maschi. Tra gli effetti collaterali della triptorelina ci sono la riduzione della densità minerale ossea, l’osteoporosi e a un aumentato rischio di fratture. Si possono verificare inoltre vampate di calore, impotenza, diminuzione della libido, nausea, disordini del sonno, riduzione della massa muscolare, dolore delle articolazioni, aumento di peso e alterazione dell’umore. Tuttavia, per il trattamento della disforia di genere nel 2019 l’Aifa ha inserito la triptorelina nell’elenco dei medicinali gratuiti, sebbene manchino studi scientifici sulla sicurezza a lungo termine, suggerendone l’utilizzo «fino a circa 16 anni d’età, in corrispondenza dell’inizio della terapia ormonale cross-gender». Un impiego off label (che divide la comunità scientifica, specialmente nel Nord Europa, dove sono già iniziate le retromarce) previsto dall’Agenzia italiana del farmaco solo dopo «attenta valutazione multiprofessionale, con il contributo di una équipe multidisciplinare e specialistica, composta da neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, psicologi dell’età evolutiva, bioeticisti ed endocrinologici». E proprio sull’assenza di un’adeguata psicoterapia prima delle iniezioni si sono concentrati gli ispettori ministeriali ed è stata riportata l’attenzione della giunta comunale. Per l’assessore Bezzini, il centro di Careggi «lavora in rete con tutti i neuropsichiatri infantili che hanno in carico le persone», ma «per questo percorso (la terapia con la triptorelina, ndr) il neuropsichiatra infantile di riferimento è il dottor Marco Armellini». Il dirigente medico, tuttavia, dal primo febbraio 2022 risulta essere il direttore del dipartimento salute mentale dell’Ausl Toscana Centro (che ingloba le Firenze, Empoli, Prato e Pistoia). L’ospedale Careggi è invece un’azienda ospedaliera universitaria, del tutto estranea dunque all’Ausl Toscana centro.Al centro per la disforia di genere sembrerebbe dunque non esserci un neuropsichiatra infantile, tanto da rendere necessario l’intervento di uno specialista esterno. Eppure, nella risposta all’interrogazione, l’assessore Bezzini dichiara che «i genitori e i minori sono seguiti dal punto di vista psicologico durante tutto il percorso». «Sappiamo che al Meyer queste figure sono presenti. Perché, allora, non è stato aperto il Centro nella Aou del Meyer? Lo chiederemo alla Regione Toscana in una nuova interrogazione», annuncia intanto il consigliere Petrucci. Il quadro che emerge sembrerebbe quindi confermare quanto rilevato dalle ispezioni ministeriali, che suggeriscono un uso quanto meno disinvolto dei bloccanti della pubertà. Terapia difesa a spada tratta anche da diverse società scientifiche in quanto «reversibile» e presentata come un «salva vita» in grado di sventare suicidi tra giovanissimi. I quali, però, rischiano di diventare cavie: la pubertà è un processo fondamentale per acquisire la propria identità sessuale. Bloccandolo, come si può raggiungere un’identità compiuta? È lecito, inoltre, incoraggiare bambini e adolescenti a un percorso ormai infiltrato dall’ideologia e, dietro al quale, si cela anche un forte profitto per le case farmaceutiche? Quesiti che, oggi, sono ancora tacciati di «complottismo». La solita scorciatoia utile ai pasdaran, di ogni colore.
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Gli autori del saggio (tra cui un ex senatore pd): «Liberalizzare il suicidio assistito spinge i vecchi con deficit cognitivi a ricorrervi. Ci sarà un impatto a livello della popolazione». In Olanda, muore già così il 3% dei fragili. Al Careggi di Firenze dati i bloccanti della pubertà a 44 minori su 140. Inoltre, l’esperto di salute mentale richiesto per le terapie risulta lavorare in un’altra azienda sanitaria.Lo speciale contiene due articoli.Il prossimo passo sul fine vita? Allargare ancora un po’ le maglie. Stiracchiando la decisione della Consulta sulla vicenda di dj Fabo. La questione l’ha sollevata, meno di un mese fa, il tribunale di Firenze. Essa verte sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio, nel caso in cui quelli che lo richiedono siano «tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale». Una condizione che, secondo la Procura toscana, «discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche» e «discende da circostanze del tutto accidentali», «senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato». A pronunciarsi sarà, di nuovo, la Corte costituzionale. E il suo presidente emerito, Giuliano Amato, ha già suggerito come potrebbe andare a finire: «La formula “tenuto in vita da sostegni vitali”», ha spiegato a Repubblica il 31 gennaio, «non include solo pazienti dipendenti da macchinari - questo era il caso del dj Fabo - ma anche i malati che dipendono da terapie e farmaci». Un attimo: tra chi vive grazie all’uso dei farmaci non rientrano anche persone cardiopatiche, ipertese o diabetiche? Pure loro sono sopprimibili? La tendenza è chiara: sempre meno paletti, nel nome dell’«autodeterminazione». È una strada scivolosa. E c’è il rischio che la battaglia per la libertà si trasformi in una tattica per evitare di investire nell’assistenza dei fragili. Lo affermano persino due studiosi difficilmente tacciabili di bigottismo, in un saggio uscito da poco su Population and development review. Si tratta di Asher Colombo, sociologo dell’Università di Bologna, e Gianpiero Dalla Zuanna, statistico dell’ateneo di Padova e già senatore, prima per il partito di Mario Monti, poi per il Pd.Gli autori smontano le mistificazioni di chi va ripetendo che i cittadini sono favorevoli a un’ampia legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito. In realtà, «l’opinione pubblica sembra sostanzialmente d’accordo con una legislazione che […] caratterizza il suicidio medicalmente assistito come un modo di porre fine a una sofferenza intollerabile, piuttosto che per esercitare un diritto incondizionato a suicidarsi con l’assistenza di un dottore». Falso è anche che la depenalizzazione non favorisca la diffusione di quelle pratiche. All’opposto, «la crescita nel tempo è continua, ma dopo essere stata lineare negli anni successivi alla legalizzazione, aumenta progressivamente in quelli successivi». L’aspetto più importante, però, riguarda l’effetto della liberalizzazione. Essa, da un lato, «rischia di diventare una scorciatoia», una scappatoia dalla necessità di organizzare «cure palliative appropriate»; dall’altro, unita all’«aumento di età degli anziani», la quale ovviamente «si accompagna anche a una rapida crescita nel numero di persone con deficit cognitivi», è in grado di «avere un impatto significativo sulla durata della sopravvivenza media».Mettiamo che passi la filosofia secondo la quale eutanasia o suicidio assistito sono un modo per abbandonare vite «indegne di essere vissute» (così le chiamavano i nazisti di Aktion T4, il programma per eliminare i disabili mentali e chi era affetto da malattie genetiche inguaribili). Il combinato disposto tra la convinzione che, a un certo punto, ci si possa - o ci si debba - togliere di mezzo e la senilità galoppante, che tende a peggiorare la qualità dell’esistenza, minaccia di trasformare la vecchiaia in un evento raro. Lungi dall’accettare vite più lunghe, quelli che maturano disturbi neurodegenerativi, o magari, come dice Amato, «dipendono da terapie e farmaci», giungerebbero a considerare normale congedarsi da questo mondo prima di essere diventati un «peso». Sarebbe il trionfo della «cultura dello scarto», spesso denunciata da papa Francesco.Il fenomeno è ancora circoscritto, ma in Olanda, «la proporzione dei deceduti con demenza senile come principale causa di morte che hanno fatto ricorso al suicidio assistito è salita dallo 0,9% nel periodo 2012-2015 all’1,4% nel periodo 2016-2019». Nei Paesi Bassi, nell’ultima decade, «più del 3% di tutte le morti non violente può essere attribuito a qualche forma di suicidio assistito». Dove prevale il principio che quelle pratiche servano ad affermare «il diritto dell’individuo di morire», piuttosto che afferire alla «fase terminale della malattia» o alla «sofferenza continua e insopportabile», la loro frequenza aumenta. E fa impressione che, nel 2021, «il 36%» dei 10.000 canadesi che hanno scelto l’eutanasia abbia citato «“il peso per la famiglia, gli amici o i caregiver” come parte della loro decisione e il 17% “l’isolamento o la solitudine”». Certo, l’offerta di cure palliative, registrano Colombo e Della Zuanna, non per forza scoraggia la scelta della «dolce morte». Ma «l’interazione precoce tra medico e paziente, la rinuncia all’accanimento terapeutico e specialmente l’uso della terapia del dolore e, se necessario, della sedazione profonda, possono rallentare la diffusione del suicidio assistito». Di sicuro, snobbare le alternative, mascherando quel disinteresse da trionfo della libertà, è disonesto e pericoloso. Tocca restare vigili. In attesa della Consulta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/eutanasia-eliminare-gli-anziani-soli-2667190328.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="neuropsichiatra-in-prestito-e-farmaci-a-volonta-al-centro-per-i-bimbi-trans" data-post-id="2667190328" data-published-at="1707316704" data-use-pagination="False"> Neuropsichiatra in prestito e farmaci a volontà al Centro per i «bimbi trans» Dopo una settimana di attesa, ieri è arrivata la risposta dell’assessore alla Salute della Regione Toscana, il dem Simone Bezzini, all’interrogazione del consigliere regionale di Fdi, Diego Petrucci, in merito al Centro per la disforia di genere dell’ospedale Careggi di Firenze. A fine gennaio, infatti, in seguito all’ispezione del ministero della Salute, erano emerse criticità circa l’uso dei bloccanti della pubertà, somministrati in certi casi in assenza di un adeguato percorso di psicoterapia. Le risposte fornite dall’assessore, però, non dipanano i dubbi sul Centro ma, anzi, fanno nascere nuovi interrogativi sul trattamento di bambini e adolescenti rivoltisi alla struttura. Parliamo, nello specifico, di 159 casi nel 2023, 137 nel 2022 e 103 nel 2021, di età compresa tra gli 8 e i 17 anni. Tra questi, nel triennio, in totale sono stati presi in carico dal Careggi 140 minorenni (con un’età media di 14,8 anni) 44 dei quali hanno iniziato la terapia con la triptorelina, ovvero il farmaco che inibisce temporaneamente l’ormone che regola le funzioni testicolare e ovarica, bloccando dunque la pubertà in una sorta di «vigile attesa» che dovrebbe permettere al paziente di «guadagnare tempo» nei casi in cui l’adolescente non si riconosca nel sesso di nascita ed evitare, in caso di futura transizione in età adulta, interventi chirurgici. I pazienti a cui è stato somministrato il bloccante della pubertà al Careggi hanno in media 14,5 anni. Un’età che supera quella indicata nel riassunto delle caratteristiche (Rcp) del farmaco in questione, tradizionalmente impiegato nella popolazione pediatrica contro la pubertà precoce e, in questa fattispecie, da sospendere a 12 anni per le femmine e a 13 anni per i maschi. Tra gli effetti collaterali della triptorelina ci sono la riduzione della densità minerale ossea, l’osteoporosi e a un aumentato rischio di fratture. Si possono verificare inoltre vampate di calore, impotenza, diminuzione della libido, nausea, disordini del sonno, riduzione della massa muscolare, dolore delle articolazioni, aumento di peso e alterazione dell’umore. Tuttavia, per il trattamento della disforia di genere nel 2019 l’Aifa ha inserito la triptorelina nell’elenco dei medicinali gratuiti, sebbene manchino studi scientifici sulla sicurezza a lungo termine, suggerendone l’utilizzo «fino a circa 16 anni d’età, in corrispondenza dell’inizio della terapia ormonale cross-gender». Un impiego off label (che divide la comunità scientifica, specialmente nel Nord Europa, dove sono già iniziate le retromarce) previsto dall’Agenzia italiana del farmaco solo dopo «attenta valutazione multiprofessionale, con il contributo di una équipe multidisciplinare e specialistica, composta da neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, psicologi dell’età evolutiva, bioeticisti ed endocrinologici». E proprio sull’assenza di un’adeguata psicoterapia prima delle iniezioni si sono concentrati gli ispettori ministeriali ed è stata riportata l’attenzione della giunta comunale. Per l’assessore Bezzini, il centro di Careggi «lavora in rete con tutti i neuropsichiatri infantili che hanno in carico le persone», ma «per questo percorso (la terapia con la triptorelina, ndr) il neuropsichiatra infantile di riferimento è il dottor Marco Armellini». Il dirigente medico, tuttavia, dal primo febbraio 2022 risulta essere il direttore del dipartimento salute mentale dell’Ausl Toscana Centro (che ingloba le Firenze, Empoli, Prato e Pistoia). L’ospedale Careggi è invece un’azienda ospedaliera universitaria, del tutto estranea dunque all’Ausl Toscana centro.Al centro per la disforia di genere sembrerebbe dunque non esserci un neuropsichiatra infantile, tanto da rendere necessario l’intervento di uno specialista esterno. Eppure, nella risposta all’interrogazione, l’assessore Bezzini dichiara che «i genitori e i minori sono seguiti dal punto di vista psicologico durante tutto il percorso». «Sappiamo che al Meyer queste figure sono presenti. Perché, allora, non è stato aperto il Centro nella Aou del Meyer? Lo chiederemo alla Regione Toscana in una nuova interrogazione», annuncia intanto il consigliere Petrucci. Il quadro che emerge sembrerebbe quindi confermare quanto rilevato dalle ispezioni ministeriali, che suggeriscono un uso quanto meno disinvolto dei bloccanti della pubertà. Terapia difesa a spada tratta anche da diverse società scientifiche in quanto «reversibile» e presentata come un «salva vita» in grado di sventare suicidi tra giovanissimi. I quali, però, rischiano di diventare cavie: la pubertà è un processo fondamentale per acquisire la propria identità sessuale. Bloccandolo, come si può raggiungere un’identità compiuta? È lecito, inoltre, incoraggiare bambini e adolescenti a un percorso ormai infiltrato dall’ideologia e, dietro al quale, si cela anche un forte profitto per le case farmaceutiche? Quesiti che, oggi, sono ancora tacciati di «complottismo». La solita scorciatoia utile ai pasdaran, di ogni colore.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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