Al Consiglio Ue, chiuso con un niente di fatto, i Paesi del Mediterraneo hanno chiesto di cambiare le regole e spinto l’atomo. Mentre quelli del Nord hanno difeso la svolta verde. Lunedì decisione della Commissione.
Al Consiglio Ue, chiuso con un niente di fatto, i Paesi del Mediterraneo hanno chiesto di cambiare le regole e spinto l’atomo. Mentre quelli del Nord hanno difeso la svolta verde. Lunedì decisione della Commissione.Giovedì 2 dicembre si è tenuto il Consiglio europeo dei 27 ministri dell’Energia che ha affrontato ancora una volta il tema spinoso degli alti prezzi in tutto il continente. Il Consiglio ha esaminato il rapporto preliminare dell’Acer, che ha investigato su ipotetiche speculazioni avvenute nel mese di settembre. Nella relazione, chiesta a suo tempo dal commissario per l’energia, l’estone Kadri Simson, l’Acer (Agency for the cooperation of energy regulators) ha escluso che ci siano stati abusi sul mercato e ha anzi confermato che l’attuale quadro regolatorio è pienamente rispondente ai criteri di concorrenza e trasparenza. Di fatto, Acer ascrive le motivazioni dei forti rincari alle difficoltà da parte dell’offerta di gas nel soddisfare la domanda energetica continentale, evitando accuratamente di ingenerare il dubbio che tale difficoltà sia stata favorita proprio dal quadro regolatorio.Tutto bene, quindi? Ovviamente no. Il Consiglio è stato teatro di uno scontro tra due fronti in merito alle regole del mercato energetico, non inedito nella sostanza ma certamente nuovo nell’intensità. Da una parte Francia e Italia, cui si aggiungono Spagna, Grecia e Romania, hanno proposto in un non paper (come nel gergo dell’Unione vengono chiamate le proposte informali da parte degli Stati membri) una revisione sostanziale della direttiva Elettricità in due punti. La prima modifica riguarda l’introduzione di un prezzo dell’elettricità che «rifletta il costo del mix di produzione utilizzato per soddisfare il fabbisogno dei consumatori». Tale modifica, si affrettano a precisare i Paesi mediterranei, non andrebbe a toccare l’attuale meccanismo del prezzo marginale di sistema. In pratica, si chiederebbe al produttore di riconoscere uno sconto, parametrato alla tecnologia di produzione, rispetto al prezzo marginale di sistema che incassa sul mercato spot.La seconda modifica riguarderebbe l’introduzione di una «offerta di interesse economico generale» sulla base del costo delle sole fonti rinnovabili, in pratica una tariffa verde a disposizione di tutti i consumatori. Entrambe le modifiche, secondo i proponenti, avrebbero l’effetto di abbassare i prezzi per i clienti finali. Dall’altra parte, la Germania e altri otto Paesi (Austria, Danimarca, Finlandia, Estonia, Irlanda, Lussemburgo, Lettonia e Olanda), con una nota emessa addirittura il giorno prima della riunione, si oppongono nettamente a qualsiasi revisione dell’attuale cornice regolatoria e anzi spingono per una maggiore integrazione delle reti e dei mercati. I fondamenti del prezzo marginale di sistema non devono essere toccati e l’unica strada possibile per abbassare i prezzi è accelerare la transizione verso le energie rinnovabili. Lo iato tra Francia e Germania, già evidente sul tema della tassonomia verde, si fa ancora più profondo sul tema della riforma del mercato. La consonanza tra Francia e Italia non finisce qui, però. Durante il suo intervento nel corso della sessione mattutina del Consiglio, il ministro italiano per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ha affermato che non ci devono essere pregiudizi riguardo alle tecnologie di produzione di energia, per cui nella tassonomia degli investimenti cosiddetti sostenibili dovrebbe essere inclusa senza indugio anche la tecnologia nucleare di nuova generazione (Small modular reactors, Smr). Proprio la Francia fa dell’energia nucleare il punto chiave della propria strategia di emissioni zero, come annunciato da Emmanuel Macron un mese fa, e proprio con il lancio dei nuovi reattori a fissione Smr. Anche su questo la Germania è fortemente contraria e lo è a maggior ragione oggi, nel momento in cui sta per darsi un governo con il partito dei Verdi che occuperà posizioni importanti. Il 6 dicembre prossimo la Commissione europea dovrebbe finalmente rendere nota la propria decisione sull’atto delegato che contiene la tassonomia degli investimenti considerati utili alla transizione energetica. Scopriremo così finalmente se nucleare e gas saranno considerate dall’Unione europea tecnologie su cui sarà vantaggioso investire o se saranno invece penalizzate. Il Consiglio si è chiuso con un sostanziale nulla di fatto sui temi energetici, esattamente come la riunione di fine ottobre. Resta però agli atti il plateale allineamento tra Francia e Italia sui temi energetici, che sembra essere uno dei primi e più evidenti effetti del Trattato del Quirinale appena siglato a Roma tra i due governi. La linea comune su riforma del mercato ed energia nucleare, che si contrappone radicalmente ai desideri della Germania, sembra ben studiata e non improvvisata. Vedremo nei prossimi mesi se e in quale misura questa unione di intenti proseguirà. Nel frattempo, i futures sui permessi di emissione di CO2 sul mercato Ice hanno fatto segnare un nuovo record a 80,42 euro/tonnellata e il mese di novembre si è chiuso con un consolidamento dei prezzi spot dell’energia elettrica sui livelli massimi in tutta Europa. Si è anche verificato il caso atipico di prezzi italiani più bassi di quelli francesi, per cui in alcuni giorni l’Italia ha esportato energia verso la Francia. Il mercato europeo rimane in tensione per via dei fondamentali del gas. È infatti opinione condivisa che il mercato si trovi in una situazione di scarsità di gas fisico, con gli stoccaggi del Nord Europa che, partendo da una situazione già deficitaria rispetto agli anni precedenti, si stanno svuotando rapidamente. In Germania le riserve sono scese al 64% della capienza. Dalla Russia i flussi in export si sono stabilizzati ma non vanno oltre i valori minimi necessari a soddisfare i contratti di lungo termine esistenti.In questo quadro, per quanto riguarda gli stoccaggi, l’Italia, pur con valori più bassi degli anni scorsi, è messa meglio di tutti, avendo le maggiori riserve di gas fisico tra i Paesi europei e un indice di riempimento dello stoccaggio attorno al 78%, tra i più alti. Sulle forniture di gas dalla Russia gravano sempre le incognite dei rapporti tesi con l’Ucraina, della crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia nonché la sospensione del processo di autorizzazione del gasdotto Nord stream 2. Tutti fattori che non lasciano intravedere sbocchi positivi a breve termine e che mantengono alta l’instabilità, mentre l’inverno è sempre più vicino.
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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