2019-12-27
Dimissioni secretate fino a gennaio. Ma qualcuno lo ha voluto bruciare
C'era un accordo con il premier per non far emergere la rottura sotto le feste. La fuga di notizie potrebbe essere dovuta a un blitz M5s per sabotare i piani del professore. Che, da tempo, era in rotta con i vertici.La lettera di addio, per via di un accordo con il premier, doveva rimanere riservata fino a dopo le feste. E così, nello staff del ministro si sono convinti che la fuga di notizie sia stata alimentata da fonti del M5s per bruciare i ponti dietro le spalle. Ma perché Lorenzo Fioramonti se n'è andato? La scena era così chiara che adesso, intorno alle dimissioni del ministro, hanno preso ad impazzare i retroscena più ardui. Tutti si chiedono quale sia il vero motivo del grande rifiuto, se Fioramonti stia seguendo un piano, e se sì, quale. Nel M5s molti dopo le dimissioni lo vedono come un potenziale anti Di Maio, il Corriere della Sera lo immagina già come «capogruppo di una pattuglia di fuoriusciti che fondano un nuovo partito», nel governo c'è chi crede che l'addio sia solo un modo per rilanciare la propria carriera fuori dalla politica. Secondo Dagospia, il professore di economia è l'apripista di un nuovo partito legato a Giuseppe Conte (che avrebbe come regista Goffredo Bettini). Voci lo proiettano come leader di un partito ambientalista. La verità è che nessuno sa ancora nulla e che l'ex ministro in questi giorni si è ritirato in campagna con la famiglia annunciando che non farà interviste (cosa che invece di diminuire i sospetti lì alimenta: cosa nasconde questo silenzio?). L'unica cosa indubitabile è che Fioramonti fino ad ora ha fatto esattamente quello che fino a ieri aveva detto e che, sempre fino a ieri, aveva creduto indispensabile. Solo il successo raccolto sui social dopo le dimissioni ha alimentato i retroscenismi più esasperati. Questo non significa che in ognuna delle ipotesi che abbiamo ricordato non ci siano - come vedremo - degli elementi di verosimiglianza. E che allora, anche per poter capire gli scenari che si possono aprire, occorre ricostruire gli elementi certi. Poco più di un anno fa in una intervista alla Verità, e a chi scrive (lui era ancora viceministro alla Pubblica istruzione) Fioramonti illustrò per la prima volta il suo piano: «Lei sta parlando con un viceministro condizionato…»: aveva esordito così quando ci avevo parlato la prima volta, nella sua stanza del ministero a viale Trastevere. Il futuro ministro, era già esasperato per i mancati finanziamenti sulla materia di sua competenza (l'Università) e aveva posto questo aut aut: «Ho preso una decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà 1 miliardo in più per l'università e la ricerca». Diventato ministro, invece di recedere, alzò ulteriormente l'asticella: «Ne servono altri 2 per la scuola». Durante una seconda intervista gli avevo chiesto se fosse serio. E lui mi aveva risposto: «Più che serio. Sono fermamente determinato. Vedrà». Fioramonti - off the record - spiegava questo proposito con la propria storia professionale: un concorso negato in Italia («Con il suo curriculum se si presentasse metterebbe in difficoltà chi aspira a quel posto», gli aveva detto il suo professore), e poi una fortuna accademica guadagnata in giro per il mondo dopo aver lavorato e insegnato economia in Germania, in Venezuela, in Inghilterra in Francia e - soprattutto - in Sudafrica. Era stata proprio l'università di Pretoria la sua fortuna, il luogo dove a soli 35 anni gli erano stati affidati 50 milioni di dollari per realizzare un nuovo campus da zero (e ci rideva su: «Io, ex dottorando precario in Italia, ho selezionato e assunto 37 persone in un paese straniero»). Padre medico di Pronto soccorso, madre insegnante, nato e cresciuto nel quartiere ultraperiferico di Tor Bella Monaca («Ogni giorno andando a scuola attraversavo prato di siringhe lasciati dai tossici») il futuro ministro era diventato un caso dopo aver pubblicato Gross domestic problem, un libro di successo sui malfunzionamenti del Pil (testo in lingua originale inglese). Precettato da Di Maio dopo una presentazione del libro, trasformato nel dominus del governo ombra (ha reclutato lui Pasquale Tridico, oggi all'Inps), Fioramonti non ha mai nascosto la sua indipendenza, diventando il primo dirigente di primo piano a toccare il tema tabù della Casaleggio e associati. Lo aveva fatto in una clamorosa intervista a Sette che ha segnato la sua successiva rottura (non resa pubblica) con Luigi Di Maio: «Mi chiedo: che relazione c'è tra noi e un'azienda privata che non si capisce a quale titolo gestisce parte delle nostre risorse e che si inserisce nell'agenda politica?». Chiedeva l'intervistatore, Vittorio Zincone: «Si riferisce alla Casaleggio associati?». E lui: «Va benissimo un server provider che ci fa il sito web, ma questa situazione dimostra che il problema più che la leadership, è l'organizzazione del Movimento». Nel M5s era come bestemmiare in chiesa. In parallelo, però, il ministro continuava la sua battaglia sui fondi per l'istruzione: «I soldi stanziati nelle ultime due manovre non bastano. Negli ultimi vent'anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio. C'è bisogno di un intervento choc per recuperare il terreno perso». Ed ecco perché alcuni retroscena di queste ore sembrano privi di fondamento: 1) Fioramonti non conosce Bettini (presunto stratega del suo nuovo partito); 2) non vorrebbe uscire dal M5s (ma si è messo contro la Casaleggio); 3) non ha strutture sui territori per un nuovo partito. Se venisse cacciato, tuttavia, non abbandonerebbe la politica. Anche per questo, fino a ieri, il suo dissenso veniva ridotto ad una alzata di spalle: la logica di autoconservazione della politica portava al mantenimento del laticlavio ministeriale. Ma ha un carattere duro, una formazione anglosassone, nessuna inclinazione alla trattativa politica. I suoi detrattori dicono che non è andato mai a battere cassa al Mef, facendo zero lavoro di corridoio e molte offensive mediatiche. Tuttavia - con uno sforzo creativo - Fioramonti avrebbe potuto far valere 1,5 miliardi del nuovo contratto (già deciso con il precedente governo) sommarli ai 100 milioni per il sostegno e i soldi per l'Agenzia spaziale e farli valere come un raggiungimento del suo obiettivo. Non ha voluto farlo, e ieri è stato sommerso da una enorme ondata di simpatia social. Un ritorno insperato per la sua mossa del cavallo. Ma, soprattutto, un segnale di allarme per la popolarità del governo.
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Emanuele Orsini e Dario Scannapieco