2018-11-27
Di Maio senior pizzicato col dipendente in nero, supercazzola dei renziani
Il capofamiglia del vicepremier beccato dalle «Iene»: un suo muratore senza contratto si infortunò in cantiere. Il Bullo e Maria Elena Boschi pretendono la «riabilitazione» dei loro cari.L'ex premier Matteo Renzi è da ieri il candidato favorito al premio Faccia di bronzo 2018. Il servizio delle Iene sul manovale che ha lavorato in nero nella ditta del padre di Luigi Di Maio ha conquistato le prime pagine di diversi quotidiani, gli stessi che per mesi hanno trascurato le imprese di babbo Renzi. Ma il Rottamatore ha sbaragliato la concorrenza, pubblicando un post su Facebook: «Quando ho visto il servizio delle Iene sulla famiglia Di Maio mi sono imposto di non dire nulla. Di fare il signore, come sempre (sic, ndr). Del resto non m'interessa sapere se il padre di Di Maio abbia dato lavoro in nero, evaso le tasse, condonato gli abusi edilizi», ha iniziato a scrivere con piglio garantista. Poi, complice la notte, non ha controllato l'istinto: «Ma qui, all'una di notte, non riesco a far finta di nulla. Non ce la faccio», ha ammesso, lanciandosi in un'ardita filippica pro domo sua. «Rivedo un uomo onesto (il babbo, ndr) schiacciato dall'aggressione social coordinata da professionisti del linciaggio mediatico» ha digitato e ha chiesto a Di Maio di scusarsi con suo padre. E qui, sinceramente, scappa da ridere.La storia dell'operaio Sasà Pizzo che, secondo il servizio delle Iene, sarebbe stato pagato sottobanco da Di Maio senior dal 2009 al 2010 e che, rimasto ferito in un incidente sul cantiere, sarebbe stato invitato dal suo datore di lavoro in nero a dire il falso in ospedale, per evitare guai all'azienda, è una pagliuzza (pur biasimevole) se confrontata alla trave dei volantinatori e strilloni ingaggiati fuori dalle regole dalle aziende della famiglia Renzi. Un variegato esercito di pachistani, africani più o meno raccomandabili, italiani costretti a rivolgersi all'ispettorato del lavoro. L'elenco delle controversie affrontate dai Renzi è lungo. All'inizio Tiziano ingaggiava in proprio la manovalanza, ma poi ha preferito affidarsi a fornitori, su cui veniva scaricato il rischio d'impresa. Subappaltatori che in diversi casi sono andati a gambe all'aria, lasciando buffi milionari nelle casse dell'Inps: stiamo parlando della Mail service, della Chil post, della Delivery service Italia (per il suo fallimento sono indagati anche Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli), della Direkta srl e di tante altre coop disseminate in giro per l'Italia. L'ultima ditta a rischio crac è la Marmodiv di Firenze, per cui la Procura ha chiesto il fallimento e che in passato ha pagato multe all'Inps. È andata peggio ai lavoratori della Delivery service Italia: nel 2017 raccontarono alla Verità le ingrate condizioni lavorative a cui sottostettero, prima di essere mandati a casa, per distribuire i prodotti dei clienti dei Renzi.Ma andando indietro nel tempo si trovano molti altri esempi di lavoratori sfruttati. Nel 2007 Tiziano distribuiva il quotidiano genovese Secolo XIX con la sua Arturo Srl. Nel marzo di quell'anno, con felice intuito, passò il testimone di amministratore unico a un amico fotografo, Pier Giovanni Spiteri, rignanese come lui. Dopo pochi giorni, il 12 aprile 2007, alle 4:20 del mattino, davanti alla sede genovese dell'azienda dovette intervenire la polizia perché un gruppo di lavoratori aveva improvvisato uno sciopero chiedendo di consegnare meno giornali e avere un aumento di stipendio. «Tra gli scioperanti, tutti stranieri, vi erano alcuni non in regola col permesso di soggiorno», annotarono gli agenti. Per questo Spiteri venne segnalato alla competente autorità giudiziaria per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.Quella notte alla Arturo Srl vennero identificati 11 africani irregolari che in base alle loro testimonianze lavoravano dalla mezzanotte alle 6 del mattino, dal lunedì alla domenica per 28 euro al giorno, usando le proprie macchine e senza aver diritto ad alcun rimborso spese. Il giorno dopo vennero tutti licenziati. Nei mesi successivi uno di loro, Evans Omoigui, ottenne dal tribunale un risarcimento di circa 90.000 euro; soldi che non sono mai stati corrisposti, dice il legale Simona Nicatore (Omoigui è nel frattempo andato via dall'Italia dopo aver minacciato il suicidio). La commessa per la distribuzione del Secolo XIX era in realtà della Chil Srl della famiglia Renzi e, secondo lo schema tradizionale, era stata subappaltata ad altre ditte che gestivano i dipendenti. Nonostante tale schermo, anche la Chil, nel giugno 2013, non sfuggì ai giudici e fu condannata a risarcire 9.000 euro ad altri due ex distributori di giornali. E ancora: il 25 maggio 1998 Panorama scoprì che l'Inps, dopo una serie di accertamenti, multò la Chil per quasi 35 milioni di lire e la Speedy per 955.000 lire per non aver pagato i contributi agli strilloni, costretti a firmare un modulo contratto, nel quale la loro prestazione era definita di «massima autonomia», mentre per il giudice Giovanni Bronzini «la continuità dell'impegno dei circa 500 strilloni emergeva indiscutibilmente». Un commerciante fiorentino, Andrea S., arruolato dai Renzi nel 1996, ha raccontato a Panorama: «Un'amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo. Suggerì di chiamare Matteo (Renzi, ndr). Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto». Il 5 febbraio 1999 la Speedy, «rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi», e la Chil, «nella persona dell'amministratore Laura Bovoli», fecero ricorso. Il 16 ottobre 2000 il Tribunale di Firenze respinse le istanze e i Renzi dovettero pagare anche le spese processuali. La Cassazione il 28 settembre 2004 archiviò definitivamente il ricorso, considerandolo «privo di fondamento».Merita una menzione Maria Elena Boschi, la quale, approfittando del servizio delle Iene, ha sparato a palle incatenate sulla famiglia Di Maio, sostenendo di non avere ancora lasciato la politica solo perché la sua nipotina «possa sapere che la sua è una famiglia di persone perbene». Poco importa che il padre, Pier Luigi Boschi, sia ancora indagato nell'inchiesta su Banca Etruria, di cui è stato consigliere d'amministrazione e vicepresidente: la Procura ha chiesto l'archiviazione per due capi d'accusa, mentre resta in ballo la vicenda delle ricche consulenze distribuite dal cda in periodo di conti dissestati. Inoltre anche Pier Luigi è stato indagato per omesso versamento dei contributi, un'accusa che gli è toccata mentre era presidente di una cooperativa del Valdarno. La Boschi tace sul fatto che Banca d'Italia e Consob abbiano inflitto a suo padre sanzioni amministrative per circa 250.000 euro (anche se quelle della Consob sono in fase di annullamento) e che il commissario liquidatore di Etruria abbia intentato un'azione di responsabilità da più di 400 milioni di euro contro il genitore e altri 36 amministratori. Non va dimenticato che un vecchio socio del suo babbo, un calabrese attenzionato dalla Direzione investigativa antimafia, abbia dichiarato di essere stato fregato da Boschi senior, il quale avrebbe incassato in nero 250.000 euro destinati alla loro società, senza informarlo. Per la Procura di Arezzo, però, quei soldi sottobanco non superavano la soglia del penale e così Boschi senior ha chiuso la pratica pagando una sostanziosa sanzione all'erario. Lo stesso imprenditore crotonese ha anche dichiarato alla Verità di aver consegnato al genitore di Maria Elena, su richiesta dello stesso, altri 200.000 euro in contanti per far ritirare un architetto da una trattativa di acquisto di un immobile di proprietà dell'università di Firenze. Un'accusa pesante per cui Boschi senior non ci risulta abbia presentato denuncia contro l'ex socio.