2023-04-01
Cosche in Lombardia, affari anche col virus. Escort in cambio di test e mascherine
Il clan acquisiva società per liquidarle. Fari sui tamponi al Monza calcio. Offerta una prostituta per facilitare gli accordi. Sei arresti.Con la liquidità sulla quale durante la pandemia solo la criminalità organizzata poteva contare, una cricca di picciotti vicini ai clan calabresi di Vibo Valentia infiltrati in Lombardia acquisiva aziende decotte, con interessi anche nelle forniture di tamponi, camici e mascherine per contrastare la pandemia da Covid, e con un raffinato meccanismo contabile le svuotava di beni e liquidità per mandarle a gambe all’aria, frodando il fisco e scaricando nelle casse degli indagati ben 4 milioni di euro. Le accuse: bancarotta, associazione aggravata dall’agevolazione mafiosa, una tentata estorsione e un’ipotesi di sfruttamento della prostituzione. Ma questa è solo la prima parte dell’inchiesta della Procura antimafia di Milano che, ieri, ha coordinato un’operazione che ha portato all’arresto di sei persone (due in carcere e quattro ai domiciliari) tra Milano e Varese (i pm avevano chiesto il carcere anche per altri 12 indagati, ma il gip Tiziana Gueli ha rigettato, accogliendo le esigenze cautelari solo per «i fatti di maggiore gravità»). È emerso che somme consistenti sarebbero «state successivamente», spiegano gli investigatori, «drenate a favore di altre imprese del gruppo, anche localizzate in territorio estero, sotto forma di pagamenti di fatture per operazioni inesistenti». Uno dei capi dell’ipotizzata associazione a delinquere avrebbe «agevolato» le famiglie della 'Ndrangheta ormai stabilite a Lonate Pozzolo. Ma anche quelle di Vibo Valentia, «contribuendo», secondo l’accusa, «al mantenimento finanziario di elementi di spicco delle stesse associazioni e dei loro familiari, nonché procurando falsi contratti di assunzione a familiari» dei criminali. La cricca, insomma, non disdegnava le relazioni pericolose. E in un capo di imputazione per estorsione uno degli intercettati si vantava di aver fatto «35 anni di galera» e di essere stato «accusato di plurimi omicidi». Nel corso dell’operazione di ieri sono stati sequestrati circa 200.000 euro in contanti rinvenuti grazie a un cash dog, ovvero a un cane molecolare addestrato al rintraccio delle banconote, ed è saltata fuori anche una lettera di sostegno a uomini del potentissimo clan Mancuso. Fin qui la zona grigia. Perché c’è tutta una parte dell’inchiesta che riguarda la gestione della pandemia, sulla quale la cricca si è buttata a piene mani. Tutto è cominciato nel dicembre 2020: gli investigatori si accorgono che nei tamponi per la verifica del Covid ai quali erano stati sottoposti i giocatori del Monza calcio qualcosa non quadrava. Cristiano Fusi, primario della clinica monzese Zucchi e anche ex medico del settore giovanile del Milan (oltre che del Monza), con uno studio alla clinica milanese la Madonnina, e che oggi ha una posizione marginale nel procedimento, finisce nel mirino. Si scopre che un pregiudicato per bancarotta, Gianluca Borelli, pur non essendo un sanitario, era l’uomo che materialmente si occupava dei tamponi per i giocatori. I pm lo definiscono «l’uomo cerniera», perché vicino a Enrico Barone, finito in carcere (insieme a Maurizio Ponzoni) con l’accusa di associazione a delinquere aggravata dall’aver favorito il clan Mancuso (ai domiciliari, invece, sono finiti Romina Altieri, il cugino omonimo di Enrico Barone, Fabio Frattini e Michele Migliore). Barone, presso le cui aziende Borrelli in passato aveva svolto l’attività di affidamento in prova dopo la condanna per bancarotta, stando alla ricostruzione dell’accusa, ordinava ai suoi coindagati: «Svuota, svuota (riferendosi alle società, ndr) perché tanto se cado io cade tutto il Filisteo eh, Sansone e tutti i Filistei». Tra Borrelli e Barone sembrava esserci un certo feeling. In una conversazione intercettata, infatti, Borrelli fa riferimento a una grossa cifra in contanti, «1,5 milioni» di euro, che Barone gli avrebbe dato per «preparare tutte le ditte». Ma proprio quando anche ai magistrati sembrava solo una storia legata ai tamponi taroccati è saltato fuori un incontro piccante, organizzato da Borelli e Fusi. Il manager di un istituto del San Donato, uno dei più grandi gruppi di ospedali privati italiani, avrebbe dovuto incontrare in un hotel di lusso milanese, il Westin Palace una giovanissima prostituta straniera da retribuire con 500 euro. In cambio il manager avrebbe dovuto avviare «trattative», scrivono ora i magistrati, con l’istituto clinico, «finalizzate alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto la fornitura di materiale per contrastare la pandemia da Covid 19»: tamponi, mascherine e camici. Perché alcune delle aziende nell’orbita della cricca avrebbe potuto occuparsi del reperimento. In una chiacchierata telefonica intercettata nel 2020 Fusi parlando con Borelli e riferendosi al manager si lascia scappare: «Lui è il principino ma... da oggi pomeriggio il principino è sotto scacco, eh?». Nell’intrigo compare una terza persona: l’uomo che ha procacciato la escort e prenotato la camera in hotel. «Speriamo!», afferma, «dobbiamo chiudere l’operazione». Viene identificato Josef Amini Kardavani che, secondo gli investigatori, avrebbe anche detenuto «documentazione fotografica dell’incontro da utilizzare», secondo i magistrati, «per il conseguimento dell’utilità». E in una chat che gli investigatori dei nuclei di polizia Economico-Finanziaria di Varese e Milano della Guardia di finanza e dai Nas dei carabinieri di Milano hanno recuperato dopo il sequestro degli smartphone ha postato questo messaggio: «Tranquillo esce con le ossa rotte». Fusi sembra particolarmente interessato e risponde: «Hai foto?». Ed è scattato, tra i 59 capi d’imputazione, anche quello per sfruttamento della prostituzione.