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2022-07-09
Il dramma carcerario di «Black Bird» su Apple Tv+
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Black Bird (Apple Tv)
Va detto subito, prima che la nostalgia, insieme alla speranza di veder un giorno eguagliati i propri feticci, possa tradire lo spettatore. Black Bird, al debutto su Apple Tv+ venerdì 8 luglio, non è Mindhunter. Ma, al racconto perfetto di come l’Fbi sia arrivato a sviluppare la figura del profiler, di come abbia analizzato i serial killer fino a trovarne i tratti in comune, comportamenti che si ripetono, un po’ si avvicina. Black Bird, adattamento seriale di un’autobiografia, In with the Devil: A fallen hero, a serial killer, and a dangerous bargain for redemption, è la storia vera di uno spacciatore, condannato a dieci anni di reclusione. Avrebbe potuto farli in una prigione di minima sicurezza, Jimmy Keene, il viso di un ragazzo che nei licei americani è destinato ad ingrassare le fila dei più popolari. Ma la salute traballante di suo padre, un infarto improvviso, lo ha portato ad accettare quel genere di offerta che – in condizioni di apparente normalità – non avrebbe esitato a rifiutare. «Non per tutti i soldi del mondo», si era concesso di replicare all’Fbi, schifando con malcelato orgoglio la proposta di agenti in giacca e cravatta. Volevano ridurgli la pena, costringendolo al ruolo di spia. «Non per tutti i soldi del mondo», aveva ribadito Keene, la cui parte è stata affidata nei sei episodi a Taron Egerton. La vita, però, ha fatto il suo corso, e quella dell’uomo che lo ha messo al mondo, un Ray Liotta alla sua ultima interpretazione, ha cominciato a spegnersi. Una luce ridotta ad un pallido bagliore. Avrebbe rischiato di non vederlo mai più, se l’ostinazione criminale, il codice d’onore dei malviventi avesse guidato le sue scelte. Così, Keene ha deciso di turarsi il naso, accettando lo scambio: uno sconto di pena, un carcere di massima sicurezza e l’imperativo categorico di entrare in confidenza con un presunto serial killer, Larry Hall (Paul Walter Hauser), in modo da estorcergli una confessione degna di essere definita tale.
Black Bird, dunque, è la cronaca di un rapporto di convenienza, e c’è un giallo a renderlo magnetico. Ragazze morte, i corpi mai trovati, l’ammissione ambigua di un criminale che non è chiaro cosa voglia, se la notorietà perversa dell’omicida o la verità. Al contempo, però, è qualcosa di più: come Mindhunter, uno studio altrettanto magnetico sulla criminalità, gli abissi della natura umana, sulla responsabilità e il ruolo sociale delle forze dell’ordine. Black Bird, per cui Dennis Lehane, già autore dei romanzi da cui sono stati tratti Mystic River e Shutter Island, ha scelto di figurare come showrunner e produttore, cerca di portare chi guardi dentro la mente di Hall, uno che dice di avere ucciso le ragazze senza poter portare prove a supporto della sua confessione. Un mitomane, forse. Certo, un pazzo. Hall, persona vera, come vero è Jimmy Keene, è il protagonista del mistero. Ma è il lavoro congiunto, la relazione fra Keene e l’assassino presunto di quattordici adolescenti, a costituire il cuore dello show. È il loro parlarsi, il loro aprirsi a confessioni che ascoltare – seppur in qualità di spettatore – è, a tratti, difficile. È lo scambio ad avvicinare Black Bird a Mindhunter, sfruttando la prigione per guardare nell’unico luogo che le sbarre non possono contenere, l’animo umano. Contorto, schifoso, egoista, eppure, se in formato serie televisiva, fatalmente affascinante.
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Ha debuttato ieri sulla piattaforma di streaming di film e serie tv Black Bird, adattamento seriale di un’autobiografia, In with the Devil: A fallen hero, a serial killer, and a dangerous bargain for redemption, il racconto di una storia vera di uno spacciatore, condannato a dieci anni di reclusione.Va detto subito, prima che la nostalgia, insieme alla speranza di veder un giorno eguagliati i propri feticci, possa tradire lo spettatore. Black Bird, al debutto su Apple Tv+ venerdì 8 luglio, non è Mindhunter. Ma, al racconto perfetto di come l’Fbi sia arrivato a sviluppare la figura del profiler, di come abbia analizzato i serial killer fino a trovarne i tratti in comune, comportamenti che si ripetono, un po’ si avvicina. Black Bird, adattamento seriale di un’autobiografia, In with the Devil: A fallen hero, a serial killer, and a dangerous bargain for redemption, è la storia vera di uno spacciatore, condannato a dieci anni di reclusione. Avrebbe potuto farli in una prigione di minima sicurezza, Jimmy Keene, il viso di un ragazzo che nei licei americani è destinato ad ingrassare le fila dei più popolari. Ma la salute traballante di suo padre, un infarto improvviso, lo ha portato ad accettare quel genere di offerta che – in condizioni di apparente normalità – non avrebbe esitato a rifiutare. «Non per tutti i soldi del mondo», si era concesso di replicare all’Fbi, schifando con malcelato orgoglio la proposta di agenti in giacca e cravatta. Volevano ridurgli la pena, costringendolo al ruolo di spia. «Non per tutti i soldi del mondo», aveva ribadito Keene, la cui parte è stata affidata nei sei episodi a Taron Egerton. La vita, però, ha fatto il suo corso, e quella dell’uomo che lo ha messo al mondo, un Ray Liotta alla sua ultima interpretazione, ha cominciato a spegnersi. Una luce ridotta ad un pallido bagliore. Avrebbe rischiato di non vederlo mai più, se l’ostinazione criminale, il codice d’onore dei malviventi avesse guidato le sue scelte. Così, Keene ha deciso di turarsi il naso, accettando lo scambio: uno sconto di pena, un carcere di massima sicurezza e l’imperativo categorico di entrare in confidenza con un presunto serial killer, Larry Hall (Paul Walter Hauser), in modo da estorcergli una confessione degna di essere definita tale. Black Bird, dunque, è la cronaca di un rapporto di convenienza, e c’è un giallo a renderlo magnetico. Ragazze morte, i corpi mai trovati, l’ammissione ambigua di un criminale che non è chiaro cosa voglia, se la notorietà perversa dell’omicida o la verità. Al contempo, però, è qualcosa di più: come Mindhunter, uno studio altrettanto magnetico sulla criminalità, gli abissi della natura umana, sulla responsabilità e il ruolo sociale delle forze dell’ordine. Black Bird, per cui Dennis Lehane, già autore dei romanzi da cui sono stati tratti Mystic River e Shutter Island, ha scelto di figurare come showrunner e produttore, cerca di portare chi guardi dentro la mente di Hall, uno che dice di avere ucciso le ragazze senza poter portare prove a supporto della sua confessione. Un mitomane, forse. Certo, un pazzo. Hall, persona vera, come vero è Jimmy Keene, è il protagonista del mistero. Ma è il lavoro congiunto, la relazione fra Keene e l’assassino presunto di quattordici adolescenti, a costituire il cuore dello show. È il loro parlarsi, il loro aprirsi a confessioni che ascoltare – seppur in qualità di spettatore – è, a tratti, difficile. È lo scambio ad avvicinare Black Bird a Mindhunter, sfruttando la prigione per guardare nell’unico luogo che le sbarre non possono contenere, l’animo umano. Contorto, schifoso, egoista, eppure, se in formato serie televisiva, fatalmente affascinante.
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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