John Elkann (Ansa)
Il gip Borretta chiede al pm l’imputazione coatta per Elkann e il commercialista Ferrero per le dichiarazioni di Marella.
Natale amaro per John Elkann. L’erede di casa Agnelli, impegnato nella cessione dei suoi giornali, La Stampa e La Repubblica (ma non della Juventus, da lui smentita con forza), nonostante la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Torino, si è ritrovato sul capo la richiesta di imputazione coatta ordinata dal gip agli inquirenti.
A fine estate, con un sintetico comunicato stampa, la Procura aveva annunciato la fine delle indagini sull’eredità di Marella Caracciolo (deceduta nel febbraio 2019). I reati contestati erano di dichiarazione infedele (inizialmente i pm avevano contestato la più grave dichiarazione fraudolenta) e di truffa ai danni dello Stato.
I magistrati annunciavano di avere richiesto l’archiviazione integrale per le posizioni del notaio Urs Robert von Gruenigen, Lapo e Ginevra Elkann; mentre per John e per il commercialista Gianluca Ferrero l’archiviazione parziale per il delitto di dichiarazione infedele. Quindi la Procura faceva sapere di avere espresso parere favorevole alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova presentata da John Elkann e alla richiesta di patteggiamento presentata da Ferrero.
Nel medesimo comunicato gli inquirenti dichiaravano «accertati redditi non dichiarati per circa 2,485 miliardi di euro nonché una massa ereditaria non sottoposta a tassazione per un valore pari a circa 1 miliardo».
I magistrati spiegavano anche che era stato possibile «ricostruire come fittizia la residenza svizzera di Marella Caracciolo» e che i pareri favorevoli alla definizione del procedimento penale erano «conseguenti» al versamento nelle casse dell’Erario di 183 milioni di euro da parte degli indagati, somma che estingueva «integralmente il debito tributario, comprensivo di sanzioni cd interessi».
Ma la ricostruzione della Procura non ha convinto il gip Antonio Borretta che ha ordinato l’imputazione coatta per John e Ferrero.
I pm, come detto, avevano ritenuto di riqualificare l’iniziale ipotesi di «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici» prevista dall’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000 (pena da 1 anno e 6 mesi a 6 anni) nella più lieve ipotesi (articolo 4 dello stesso decreto) che incrimina la dichiarazione infedele (pena prevista da 1 a 3 anni).
Nella loro richiesta i pm avevano così spiegato i motivi della loro decisione: «Gli artifici e raggiri posti in essere da Gianluca Ferrero e John Elkann, in concorso con la defunta Marella Caracciolo, volti alla costruzione ed al “presidio” della falsa residenza estera, appaiono in via primaria finalizzati al mancato versamento dell’imposta di successione e, quindi, alla commissione della truffa ai danni dello Stato». La prova? Il memorandum rinvenuto in una cantina dello studio Ferrero, dove si leggeva: «Nel caso di decesso della Signora C dovremo dimostrare che il suo ultimo domicilio era in Svizzera. Ciò sarà rilevante essenzialmente per la determinazione di due competenze (oltre alla questione riguardo all’imposta di successione)…».
Per la Procura «tale aspetto» consentiva di «ritenere le dichiarazioni sostanzialmente “necessitate” e, quindi, connotate non tanto da autonoma “fraudolenza”, ma da mera infedeltà».
Anche perché, essendo riferite alle annualità 2018 e al 2019, «risultano, di fatto, coeve rispetto alla commissione del delitto» di truffa e per questo, secondo la Procura, a maggiore ragione, andrebbero considerate «atti connessi all’omessa presentazione della dichiarazione di successione e necessari al fine di supportare tale condotta criminosa».
Ma la clemenza dei pm non era motivata solo da questo ipotetico «assorbimento», ma anche dal «ravvedimento operoso» di John Elkann, che ha estinto «il debito tributario […] mediante versamenti per complessivi 182.695.833,53 euro».
Per la Procura, inoltre, la dichiarazione in cui si attestava falsamente la residenza svizzera di Marella avrebbe avuto come obiettivo non solo il mancato pagamento della tassa di successione, ma anche il riconoscimento della validità del patto successorio che, di fatto, escludeva dall’asse ereditario Margherita. Insomma l’evasione fiscale non sarebbe stato altro che un positivo effetto collaterale.
Il gip, nella sua ordinanza, ha stroncato questa interpretazione favorevole al principale indagato: «Non può essere condivisa, in particolare, e in primo luogo, la riqualificazione giuridica dei fatti […] sulla base del presupposto che le condotte fraudolente erano direzionate “in via primaria” al mancato versamento dell’imposta sulla successione e quindi alla realizzazione della truffa. Infatti il dolo specifico di evasione non è escluso» quando chi commette il reato «abbia perseguito oltre all’obiettivo primario […] anche un diverso fine» ha scritto Borretta. Una «finalità parallela» già riconosciuta dalla Cassazione.
Ma il gip non smette di bacchettare gli inquirenti e il presidente di Stellantis: «Nel caso di specie, anche a voler ammettere che l’obiettivo primario perseguito dagli indagati John Philip Elkann e Gianluca Ferrero fosse quello di non versare l’imposta sulla successione di Marella Caracciolo, è indubbio che essi conoscessero e condividessero, godendone, anche i conseguenti, ingenti, benefici fiscali derivanti dalla fraudolenta “esterovestizione” della residenza» di Marella, «attuata mediante artifizi e raggiri e poi “presidiata” nel tempo, e dalla conseguente presentazione di dichiarazioni dei redditi privi di elementi attivi che invece avrebbero dovuto essere indicati». Per Borretta «si trattava non di cifre di importo trascurabile, bensì di cifre ampiamente superiori alla soglia di 30.000 euro indicata nella norma incriminatrice e al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati nelle dichiarazioni».
L’esterovestizione avrebbe prodotto, sottolinea il giudice, «fra le altre cose, una consistente evasione dell’imposta sul reddito prodotto dalla predetta». «Anzi», per Borretta, «il risultato immediato e certo delle predette condotte, è stato proprio il risparmio di spesa derivante dell’evasione delle imposte, realizzato per plurime annualità, essendo incerta la data di decesso» della donna e, in più, «John Elkann aveva un interesse evidente a realizzare detta operazione, indirettamente accrescitiva del patrimonio […], essendo diretto ed unico erede (unitamente ai suoi fratelli) della nonna».
Per questo il giudice ha respinto la richiesta di archiviazione e ha ordinato ai pm «la formulazione dell’imputazione, apparendo la condotta tenuta dagli indagati penalmente rilevante».
Ha pure aggiunto che «non risultano necessarie ulteriori indagini da compiere, essendo allo stato degli atti possibile formulare una ragionevole previsione di condanna dei predetti per il reato di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 74/2000».
Infine, il gip, nel suo provvedimento, disinnesca in partenza le prevedibili obiezioni degli avvocati: «In conclusione, per completezza, deve rammentarsi che non è abnorme, né in alcun modo impugnabile, il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, nel rigettare la richiesta di archiviazione, ordini al pubblico ministero di formulare l’imputazione nei confronti dell’indagato per il medesimo fatto, diversamente qualificando il titolo di reato rispetto a quello individuato dal pubblico ministero». il quale, però, convinto della propria tesi, potrebbe chiedere il proscioglimento degli imputati già in occasione della prossima udienza preliminare
Borretta ha, invece, disposto l’archiviazione completa nei confronti di Ginevra, Lapo e von Gruenigen.
Nel frattempo un altro gip, Giovanna De Maria, ha convocato una nuova udienza per l’11 febbraio per studiare la memoria presentata dai legali di John Elkann e fare degli approfondimenti sulla messa alla prova.
Lo stesso giudice ha anche rinviato al 21 gennaio l’udienza dedicata alla proposta di patteggiamento di una pena pecuniaria di circa 73.000 euro presentata dal commercialista Ferrero. Gli avvocati degli indagati hanno annunciato che depositeranno «ricorso per Cassazione» contro la decisione di Borretta, «eccependone l’abnormità». E hanno commentato: «Pur esprimendo la nostra soddisfazione per le archiviazioni disposte dal gip, la sua decisione di imporre al pm di formulare l’imputazione per John Elkann è difficile da comprendere, perché in contrasto con le richieste dei pubblici ministeri, che erano solide e ben argomentate per tutti i nostri assistiti». La conclusione dei legali è perentoria: «Ribadiamo la nostra ferma convinzione che le accuse mosse a John Elkann siano prive di qualsiasi fondamento e riaffermiamo la forte convinzione che egli abbia sempre agito correttamente e nel pieno rispetto della legge. La scelta di John Elkann di aderire a un accordo non implica alcuna ammissione di responsabilità ed è stata infatti ispirata solo dalla volontà di chiudere rapidamente una vicenda personale molto dolorosa».
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Il titolo vola a un passo dalla proposta di Tether. Il secco no di John Elkann non ha convinto gli investitori che la pensano come l’ex presidente Giovanni Cobolli Gigli: «Valore non in vendita? Diceva la stessa cosa su Gedi».
Cosa succederà in Borsa? I titoli della Juventus saliranno progressivamente fino a raggiungere il potenziale valore attribuitole da Tether, il colosso delle criptovalute che venerdì a Piazza Affari chiusa ha presentato un’offerta con tanto di premio del 20,74%, o crederanno al no «secco» di John Elkann che a strettissimo giro ha parlato di asset non in vendita?
La risposta degli investitori è stata abbastanza esplicita. Perché ieri le azioni della società bianconera hanno subito aperto in netto rialzo, superiore all’8%, per poi arrivare progressivamente a sfiorare la quotazione di 2,66 euro indicata nella proposta di Paolo Ardoino e Giancarlo Devasini. A fine giornata i guadagni si sono attestati al 18,5% e il titolo è arrivato a valere 2,60 euro. Insomma, siamo lì. Il messaggio è chiaro: la partita sul club più titolato d’Italia non è finita. Da una parte perché per tutto il fine settimana si sono rincorse voci che vedevano altri attori finanziari e non interessati ad entrare in gioco. Si è parlato del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, tesi avvalorata dal fatto che il fondo sovrano dell’Arabia Saudita (Pif) ha una partecipazione di Antenna, il gruppo greco che sta trattando l’acquisizione di giornali e radio di Gedi, altra società della galassia Exor. Ma anche di un possibile coinvolgimento di Leonardo Maria Del Vecchio, erede del fondatore di EssilorLuxottica che a sua volta era interessato a Gedi. Voci.
Dall’altra, perché il video con tanto di felpa della squadra e tono pseudo-stentoreo di John Elkann, non ha convinto nessuno. Il presidente di Exor, la holding di famiglia che controlla la Vecchia Signora del calcio italiano con il 65,4% delle quote, è sembrato ai più impacciato e fuori ruolo mentre rassicurava i tifosi e non solo sull’incedibilità di un club che «fa parte della mia famiglia da 102 anni» e mentre scandiva uno slogan tutto cuore e passione: «la nostra storia e i nostri valori non sono in vendita». Un caricatura.
Tant’è che per esempio, le parole di Jaki hanno suscitato la reazione sarcastica di Giovanni Cobolli Gigli, presidente del club dal 2006 al 2009, e manager navigato con un lungo trascorso d’impresa in aziende come Mondadori e Rinascente. Cobolli era ai vertici del club con una Juve retrocessa in B e penalizzata di 30 punti che iniziava la lenta risalita. «Ho ascoltato le parole di John Elkann», ha evidenziato pungente ospite di Radio Anch'io Sport su Rai Radio 1, «se potessi fare un po’ di ironia, vorrei sapere se queste parole sono state dette col cuore o col gobbo. Leggeva mentre parlava e questo non depone molto a favore della sua convinzione rispetto a quello che ha detto». Per poi andare dritto al punto. «John Elkann ha parlato di valori non in vendita? Due mesi fa aveva fatto le stesse dichiarazioni su Gedi e poi sono volate via con il vento dell’inverno. Prendiamo atto delle sue parole. Sono un po’ meno convinto della solidità della Juventus, a questo punto vediamo cosa succede».
Quindi l’ultima stoccata alla società più che alla proprietà. «Adesso bisogna costruire», ha spiegato, «la Juve ha una consiglio di amministrazione appena nominato che non deve essere assente come quelli precedenti. Certe dichiarazioni spettano all’amministratore delegato. Immagino che Comolli (il neo ad francese) stia già facendo delle total immersion per imparare l’italiano. Tutte le dichiarazioni che adesso fa il presidente spettano d’ora in poi alla società Juventus».
Vedremo. Intanto i riflettori restano accesi su Tether. Cosa intende fare la società di criptovalute che da tempo sta chiedendo di essere più coinvolta nelle future decisioni del club? Oggi è all’11,5% e ha Francesco Garino, un suo rappresentante nel cda. Ma vuole bel altro.
Ardoino e Devasini erano consapevoli che la loro offerta non avrebbe avuto una risposta positiva e probabilmente si aspettavano pure una replica di questo tenore, secca e a stretto giro. Ma adesso sono chiamati a dare una risposta a chi sostiene che si stiano facendo solo della gran pubblicità. Anche perché il valore della Juventus è oggettivamente superiore al miliardo e 400 milioni complessivi messi sul piatto (1,1 miliardi più il debito da 300 milioni). Basta fare un raffronto con il valore attribuito ormai tre anni e mezzo fa da RedBird che ha acquistato il Milan (senza stadio di proprietà) dal fondo Elliott per circa 1,1 miliardi.
E che ci siano dei margini lo dimostra anche il fatto che il Milan sia stato rilevato facendo ricordo a un prestito del venditore da 560 milioni, mentre l’offerta potenziale presentata dalla stablecoin con base in El Salvador esclude finanziamenti.
Certo, parlando di investimenti potenziali da 1 miliardo Tether ha ingolosito e non poco i tifosi bianconeri ponendo una sorta di benchmark rispetto alle future mosse dell’attuale dirigenza. Alzando così l’asticella delle aspettative del popolo bianconero. Ma non basta. Per far rimangiare la parola agli Elkann servirà un robusto rilancio che porti il valore del club intorno a quota due miliardi. A quel punto si peserà davvero l’autenticità delle parole dell’erede dell’Avvocato. Sulle quali, visto il pregresso (eclissi Fiat e vendita di Magneti Marelli, Comau e Iveco, per non parlare dei giornali) è lecito avere più di qualche dubbio.
Novak Djokovic (Ansa)
Il politicamente corretto ha eroso la tradizionale linea dura sugli ingressi. E a essere cacciati sono stati solo i non vaccinati.
La foto di Naveed Akram, l’attentatore affiliato a una cellula australiana dell’Isis che con suo padre Sajid Akram ha ucciso 16 persone che celebravano vicino Sidney la festa ebraica dell’Hannukkah, ferendone altre 38, circola da ore, accostata a quella di Novak Djokovic. Il meme, accompagnato dalla scritta «Una di queste due persone è stata espulsa dall’Australia», contrappone il tennista serbo, respinto dall’Australia nel 2022 per non essersi sottoposto a vaccinazione anti Covid, a uno degli autori della strage, a indicare le contraddizioni (eufemismo) dei controlli di frontiera australiani.
Controlli ispirati alle politiche dell’accoglienza e dell’integrazione spesso evocate dal primo ministro australiano Anthony Albanese, laburista, che in queste ore è stato attaccato duramente dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Pour cause: Akram Jr. era già noto alle forze dell’ordine dal 2019 per i suoi stretti legami con una cellula terroristica dello Stato islamico con sede a Sydney ma, ha fatto sapere lo stesso Albanese, «nelle valutazioni effettuate non era emersa alcuna indicazione che lasciasse presupporre minacce in corso o minacce di violenza». In effetti chi non ha una bandiera del Califfato in macchina, come quella ritrovata nell’auto dei due attentatori? Netanyahu si è scatenato contro Albanese: «Il vostro governo (che il 22 settembre ha formalizzato il riconoscimento dello Stato di Palestina, ndr) non ha fatto nulla per fermare la diffusione dell’antisemitismo in Australia». Per Marina Rosenberg, della Anti-Defamation League, «quello che sta accadendo in Australia è un campanello d’allarme per tutto il mondo».
Bondi Beach, spiaggia libera e aperta a tutti, a 20 minuti da Sidney, è - era - il simbolo dell’accoglienza e dell’immigrazione di massa nell’Australia orgogliosa della tolleranza. Il continente australiano ha accolto negli anni Sessanta e Settanta ondate di migranti greci e italiani (raccontate anche nel celebre film con Alberto Sordi Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata). Negli anni Settanta e Ottanta sono arrivati i rifugiati vietnamiti e libanesi, negli anni Novanta cinesi e coreani. L’allora governo conservatore, guidato da John Howard, ha imposto una stretta all’immigrazione illegale, incoraggiando in compenso quella legale, finché non è arrivata la migrazione delle popolazioni di religione musulmana, che ha provocato forse i più feroci scontri culturali fino ad oggi. Contro i simboli dell’islamismo si era espressa lo scorso 24 novembre la senatrice del partito di destra One Nation, Pauline Hanson, indossando un burqa in Senato a seguito del rifiuto della camera alta di concederle il permesso di introdurre un disegno di legge sul divieto di indossare il velo: il Senato l’ha censurata.
La percentuale di australiani che si identificano come musulmani è oggi superiore al 3 per cento. I cittadini di religione ebraica, però, sebbene costituiscano una comunità più ristretta (soltanto lo 0,4 per cento della popolazione) sono arrivati prima di tutti: Bondi Beach è stata sempre l’epicentro della comunità ebraica di Sydney, da quando i rifugiati sono giunti dall’Europa fuggendo prima dai nazisti, poi dai comunisti, prima e dopo la seconda guerra mondiale. E sono loro ad essere finiti nel mirino: solo quindici giorni fa, l’Executive Council of Australian Jewry aveva pubblicato un rapporto che evidenziava un aumento esponenziale di attacchi antisemiti (abusi verbali, assalti fisici, vandalismo, messaggi violenti e scritte antisemite). Se la media prima del 7 ottobre era di circa 400 incidenti l’anno, nel 2024 sono saliti a 2.062. Albanese ha nominato un commissario all’antisemitismo, Jillian Segal, che mesi fa ha prodotto un documento, ma il governo non ha ancora risposto formalmente (anche se ieri Albanese ha elencato le misure adottate su varie questioni). Alcune delle raccomandazioni di Segal erano state molto contestate e il governo sembrava non sapere cosa fare, dovendosi destreggiare tra le diverse istanze della società multiculturale australiana e il peso degli elettori musulmani a Sydney. Le maglie larghe nei controlli alle frontiere, il lassismo della security interna, che ha minimizzato i chiari precedenti di uno dei due attentatori, insieme con l’ondata antisemita in crescita, hanno fatto il resto: la sparatoria di massa è la più sanguinosa degli ultimi trent’anni. Alla retorica di governo sull’antisemitismo, insomma, è mancata la leadership di Albanese, considerata non convincente.
Oggi, la linea sembra più chiara: già prima dell’efferato attacco di domenica, un recente sondaggio Resolve aveva rilevato che il 53 per cento degli australiani vorrebbe un freno all’immigrazione di massa, che negli ultimi anni è cresciuta oltre misura. E se l’eroe che ha fermato uno dei due attentatori, Ahmed Al Ahmed, è un rifugiato di religione islamica e di origine siriana (memento utile a ricordare quanto sia errato confondere un’intera comunità con le azioni di un singolo), il fatto che fosse privo di visto (a differenza dei due attentatori) rende ancora più plastico lo stato di confusione delle politiche migratorie e di sicurezza australiane.
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Ansa
L'Australia è da tempo teatro di atti antisemiti che nascono in ambienti radicalizzati. Lo Stato «segue», ma non fa nulla. Così predicatori e miliziani tornano liberi e continuano a formare tagliagole.
In Australia è in corso un’indagine a tutto campo per accertare chi abbia fornito appoggio logistico ai due autori della strage di domenica sulla spiaggia di Bondi Beach, a Sydney. Nel corso dell’azione è rimasto ucciso Sajid Akram, 50 anni, mentre il bilancio complessivo è di 16 vittime e 47 feriti.
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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