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2018-10-14
Draghi pompiere su Italia e Ue: sì al compromesso. E Intesa fa la seconda gamba della manovra
ANSA
In significativa convergenza logica e cronologica con le parole di Giuseppe Guzzetti, anche il presidente della Bce Mario Draghi, a Bali, nella sua conferenza stampa finale nell'ambito del meeting annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, ha lanciato un messaggio di forte distensione rispetto all'Italia.
Draghi ha esplicitamente preso le distanze dai verdetti preventivi di condanna emessi a mezzo stampa nei giorni scorsi (sempre a Borse aperte) dagli attuali vertici della Commissione Europea (Jean-Claude Juncker, Pierre Moscovici, Jyrki Katainen) sulla legge di bilancio che l'Italia deve ancora presentare. È bene ricordare che la manovra sarà inviata a Bruxelles soltanto domani, 15 ottobre, e dovrà giungere alle Camere il 20.
Per molti versi, scegliendo di parlare per il secondo giorno consecutivo, è come se Mario Draghi avesse voluto correggere alcune interpretazioni delle sue dichiarazioni dell'altro ieri, o comunque marcare una differenza rispetto alle sortite dei Commissari Ue a cui le sue parole erano state associate ieri da alcuni media.
«Sono fiducioso che tutte le parti trovino un compromesso», ha detto Draghi. «Sappiamo che ci sono procedure stabilite e accettate da tutti, e che ci sono state deviazioni: non è la prima volta e non sarà l'ultima», ha aggiunto, di fatto sdrammatizzando la situazione e riconducendo la dialettica tra Roma e Bruxelles a un negoziato fisiologico.
«Come ho detto, bisogna abbassare i toni e sono piuttosto ottimista che sarà trovato un compromesso», ha detto ancora, invitando tutti a un esercizio di ragionevolezza: «Dobbiamo aspettare i fatti. Dobbiamo aspettare come questa manovra verrà fuori esattamente». E per rendere più chiara la presa di distanze dai pasdaran della Commissione Ue, Draghi ha precisato che l'invito ad «abbassare i toni è a tutte le parti, non solo all'Italia».
Inevitabilmente, dopo il colpo al cerchio, è arrivato quello alla botte. Draghi ha infatti negato che le responsabilità per il rialzo dello spread siano addebitabili alla fine del quantitative easing, sottolineando che i sussulti sui mercati non si sono verificati a giugno, al momento dell'annuncio della fine del Qe, ma ora: «Quello che accade oggi è legato all'Italia». E a seguire un inciso critico verso alcune voci della maggioranza di governo italiana: «Un'espansione del bilancio in un Paese ad alto debito diventa molto più complicata se la gente comincia a mettere in dubbio l'euro. Queste dichiarazioni hanno creato danni reali e ci sono molte prove che lo spread è cresciuto per queste dichiarazioni». Ma pure in questo passaggio oggettivamente critico nei confronti del governo, Draghi ha precisato che «non c'è contagio in atto», di nuovo prendendo le distanze dall'espressione usata nei giorni scorsi da Katainen.
Al termine di questa settimana, si possono dunque sintetizzare almeno sei elementi.
1 A Bali l'Italia ha trovato un significativo incoraggiamento su più fronti: non solo l'esplicito supporto del segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, ma le rassicurazioni del managing director del Fondo salvastati Esm Klaus Regling, che ha respinto ogni paragone tra Italia e Grecia e ha sottolineato che il nostro Paese non ha mai perso l'accesso ai mercati.
2 Resta l'ostilità evidentissima di una Commissione Ue che è politicamente in articulo mortis, in cui nessuno dei membri sarà realisticamente confermato dopo le Europee di fine maggio. L'ipotesi di una procedura di infrazione verso l'Italia resta sullo sfondo, così come - più a stretto giro di posta - le prevedibili richieste di chiarimenti e correzioni da parte di Bruxelles.
3 Più preoccupante, ma per molti versi già dato per scontato da alcuni osservatori, è un possibile downgrading dei titoli italiani da parte di alcune agenzie di rating. È immaginabile una notevole volatilità a fine mese, prima e dopo quelle decisioni di Moody's, Standard & Poor's e Fitch.
4 Anche in vista di quei tornanti difficili, un chiaro ombrello geopolitico è stato aperto sopra di noi dall'amministrazione Trump. La stessa volontà di Jp Morgan, una delle principali banche Usa, di mantenere e addirittura accrescere gli investimenti in Btp, dice molto.
5 A maggior ragione dinanzi alla presa di posizione di Washington, rilevanti segmenti dell'establishment europeo e italiano (abbiamo evocato le dichiarazioni di Draghi e Guzzetti) non sembrano affatto disponibili a farsi arruolare in una scomposta crociata contro il governo gialloblù.
6 Ora, naturalmente, sta all'esecutivo far tesoro di questi elementi, e, nel cammino che da qui a fine anno porterà all'approvazione della manovra, irrobustire la componente sviluppista e pro crescita della legge di bilancio.
Tornando a Draghi, resta invece un interrogativo al quale nessuno può rispondere, se non lui stesso. La domanda è: al di là del calendario in esaurimento del Qe, la Banca centrale europea potrà e vorrà mettere in campo, se questo si rendesse necessario, altri elementi e altre forme di garanzia dei titoli del debito pubblico degli Stati membri?
Intesa torna banca di sistema: fa la seconda gamba della manovra
Lo scorso 4 ottobre Romano Prodi rilasciava un'intervista tutta messaggi e allarmi al Corriere. Manovra, sbagliata, anzi elettorale, spiegava omettendo il modello 80 euro di Matteo Renzi . Ma soprattutto l'uomo dell'Ulivo avvertiva il Pd della necessità di prendere una posizione: «Capire chi comanda davvero». Il sintomo è quello di un'area di sinistra che rischia sempre più di spezzarsi in due. Un previsione tanto reale che lo stesso giorno il numero uno di banca Intesa, Carlo Messina, consustanziava il timore prodiano. «Bene il reddito di cittadinanza. La banca è pronta a dare una mano per la riforma dei centri per l'impiego», ha detto, aggiungendo che «sullo spread Intesa continuerà la propria politica».
Tradotto: sui Btp l'istituto di sistema per eccellenza continuerà a garantire la stabilità. Ergo, anche la stabilità del governo gialloblù. Se vi può sembrare una sintesi estrema, le dichiarazioni rilasciate ieri a Bali da Gian Maria Gros-Pietro, vanno esattamente in questa direzione. «I miglioramenti fatti dalle banche italiane, ancora poco compresi, hanno permesso negli ultimi 18 mesi di dimezzare gli stock di Npl (non performing loans, ndr) e di tenere il loro tasso di crescita a livelli inferiori a quelli pre crisi, e di quasi duplicare in dieci anni i coefficienti patrimoniali. Con questi scenari», ha spiegato Gros-Pietro, «Intesa mette a disposizione 150 miliardi nel triennio dedicati alle imprese e destinate agli investimenti».
Una frase che contiene numerose informazioni. La prima riguarda la banca. Come ovvio che sia, il presidente loda la salute del proprio istituto e manda un messaggio agli investitori esteri. In tempo di turbolenze è un atto dovuto. La seconda parte della dichiarazione contiene invece la vera notizia. Annunciare investimenti per 50 miliardi all'anno vuol dire riempire di liquidità le promesse della manovra firmata Matteo Salviini, Luigi Di Maio e Giovanni Tria. L'altro giorno il premier ha convocato le partecipate pubbliche chiedendo ai loro manager uno sforzo per assumere e mettere denaro in circolo. Cifra tutto sommato bassa. Una manovra con soli due miliardi di tasse e almeno 17 destinati a reddito di cittadinanza e anticipo pensionistico necessita di una seconda gamba in grado di sostenere la spesa. Il governo ha annunciato un monte di investimenti. Leggendo il Def, però, la somma non supererebbe lo 0,2% del Pil. Un paletto troppo esile se non fosse per la mega stampella che ieri Intesa ha offerto al governo. Non parliamo solo dei 150 miliardi ma anche del messaggio relativo al debito pubblico.
«A fronte della pietra al collo che soffoca la capacità del Paese», ha detto ancora Gros- Pietro, «Intesa ha avanzato l'ipotesi di far fruttare il patrimonio immobiliare degli enti pubblici non utilizzato o sottoutilizzato, da cui si potrebbero ricavare 50 miliardi». Un'iniziativa che «sarebbe un cambiamento di direzione e che i mercati accoglierebbero bene perché gran parte del patrimonio immobiliare degli enti pubblici è gestito male». In pratica si tratterebbe di definire una sorta di fondo immobiliare le cui quote andrebbero ad abbattere il debito pubblico. Al di là della proposta concreta, è chiaro che in queste settimane sta cambiando qualcosa nei confronti dei gialloblù. Ieri Mario Draghi ha ribadito - e quindi elevato - le parole recitate pochi giorni fa da Giuseppe Guzzetti, numero uno delle Fondazioni bancarie. Aveva detto per smorzare i toni: «Aspettiamo di vedere la manovra prima di giudicare». Ieri a Bali i vertici di Intesa erano in delegazione con il ministro dell'Economia, e anche questa non deve essere considerata una coincidenza.
In pratica, sembra che la finanza bianca e la banca di sistema si apprestino a «romanizzare i barbari» che hanno preso possesso di Palazzo Chigi. Anche se lo scenario non è certamente così semplice. Ieri il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, ha sparato una bomba sul centrodestra. «In futuro non ci sarà più questa alleanza», ha detto per di più riferendosi a Silvio Berlusconi con un verbo declinato al passato. Anche questa una coincidenza? Difficile. Più facile ipotizzare che il «Gianni Letta» di Matteo Salvini senta un sostegno esterno che prima era alla finestra. Ciò potrebbe in futuro delineare nuove strategie e magari alleanze. Non a caso, parte della Lega nelle ultime settimane ha aperto canali comunicativi con Confindustria e pure con Beppe Sala.
Questo serve probabilmente a bilanciare quanto avviene tra le fila dei 5 stelle. Tecnici e dirigenti pubblici legati alla Margherita o a una parte del Pd hanno un dialogo diretto con almeno metà del partito grillino. Basti pensare alle mosse di Tito Boeri in termini di emendamenti e strategie pensionistiche. L'establishment cerca un riposizionamento dall'interno. Se l'esecutivo gialloblù cadesse dopo le elezioni europee, ai 5 stelle servirebbe una nuova stampella. Ecco, la sinistra sta cercando di costruirla da dentro. In mezzo c'è il presidente della Repubblica che media, suggerisce, stimola e troppo spesso si impone. La discesa in campo di Intesa che torna a essere di sistema (dopo il maxi salvataggio delle Venete ai tempi di Gentiloni è seguito un lungo silenzio), però, sembra tanto una mano di colla che pare saldare la parte gialla con quella blù del governo.
La finanza boccia l’Alitalia di Di Maio
Non diminuisce la tensione nella maggioranza sul dossier Alitalia, mentre le Ferrovie si fanno avanti con una manifestazione di interesse sulla compagnia. «Io penso che delle cose che fa il Tesoro debba parlarne il ministro dell'Economia. Io non ne ho parlato», ha detto l'altra sera Giovanni Tria, in merito all'ipotesi di ingresso del Mef nel capitale di Alitalia così come affermato dal vicepremier e ministro Luigi Di Maio. In un'intervista in apertura di prima pagina al Sole 24 Ore, il ministro dello Sviluppo, in merito al rilancio di Alitalia, aveva parlato di una «newco dalla dotazione iniziale tra 1,5 e 2 miliardi, partecipata intorno al 15% dal ministero dell'Economia, grazie alla conversione in equity di parte del prestito ponte da 900 milioni concesso dal precedente governo» e per il resto «da Ferrovie e da un importante partner tecnico internazionale». «Arriveremo alla scadenza del 31 ottobre con una manifestazione di interesse con offerta vincolante o comunque con una manifestazione di interesse seria e concreta. Vogliamo consentire ad Alitalia non solo di ripartire, ma di renderla strategica nell'offerta turistica italiana», aveva spiegato. Il piano prevederebbe inoltre un'altra società dedicata al noleggio e all'acquisto dei velivoli, che potrebbe essere finanziata da Cdp. Nella serata di ieri Di Maio ha puntualizzato: «Nel contratto di governo abbiamo previsto l'ingresso dello Stato attraverso soldi che già sono in Alitalia. Così si andrà avanti, senza scontri, perché siamo d'accordo come ministri e come forze politiche e perché il presidente del Consiglio sostiene questa ipotesi. Avremo tutto il modo di arrivare all'obiettivo senza nessun tipo di scontro o di controversie». In realtà, i difetti di comunicazione nascondono molto di più. Giuseppe Guzzetti , capo delle Fondazioni e azionista di minoranza di Cdp, ha detto chiaramente di non approvare l'ingresso della Cassa in Alitalia. Esattamente quanto detto tra le righe da Tria e ieri persino dal presidente di Intesa, Gian Maria Gros-Pietro, che in riferimento a un cordone sanitario ha messo un paletto a metà del progetto grillino di salvataggio. «Non ho mai parlato con il ministro Tria di Alitalia», ha detto ribadendo la presa di posizione del Mef contro il Mise. «Da tempo diciamo che l'Italia, come Paese a forte vocazione turistica, abbia bisogno di una compagnia di bandiera, sarebbe una cosa importante. Per questo in passato l'abbiamo sostenuta», ha aggiunto a margine dei lavori del meeting annuale del Fondo monetario internazionale. «Non sono al corrente della vicenda. Ma non siamo contenti dei risultati che ha dato la compagnia in passato. Non siamo interessati. Aspettiamo una soluzione» della vicenda «e ci fa piacere che il governo ci stia lavorando», ha concluso. Un modo, se ci fosse ancora qualche dubbio, per fare capire come la pensa la banca di sistema e con chi sta dentro la maggioranza. Chi invece si barcamena è il premier Giuseppe Conte, che ieri ha voluto specificare che il dossier è in mano al ministro Di Maio. «Ci siamo aggiornati», ha detto, «dobbiamo assolutamente fornire una soluzione e fare sistema, creare sinergie con le Ferrovie dello Stato perché il trasporto aereo e quello ferroviario non possono essere sganciati, abbiamo allo studio una newco e confidiamo a breve di realizzarla». Da come finirà la partita Alitalia si capiranno gli equilibri futuri dentro il governo perché, anche se Matteo Salvini vuole garantire l'italianità del vettore, alla fine la Lega non è poi così disposta a bruciare 900 milioni di soldi pubblici.
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Il capo della Bce invita ad «abbassare i toni: aspettiamo la legge». Critica ai gialloblù: «Spread su per i dubbi sull'euro».Il presidente, in missione a Bali con il ministro dell'Economia, annuncia: «In arrivo 150 miliardi in tre anni per le imprese». Investimenti necessari per bilanciare la riforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza.Il vicepremier insiste sulla nazionalizzazione: «L'ingresso dello Stato è nel contratto». Dopo Giovanni Tria e Giuseppe Guzzetti, però, frena anche Gian Maria Gros-Pietro. E il Carroccio è molto tiepido.Lo speciale contiene tre articoli.In significativa convergenza logica e cronologica con le parole di Giuseppe Guzzetti, anche il presidente della Bce Mario Draghi, a Bali, nella sua conferenza stampa finale nell'ambito del meeting annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, ha lanciato un messaggio di forte distensione rispetto all'Italia. Draghi ha esplicitamente preso le distanze dai verdetti preventivi di condanna emessi a mezzo stampa nei giorni scorsi (sempre a Borse aperte) dagli attuali vertici della Commissione Europea (Jean-Claude Juncker, Pierre Moscovici, Jyrki Katainen) sulla legge di bilancio che l'Italia deve ancora presentare. È bene ricordare che la manovra sarà inviata a Bruxelles soltanto domani, 15 ottobre, e dovrà giungere alle Camere il 20.Per molti versi, scegliendo di parlare per il secondo giorno consecutivo, è come se Mario Draghi avesse voluto correggere alcune interpretazioni delle sue dichiarazioni dell'altro ieri, o comunque marcare una differenza rispetto alle sortite dei Commissari Ue a cui le sue parole erano state associate ieri da alcuni media. «Sono fiducioso che tutte le parti trovino un compromesso», ha detto Draghi. «Sappiamo che ci sono procedure stabilite e accettate da tutti, e che ci sono state deviazioni: non è la prima volta e non sarà l'ultima», ha aggiunto, di fatto sdrammatizzando la situazione e riconducendo la dialettica tra Roma e Bruxelles a un negoziato fisiologico.«Come ho detto, bisogna abbassare i toni e sono piuttosto ottimista che sarà trovato un compromesso», ha detto ancora, invitando tutti a un esercizio di ragionevolezza: «Dobbiamo aspettare i fatti. Dobbiamo aspettare come questa manovra verrà fuori esattamente». E per rendere più chiara la presa di distanze dai pasdaran della Commissione Ue, Draghi ha precisato che l'invito ad «abbassare i toni è a tutte le parti, non solo all'Italia».Inevitabilmente, dopo il colpo al cerchio, è arrivato quello alla botte. Draghi ha infatti negato che le responsabilità per il rialzo dello spread siano addebitabili alla fine del quantitative easing, sottolineando che i sussulti sui mercati non si sono verificati a giugno, al momento dell'annuncio della fine del Qe, ma ora: «Quello che accade oggi è legato all'Italia». E a seguire un inciso critico verso alcune voci della maggioranza di governo italiana: «Un'espansione del bilancio in un Paese ad alto debito diventa molto più complicata se la gente comincia a mettere in dubbio l'euro. Queste dichiarazioni hanno creato danni reali e ci sono molte prove che lo spread è cresciuto per queste dichiarazioni». Ma pure in questo passaggio oggettivamente critico nei confronti del governo, Draghi ha precisato che «non c'è contagio in atto», di nuovo prendendo le distanze dall'espressione usata nei giorni scorsi da Katainen.Al termine di questa settimana, si possono dunque sintetizzare almeno sei elementi. 1 A Bali l'Italia ha trovato un significativo incoraggiamento su più fronti: non solo l'esplicito supporto del segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, ma le rassicurazioni del managing director del Fondo salvastati Esm Klaus Regling, che ha respinto ogni paragone tra Italia e Grecia e ha sottolineato che il nostro Paese non ha mai perso l'accesso ai mercati. 2 Resta l'ostilità evidentissima di una Commissione Ue che è politicamente in articulo mortis, in cui nessuno dei membri sarà realisticamente confermato dopo le Europee di fine maggio. L'ipotesi di una procedura di infrazione verso l'Italia resta sullo sfondo, così come - più a stretto giro di posta - le prevedibili richieste di chiarimenti e correzioni da parte di Bruxelles. 3 Più preoccupante, ma per molti versi già dato per scontato da alcuni osservatori, è un possibile downgrading dei titoli italiani da parte di alcune agenzie di rating. È immaginabile una notevole volatilità a fine mese, prima e dopo quelle decisioni di Moody's, Standard & Poor's e Fitch.4 Anche in vista di quei tornanti difficili, un chiaro ombrello geopolitico è stato aperto sopra di noi dall'amministrazione Trump. La stessa volontà di Jp Morgan, una delle principali banche Usa, di mantenere e addirittura accrescere gli investimenti in Btp, dice molto. 5 A maggior ragione dinanzi alla presa di posizione di Washington, rilevanti segmenti dell'establishment europeo e italiano (abbiamo evocato le dichiarazioni di Draghi e Guzzetti) non sembrano affatto disponibili a farsi arruolare in una scomposta crociata contro il governo gialloblù. 6 Ora, naturalmente, sta all'esecutivo far tesoro di questi elementi, e, nel cammino che da qui a fine anno porterà all'approvazione della manovra, irrobustire la componente sviluppista e pro crescita della legge di bilancio. Tornando a Draghi, resta invece un interrogativo al quale nessuno può rispondere, se non lui stesso. La domanda è: al di là del calendario in esaurimento del Qe, la Banca centrale europea potrà e vorrà mettere in campo, se questo si rendesse necessario, altri elementi e altre forme di garanzia dei titoli del debito pubblico degli Stati membri? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/draghi-fa-il-pompiere-e-bacchetta-lue-in-passato-accettate-deviazioni-sui-conti-2612146901.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="intesa-torna-banca-di-sistema-fa-la-seconda-gamba-della-manovra" data-post-id="2612146901" data-published-at="1765503940" data-use-pagination="False"> Intesa torna banca di sistema: fa la seconda gamba della manovra Lo scorso 4 ottobre Romano Prodi rilasciava un'intervista tutta messaggi e allarmi al Corriere. Manovra, sbagliata, anzi elettorale, spiegava omettendo il modello 80 euro di Matteo Renzi . Ma soprattutto l'uomo dell'Ulivo avvertiva il Pd della necessità di prendere una posizione: «Capire chi comanda davvero». Il sintomo è quello di un'area di sinistra che rischia sempre più di spezzarsi in due. Un previsione tanto reale che lo stesso giorno il numero uno di banca Intesa, Carlo Messina, consustanziava il timore prodiano. «Bene il reddito di cittadinanza. La banca è pronta a dare una mano per la riforma dei centri per l'impiego», ha detto, aggiungendo che «sullo spread Intesa continuerà la propria politica». Tradotto: sui Btp l'istituto di sistema per eccellenza continuerà a garantire la stabilità. Ergo, anche la stabilità del governo gialloblù. Se vi può sembrare una sintesi estrema, le dichiarazioni rilasciate ieri a Bali da Gian Maria Gros-Pietro, vanno esattamente in questa direzione. «I miglioramenti fatti dalle banche italiane, ancora poco compresi, hanno permesso negli ultimi 18 mesi di dimezzare gli stock di Npl (non performing loans, ndr) e di tenere il loro tasso di crescita a livelli inferiori a quelli pre crisi, e di quasi duplicare in dieci anni i coefficienti patrimoniali. Con questi scenari», ha spiegato Gros-Pietro, «Intesa mette a disposizione 150 miliardi nel triennio dedicati alle imprese e destinate agli investimenti». Una frase che contiene numerose informazioni. La prima riguarda la banca. Come ovvio che sia, il presidente loda la salute del proprio istituto e manda un messaggio agli investitori esteri. In tempo di turbolenze è un atto dovuto. La seconda parte della dichiarazione contiene invece la vera notizia. Annunciare investimenti per 50 miliardi all'anno vuol dire riempire di liquidità le promesse della manovra firmata Matteo Salviini, Luigi Di Maio e Giovanni Tria. L'altro giorno il premier ha convocato le partecipate pubbliche chiedendo ai loro manager uno sforzo per assumere e mettere denaro in circolo. Cifra tutto sommato bassa. Una manovra con soli due miliardi di tasse e almeno 17 destinati a reddito di cittadinanza e anticipo pensionistico necessita di una seconda gamba in grado di sostenere la spesa. Il governo ha annunciato un monte di investimenti. Leggendo il Def, però, la somma non supererebbe lo 0,2% del Pil. Un paletto troppo esile se non fosse per la mega stampella che ieri Intesa ha offerto al governo. Non parliamo solo dei 150 miliardi ma anche del messaggio relativo al debito pubblico. «A fronte della pietra al collo che soffoca la capacità del Paese», ha detto ancora Gros- Pietro, «Intesa ha avanzato l'ipotesi di far fruttare il patrimonio immobiliare degli enti pubblici non utilizzato o sottoutilizzato, da cui si potrebbero ricavare 50 miliardi». Un'iniziativa che «sarebbe un cambiamento di direzione e che i mercati accoglierebbero bene perché gran parte del patrimonio immobiliare degli enti pubblici è gestito male». In pratica si tratterebbe di definire una sorta di fondo immobiliare le cui quote andrebbero ad abbattere il debito pubblico. Al di là della proposta concreta, è chiaro che in queste settimane sta cambiando qualcosa nei confronti dei gialloblù. Ieri Mario Draghi ha ribadito - e quindi elevato - le parole recitate pochi giorni fa da Giuseppe Guzzetti, numero uno delle Fondazioni bancarie. Aveva detto per smorzare i toni: «Aspettiamo di vedere la manovra prima di giudicare». Ieri a Bali i vertici di Intesa erano in delegazione con il ministro dell'Economia, e anche questa non deve essere considerata una coincidenza. In pratica, sembra che la finanza bianca e la banca di sistema si apprestino a «romanizzare i barbari» che hanno preso possesso di Palazzo Chigi. Anche se lo scenario non è certamente così semplice. Ieri il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, ha sparato una bomba sul centrodestra. «In futuro non ci sarà più questa alleanza», ha detto per di più riferendosi a Silvio Berlusconi con un verbo declinato al passato. Anche questa una coincidenza? Difficile. Più facile ipotizzare che il «Gianni Letta» di Matteo Salvini senta un sostegno esterno che prima era alla finestra. Ciò potrebbe in futuro delineare nuove strategie e magari alleanze. Non a caso, parte della Lega nelle ultime settimane ha aperto canali comunicativi con Confindustria e pure con Beppe Sala. Questo serve probabilmente a bilanciare quanto avviene tra le fila dei 5 stelle. Tecnici e dirigenti pubblici legati alla Margherita o a una parte del Pd hanno un dialogo diretto con almeno metà del partito grillino. Basti pensare alle mosse di Tito Boeri in termini di emendamenti e strategie pensionistiche. L'establishment cerca un riposizionamento dall'interno. Se l'esecutivo gialloblù cadesse dopo le elezioni europee, ai 5 stelle servirebbe una nuova stampella. Ecco, la sinistra sta cercando di costruirla da dentro. In mezzo c'è il presidente della Repubblica che media, suggerisce, stimola e troppo spesso si impone. La discesa in campo di Intesa che torna a essere di sistema (dopo il maxi salvataggio delle Venete ai tempi di Gentiloni è seguito un lungo silenzio), però, sembra tanto una mano di colla che pare saldare la parte gialla con quella blù del governo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/draghi-fa-il-pompiere-e-bacchetta-lue-in-passato-accettate-deviazioni-sui-conti-2612146901.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-finanza-boccia-lalitalia-di-di-maio" data-post-id="2612146901" data-published-at="1765503940" data-use-pagination="False"> La finanza boccia l’Alitalia di Di Maio Non diminuisce la tensione nella maggioranza sul dossier Alitalia, mentre le Ferrovie si fanno avanti con una manifestazione di interesse sulla compagnia. «Io penso che delle cose che fa il Tesoro debba parlarne il ministro dell'Economia. Io non ne ho parlato», ha detto l'altra sera Giovanni Tria, in merito all'ipotesi di ingresso del Mef nel capitale di Alitalia così come affermato dal vicepremier e ministro Luigi Di Maio. In un'intervista in apertura di prima pagina al Sole 24 Ore, il ministro dello Sviluppo, in merito al rilancio di Alitalia, aveva parlato di una «newco dalla dotazione iniziale tra 1,5 e 2 miliardi, partecipata intorno al 15% dal ministero dell'Economia, grazie alla conversione in equity di parte del prestito ponte da 900 milioni concesso dal precedente governo» e per il resto «da Ferrovie e da un importante partner tecnico internazionale». «Arriveremo alla scadenza del 31 ottobre con una manifestazione di interesse con offerta vincolante o comunque con una manifestazione di interesse seria e concreta. Vogliamo consentire ad Alitalia non solo di ripartire, ma di renderla strategica nell'offerta turistica italiana», aveva spiegato. Il piano prevederebbe inoltre un'altra società dedicata al noleggio e all'acquisto dei velivoli, che potrebbe essere finanziata da Cdp. Nella serata di ieri Di Maio ha puntualizzato: «Nel contratto di governo abbiamo previsto l'ingresso dello Stato attraverso soldi che già sono in Alitalia. Così si andrà avanti, senza scontri, perché siamo d'accordo come ministri e come forze politiche e perché il presidente del Consiglio sostiene questa ipotesi. Avremo tutto il modo di arrivare all'obiettivo senza nessun tipo di scontro o di controversie». In realtà, i difetti di comunicazione nascondono molto di più. Giuseppe Guzzetti , capo delle Fondazioni e azionista di minoranza di Cdp, ha detto chiaramente di non approvare l'ingresso della Cassa in Alitalia. Esattamente quanto detto tra le righe da Tria e ieri persino dal presidente di Intesa, Gian Maria Gros-Pietro, che in riferimento a un cordone sanitario ha messo un paletto a metà del progetto grillino di salvataggio. «Non ho mai parlato con il ministro Tria di Alitalia», ha detto ribadendo la presa di posizione del Mef contro il Mise. «Da tempo diciamo che l'Italia, come Paese a forte vocazione turistica, abbia bisogno di una compagnia di bandiera, sarebbe una cosa importante. Per questo in passato l'abbiamo sostenuta», ha aggiunto a margine dei lavori del meeting annuale del Fondo monetario internazionale. «Non sono al corrente della vicenda. Ma non siamo contenti dei risultati che ha dato la compagnia in passato. Non siamo interessati. Aspettiamo una soluzione» della vicenda «e ci fa piacere che il governo ci stia lavorando», ha concluso. Un modo, se ci fosse ancora qualche dubbio, per fare capire come la pensa la banca di sistema e con chi sta dentro la maggioranza. Chi invece si barcamena è il premier Giuseppe Conte, che ieri ha voluto specificare che il dossier è in mano al ministro Di Maio. «Ci siamo aggiornati», ha detto, «dobbiamo assolutamente fornire una soluzione e fare sistema, creare sinergie con le Ferrovie dello Stato perché il trasporto aereo e quello ferroviario non possono essere sganciati, abbiamo allo studio una newco e confidiamo a breve di realizzarla». Da come finirà la partita Alitalia si capiranno gli equilibri futuri dentro il governo perché, anche se Matteo Salvini vuole garantire l'italianità del vettore, alla fine la Lega non è poi così disposta a bruciare 900 milioni di soldi pubblici.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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