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2018-09-19
Di Maio: «Un ministro serio i soldi li trova»
Ansa
L'incontro che si è tenuto a Palazzo Chigi due sere fa sulla manovra economica ha destato non pochi malumori all'interno della maggioranza. Lo scontro si è consumato soprattutto tra due ministri dell'esecutivo: Giovanni Tria, numero uno del dicastero dell'Economia, e Luigi Di Maio, vicepremier e responsabile del ministero del Lavoro. Ieri Tria - nel corso del Forum Bloomberg che si è tenuto a Milano - ha spiegato che «gli investimenti pubblici debbono tornare ad essere il 3% del Pil nel breve termine». Secondo Tria, «bisogna andare oltre la flat tax riducendo il carico fiscale sulla classe media. Siamo ad uno studio molto avanzato», ha detto, «che ridurrà il carico fiscale sulla classe media mantenendo il budget gestibile». Nel suo discorso il ministro dell'Economia ha anche citato il reddito di cittadinanza - caposaldo della propaganda elettorale del M5s - limitandosi a dire che serve «risolvere i problemi sociali che hanno portato a questa necessità». Il governo, ha aggiunto, «pur rispettando gli impegni europei, si impegna a tracciare un percorso bilanciato che tenga in considerazione diversi bisogni sociali e requisiti economici per creare una solida base per una crescita di lungo periodo». Inoltre «le misure che il governo metterà in campo non cambieranno l'impegno di ridurre il debito».
Dal canto suo Di Maio, vicepremier d'un partito che sul reddito di cittadinanza ha puntato fortissimo, mal sopporta la freddezza del ministero dell'Economia a riguardo. La misura è decisamente il punto più caldo del Documento di economia e finanza (da approvare entro il 27 settembre) e a parer dei grillini Tria non dovrebbe avere esitazioni. Dopo il vertice di lunedì sera a palazzo Chigi, c'è stata una cena tra il vicepremier Di Maio e alcuni vertici del M5s. Tra i partecipanti, il capogruppo alla Camera, Francesco D'Uva; il sottosegretario agli Affari regionali, Stefano Buffagni, e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Durante la cena - che si è tenuta in un ristorante dietro Palazzo Chigi - Di Maio avrebbe manifestato tutto il proprio dissenso verso quanto ascoltato durante tre ore di vertice col ministro dell'Economia Giovanni Tria, il premier Giuseppe Conte e l'altro vicepremier Matteo Salvini. Come riportato dalla Stampa, Di Maio avrebbe detto: «Non vogliono consentirci di fare il reddito di cittadinanza. Non hanno proprio capito allora... Se continua così Tria può andare a casa». Il ministro del Lavoro nel corso della cena avrebbe manifestato la necessità dare spazio, nella legge di bilancio, alle promesse che il M5s ha fatto agli elettori. Riferendosi a Salvini, come riporta La Stampa, ha detto: «Ora tocca alle nostre battaglie, basta inseguirlo sull'immigrazione». Né ci sarebbe stata da parte di Di Maio alcuna apertura alla pace fiscale messa in cantiere dalla Lega. Per il grillino altro non è che un condono e il movimento di cui fa parte, ribadisce, non lo voterà. Nel pomeriggio, però, lo stesso Di Maio ha poi smentito di aver invitato Tria a lasciare la sua poltrona. «Nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro Tria», ha sottolineato, «ma pretendo che il ministro dell'Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà. Gli italiani in difficoltà non possono più aspettare, lo Stato non li può più lasciare soli e un ministro serio i soldi li deve trovare».
Alla base della differenza di vedute tra Tria e Di Maio, e più in generale tra Lega e M5s, c'è dunque la quantità di risorse da trovare e mettere nella legge di bilancio. Tra i due partiti della maggioranza «ballerebbero» circa 10 miliardi. Il M5s vorrebbe una manovra da circa 36 miliardi, mentre la Lega preferirebbe un'azione più «leggera», intorno ai 25 miliardi, soluzione con cui sarebbero d'accordo anche diversi tecnici del Mef (tra cui il capo di gabinetto, Roberto Garofoli) e Daniele Franco, ragioniere generale dello Stato. I due schieramenti di governo, dunque, in disaccordo e l'oggetto del contendere sarebbe proprio il reddito di cittadinanza. Non c'è molto da stupirsi: la campagna elettorale pentastellata era basata in larga parte su questo provvedimento: dovesse saltare, ballerebbero decine di migliaia di voti.
Gianluca Baldini (ha collaborato Alessandro Da Rold)
Olimpiadi, il gioco si fa duro Il governo dice no e i grillini restano da soli
Non c'è due senza tre. Terzo no alle Olimpiadi in Italia. Il progetto di «Mi-To-Co», cioè la candidatura a tre di Milano, Torino e Cortina, è fallito. Ancora una volta la differenza di vedute tra M5s e Lega ha avuto un peso determinante ma alla ritrosia pentastellata ha risposto la strategia leghista.
Ieri a dare l'annuncio della fine dei Giochi, il sottosegretario del Carroccio con deleghe dello sport Giancarlo Giorgetti davanti alle commissioni congiunte di Senato e Camera: «La proposta non ha il sostegno del governo ed è morta qui». Troppe polemiche e rivalità tra il sindaco di Milano Beppe Sala che chiedeva un ruolo da capofila nel nome e nell'organizzazione, il «brand Milano» famoso nel mondo, e la sindaca di Torino Chiara Appendino che aveva accettato malvolentieri la proposta congiunta perché il M5s piemontese era stato sempre contrario volendo fare l'evento sportivo soltanto in Piemonte, come nel 2006.
La richiesta di Sala non era piaciuta neanche al sottosegretario pentastellato con delega allo sport, Simone Valente, che sottolineando una diversa posizione di governo e Coni aveva detto: «Così non si può andare avanti». E così dopo il no del governo Monti alle Olimpiadi di Roma 2020 e quello di Virginia Raggi per Roma 2024, è arrivato il no anche del governo gialloblù. Ma se ai 5 stelle non piacciono i 5 cerchi, c'è già un piano B ed è quello che il presidente del Coni Giovanni Malagò, che ieri ha avuto un incontro con Giorgetti a Palazzo Chigi, potrebbe presentare al Cio oggi a Losanna: un progetto alternativo in tandem che si chiamerà «Milano-Cortina 2026». Come dire, un'alleanza forte tra due Regioni governate dalla Lega che con l'appoggio di un sindaco dem escludono dalla corsa l'alleato di governo, il M5s.
Comunque ieri nessuna accusa da parte di Giorgetti che archiviando il «tridente» olimpico, con un certo rammarico, ha detto: «Non intendo ribaltare la responsabilità su alcuno dei sindaci, ma una cosa così importante e seria richiede condivisione, uno spirito che non ho rintracciato: sono prevalse forme di dubbio, sospetto piuttosto che entusiasmo. È un fallimento, anche mio personale se volete. Mi dispiace, ma è così: la candidatura così come è concepita non ha il sostegno del governo e quindi finisce qui».
A non rassegnarsi all'esclusione sono appunto i governatori leghisti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia che avevano già pronta l'exit strategy: «Arrivati a questo punto è impensabile gettare tutto alle ortiche. La candidatura va salvata, per cui siamo disponibili a portare avanti questa sfida insieme. Se Torino si chiama fuori, e ci dispiace, a questo punto restano due realtà, per cui andremo avanti con le Olimpiadi del Lombardo-Veneto». Con un tweet è arrivato subito il sostegno del sindaco Sala: «La proposta merita un rapido approfondimento. La mia posizione è nota, ma questa soluzione può funzionare». «Un'opportunità» anche per il sindaco di Cortina Giampietro Ghedina.
Ma Giorgetti fa subito chiarezza: «Zaia e Fontana potranno andare avanti sui Giochi, se vorranno. Quello che è certo è che il governo non se ne farà carico. Lo faranno loro direttamente, anche in termini di oneri». La garanzia del governo dunque non ci sarà, quella garanzia che chiede il Cio alla presentazione delle città. Ma stavolta ci potrebbe essere una deroga se ci saranno finanziatori privati e non solo, pronti a finanziare la doppia candidatura. La Appendino, piuttosto contrariata per l'esclusione dal piano B, ha sottolineato che Torino «senza il sostegno economico del governo non si sarebbe potuta candidare».
«Peccato perdere un'occasione così. Se i fondi li trovano loro, e se la spesa è limitata, perché no a Olimpiadi organizzate da Veneto e Lombardia? L'importante è che l'Italia torni ad essere protagonista» ha detto il vicepremier Matteo Salvini.
L'alleato Luigi Di Maio non attacca la Lega ma il Coni: «Abbiamo purtroppo pagato l'atteggiamento del Coni che, nel tentativo di non scontentare nessuno, non ha avuto il coraggio di prendere una decisione chiara sin dall'inizio, creando una situazione insostenibile in cui come al solito si sarebbero sprecati soldi dello Stato».
Sarina Biraghi
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Freddezza da parte di Giovanni Tria sulle coperture per il reddito di cittadinanza. Il vicepremier grillino attacca: «Pretendo che ci siano le risorse per gli italiani in difficoltà». Il Mef pensa alla flat tax: «Si deve andare oltre, riducendo il carico fiscale sulla classe media».Giancarlo Giorgetti sulle Olimpiadi invernali: «La proposta a tre è morta qui». Milano e Cortina tentano la candidatura a due, tagliando fuori Torino e il M5s.Lo speciale contiene due articoliL'incontro che si è tenuto a Palazzo Chigi due sere fa sulla manovra economica ha destato non pochi malumori all'interno della maggioranza. Lo scontro si è consumato soprattutto tra due ministri dell'esecutivo: Giovanni Tria, numero uno del dicastero dell'Economia, e Luigi Di Maio, vicepremier e responsabile del ministero del Lavoro. Ieri Tria - nel corso del Forum Bloomberg che si è tenuto a Milano - ha spiegato che «gli investimenti pubblici debbono tornare ad essere il 3% del Pil nel breve termine». Secondo Tria, «bisogna andare oltre la flat tax riducendo il carico fiscale sulla classe media. Siamo ad uno studio molto avanzato», ha detto, «che ridurrà il carico fiscale sulla classe media mantenendo il budget gestibile». Nel suo discorso il ministro dell'Economia ha anche citato il reddito di cittadinanza - caposaldo della propaganda elettorale del M5s - limitandosi a dire che serve «risolvere i problemi sociali che hanno portato a questa necessità». Il governo, ha aggiunto, «pur rispettando gli impegni europei, si impegna a tracciare un percorso bilanciato che tenga in considerazione diversi bisogni sociali e requisiti economici per creare una solida base per una crescita di lungo periodo». Inoltre «le misure che il governo metterà in campo non cambieranno l'impegno di ridurre il debito».Dal canto suo Di Maio, vicepremier d'un partito che sul reddito di cittadinanza ha puntato fortissimo, mal sopporta la freddezza del ministero dell'Economia a riguardo. La misura è decisamente il punto più caldo del Documento di economia e finanza (da approvare entro il 27 settembre) e a parer dei grillini Tria non dovrebbe avere esitazioni. Dopo il vertice di lunedì sera a palazzo Chigi, c'è stata una cena tra il vicepremier Di Maio e alcuni vertici del M5s. Tra i partecipanti, il capogruppo alla Camera, Francesco D'Uva; il sottosegretario agli Affari regionali, Stefano Buffagni, e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Durante la cena - che si è tenuta in un ristorante dietro Palazzo Chigi - Di Maio avrebbe manifestato tutto il proprio dissenso verso quanto ascoltato durante tre ore di vertice col ministro dell'Economia Giovanni Tria, il premier Giuseppe Conte e l'altro vicepremier Matteo Salvini. Come riportato dalla Stampa, Di Maio avrebbe detto: «Non vogliono consentirci di fare il reddito di cittadinanza. Non hanno proprio capito allora... Se continua così Tria può andare a casa». Il ministro del Lavoro nel corso della cena avrebbe manifestato la necessità dare spazio, nella legge di bilancio, alle promesse che il M5s ha fatto agli elettori. Riferendosi a Salvini, come riporta La Stampa, ha detto: «Ora tocca alle nostre battaglie, basta inseguirlo sull'immigrazione». Né ci sarebbe stata da parte di Di Maio alcuna apertura alla pace fiscale messa in cantiere dalla Lega. Per il grillino altro non è che un condono e il movimento di cui fa parte, ribadisce, non lo voterà. Nel pomeriggio, però, lo stesso Di Maio ha poi smentito di aver invitato Tria a lasciare la sua poltrona. «Nessuno ha chiesto le dimissioni del ministro Tria», ha sottolineato, «ma pretendo che il ministro dell'Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltà. Gli italiani in difficoltà non possono più aspettare, lo Stato non li può più lasciare soli e un ministro serio i soldi li deve trovare».Alla base della differenza di vedute tra Tria e Di Maio, e più in generale tra Lega e M5s, c'è dunque la quantità di risorse da trovare e mettere nella legge di bilancio. Tra i due partiti della maggioranza «ballerebbero» circa 10 miliardi. Il M5s vorrebbe una manovra da circa 36 miliardi, mentre la Lega preferirebbe un'azione più «leggera», intorno ai 25 miliardi, soluzione con cui sarebbero d'accordo anche diversi tecnici del Mef (tra cui il capo di gabinetto, Roberto Garofoli) e Daniele Franco, ragioniere generale dello Stato. I due schieramenti di governo, dunque, in disaccordo e l'oggetto del contendere sarebbe proprio il reddito di cittadinanza. Non c'è molto da stupirsi: la campagna elettorale pentastellata era basata in larga parte su questo provvedimento: dovesse saltare, ballerebbero decine di migliaia di voti. 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Ieri a dare l'annuncio della fine dei Giochi, il sottosegretario del Carroccio con deleghe dello sport Giancarlo Giorgetti davanti alle commissioni congiunte di Senato e Camera: «La proposta non ha il sostegno del governo ed è morta qui». Troppe polemiche e rivalità tra il sindaco di Milano Beppe Sala che chiedeva un ruolo da capofila nel nome e nell'organizzazione, il «brand Milano» famoso nel mondo, e la sindaca di Torino Chiara Appendino che aveva accettato malvolentieri la proposta congiunta perché il M5s piemontese era stato sempre contrario volendo fare l'evento sportivo soltanto in Piemonte, come nel 2006. La richiesta di Sala non era piaciuta neanche al sottosegretario pentastellato con delega allo sport, Simone Valente, che sottolineando una diversa posizione di governo e Coni aveva detto: «Così non si può andare avanti». E così dopo il no del governo Monti alle Olimpiadi di Roma 2020 e quello di Virginia Raggi per Roma 2024, è arrivato il no anche del governo gialloblù. Ma se ai 5 stelle non piacciono i 5 cerchi, c'è già un piano B ed è quello che il presidente del Coni Giovanni Malagò, che ieri ha avuto un incontro con Giorgetti a Palazzo Chigi, potrebbe presentare al Cio oggi a Losanna: un progetto alternativo in tandem che si chiamerà «Milano-Cortina 2026». Come dire, un'alleanza forte tra due Regioni governate dalla Lega che con l'appoggio di un sindaco dem escludono dalla corsa l'alleato di governo, il M5s. Comunque ieri nessuna accusa da parte di Giorgetti che archiviando il «tridente» olimpico, con un certo rammarico, ha detto: «Non intendo ribaltare la responsabilità su alcuno dei sindaci, ma una cosa così importante e seria richiede condivisione, uno spirito che non ho rintracciato: sono prevalse forme di dubbio, sospetto piuttosto che entusiasmo. È un fallimento, anche mio personale se volete. Mi dispiace, ma è così: la candidatura così come è concepita non ha il sostegno del governo e quindi finisce qui». A non rassegnarsi all'esclusione sono appunto i governatori leghisti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia che avevano già pronta l'exit strategy: «Arrivati a questo punto è impensabile gettare tutto alle ortiche. La candidatura va salvata, per cui siamo disponibili a portare avanti questa sfida insieme. Se Torino si chiama fuori, e ci dispiace, a questo punto restano due realtà, per cui andremo avanti con le Olimpiadi del Lombardo-Veneto». Con un tweet è arrivato subito il sostegno del sindaco Sala: «La proposta merita un rapido approfondimento. La mia posizione è nota, ma questa soluzione può funzionare». «Un'opportunità» anche per il sindaco di Cortina Giampietro Ghedina. Ma Giorgetti fa subito chiarezza: «Zaia e Fontana potranno andare avanti sui Giochi, se vorranno. Quello che è certo è che il governo non se ne farà carico. Lo faranno loro direttamente, anche in termini di oneri». La garanzia del governo dunque non ci sarà, quella garanzia che chiede il Cio alla presentazione delle città. Ma stavolta ci potrebbe essere una deroga se ci saranno finanziatori privati e non solo, pronti a finanziare la doppia candidatura. La Appendino, piuttosto contrariata per l'esclusione dal piano B, ha sottolineato che Torino «senza il sostegno economico del governo non si sarebbe potuta candidare». «Peccato perdere un'occasione così. Se i fondi li trovano loro, e se la spesa è limitata, perché no a Olimpiadi organizzate da Veneto e Lombardia? L'importante è che l'Italia torni ad essere protagonista» ha detto il vicepremier Matteo Salvini. L'alleato Luigi Di Maio non attacca la Lega ma il Coni: «Abbiamo purtroppo pagato l'atteggiamento del Coni che, nel tentativo di non scontentare nessuno, non ha avuto il coraggio di prendere una decisione chiara sin dall'inizio, creando una situazione insostenibile in cui come al solito si sarebbero sprecati soldi dello Stato». Sarina Biraghi
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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