2021-06-22
«Chi ama la raffinatezza e la cura dei dettagli sceglie i nostri capi»
Edoardo Fassino, Ceo di Cover 50 Spa, il gruppo proprietario di PT Pantaloni Torino e un capo della collezione
Il Ceo di PT Torino, Edoardo Fassino: «Abbiamo vestito Obama e le famiglie reali spagnola e inglese. Adesso, dopo 50 anni di soli pantaloni, allarghiamo l'offerta».Tutti orgogliosamente torinesi. Tanto da mettere Torino nel nome del brand. PT Pantaloni Torino, però, ha orizzonti che vanno ben oltre. Sono le «braghe», come spesso le chiama Edoardo Fassino, Ceo di Cover 50 SpA, il gruppo proprietario del brand, finite addosso ad alcuni componenti della famiglia reale inglese, al principe Felipe di Spagna e perfino a Barack Obama. Da dove si parte?«Dai miei nonni che avevano un ingrosso di tessuti negli anni 30, 40. È mio padre Pierangelo, a 16 anni costretto a prendersi cura dell'ingrosso, che dopo poco capisce che non funziona più perché nessuno compra più tessuti dato che tutti vogliono i capi finiti. Trasforma quindi l'attività famigliare da vendita di tessuti all'ingrosso a produzione di pantaloni. Eravamo negli anni 60». Perché pantaloni?«L'ho chiesto più volte a mio padre ma non me l'ha mai saputo dire. Negli anni 80 si andava alla ricerca dei grandi volumi e del miglior rapporto prezzo qualità senza nessuna politica di marchio ed è a metà anni 90 ci comincia a perdere una parte di business a causa dell'arrivo di prodotti dall'estremo oriente. Assolutamente doveroso era cambiare marcia e posizionamento di mercato e, soprattutto grazie a mio padre, abbiamo deciso di fare un nostro marchio puntando all'alto di gamma. Nasce così PT Torino». Lei ha respirato, moda fin da quando era piccolo, era davvero quella la sua vocazione?«È stato naturale. Non l'ho mai sentito come un dovere, ho sempre pensato che avrei fatto questo mestiere».Come stanno andando le cose dopo il lockdown?«Si respira un'aria completamente diversa rispetto anche a solo otto mesi fa. Ci si è dimenticati che già prima del primo lockdown c'era un mercato in crisi e la pandemia è stato un acceleratore di certi cambiamenti che sarebbero avvenuti ugualmente. Il momento ci ha costretto, anche se siamo abituati, a fare autocritica a ripensare profondamente a tutte le strategie per cercare di capire come evolversi». Lei ha parlato di cambiamenti che erano nell'aria ancor prima, quali erano?«Il vero cambiamento sta nel non perdere mai di vista il mercato e le sue necessità. Noi dobbiamo cercare di interpretare al meglio le esigenze della clientela e rispondere nella maniera più veloce possibile. Il cambiamento è proprio una questione di visione. Da un lato muterà la catena distributiva dell'abbigliamento, dall'altro bisognerà adattarsi all'evoluzione anche tecnologica che questo mestiere richiede per stare al passo con i tempi. Senza dimenticare che non c'è un ricambio». Sono i giovani che decretano le scelte? «Il successo di un prodotto è deciso dai giovani ma secondo me il nostro sistema è ancorato a un determinato consumo. Nel segmento alto di gamma se pensiamo a dieci marchi da uomo è difficile trovare un consumatore con meno di cinquant'anni».Chi è il cliente tipo di PT Torino? «È una persona che ci tiene al vestire, un vero appassionato per riuscire ad apprezzare certe finezze e qualità. Noi cerchiamo di non relegarlo a un cluster di età ben preciso ma cerchiamo di dare il massimo a un consumatore sia giovane e non a un teenager sia per la cultura del prodotto che per il marchio e capacità di spesa. È un uomo dai 30/35 anni in su, oggi si è vecchi mai e quindi si va molto in là con la fascia di età. Noi siamo abbastanza trasversali, ci piace fornire il pantalone per tutte le occasioni d'uso, da quello active a quello più sartoriale, al denim». La caratteristica che fa la differenza?«La vestibilità. Nel passato l'uomo ha sempre guardato alla giacca più che al pantalone ma i costumi stanno cambiando. È il suo insieme di dettagli che trasferisce una certa emozione». Voi siete dei maghi nei dettagli. «Una volta il prodotto veniva scelto per quello. Penso alle cuciture, a esempio. La cucitura. Addirittura il pantalone si vendeva al contrario perché era al contrario che vedevi la qualità dei particolari. Ora deve essere bello e la qualità la si dà per scontata». Le novità della prossima collezione?«Il debutto a Milano, perché questa stagione affrontiamo una nuova sfida per noi importantissima che non ci ha fatto dormire tante notti. Dopo 50 anni di soli pantaloni abbiamo deciso di allargare la nostra offerta ad altri prodotti. Ai pantaloni abbiniamo maglieria, camiceria tutto tranne che le giacche. PT Torino si allarga». Dove avviene la produzione?«Abbiamo due stabilimenti in Romania per la mano d'opera. 700 dipendenti tra diretti e indiretti. In Italia tutto il resto, dalla logistica, alla materia prima, allo stile. 1200 punti vendita nel mondo».Come mai la scelta della Romania?«Principalmente legata al costo del lavoro minore ed è un Paese che ha grosse tradizioni nel cucito e nella sartoria. Le grosse fabbriche di stato ex sovietiche, alla fine del regime si sono disgregate e hanno creato migliaia di piccole fabbriche che hanno mantenuto la cultura del saper cucire. Per noi, andar via dall'Italia ormai 15 anni fa, è stata una sofferenza incredibile anche a livello lavorativo. Il made in Italy di qui spesso è di facciata, lo trovo assolutamente pretestuoso nella maggior parte dei casi. Faccio il made in Italy, ho un trust in Inghilterra, pago le tasse in Olanda e qui lavorano i cinesi ma sono in Italia. È tutto marketing. È inutile fare i santi e i filosofi».
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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