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2019-08-09
Di Maio incassa l’ultimo schiaffo. Poi i grillini passano agli insulti
Ansa
Di Maio in peggio. Il governo gialloblù è arrivato al capolinea e il suo vicepremier stellato pare veramente in disarmo. È lui infatti il più colpito dalla grandinata di colpi sparata dal suo alleato di governo, la Lega di Matteo Salvini, anche perché per tutto il giorno ha effettivamente cercato di accontentare l'ormai ex alleato difendendo le prospettive del governo ma anche il suo presente e il suo futuro personale.
Invece il dato di ieri sera è che l'esecutivo non c'è più: gli ultimatum lanciati da Salvini e culminati nello scontro con il M5s sulla Tav, la linea ad alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione, hanno raggiunto l'obiettivo finale. Quello scontro, mercoledì, aveva dato da subito l'impressione che i due partiti fossero arrivati alla collisione finale: e infatti nella stessa sera di mercoledì Salvini aveva posto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, una secca alternativa. La Lega avrebbe abbandonato il governo se non fossero arrivate le dimissioni di tre ministri grillini: quello dei Trasporti, Danilo Toninelli (che aveva definito il leader della Lega «un nano sulle spalle di giganti che lavorano»), quello della Difesa, Elisabetta Trenta, e quello dell'Ambiente, Sergio Costa.
Ieri siamo arrivati al redde rationem. Nel pomeriggio il nervosismo è tale che, dopo un incontro tra Conte e Sergio Mattarella, immediatamente gira voce che Salvini abbia chiesto le dimissioni dello stesso Conte, mentre altre spargono la voce di un imminente ritiro dei leghisti dal governo.
Via Bellerio però smentisce al volo: «Noi parliamo solo attraverso note ufficiali». Poi una nota (per l'appunto) ufficiale spiega il busillis, ma solo per metà. Vi si legge che «la Lega non vuole alcun rimpasto», ma le visioni dell'alleato sono troppo differenti «su temi fondamentali per il Paese come grandi opere, infrastrutture e sviluppo economico, choc fiscale, applicazione delle autonomie, energia, riforma della giustizia e rapporto con l'Europa».
Poi, l'affondo: «L'Italia ha bisogno di certezze e di scelte coraggiose e condivise, inutile andare avanti fra No, rinvii, blocchi e litigi quotidiani. Ogni giorno che passa è un giorno perso, per noi l'unica alternativa a questo governo è ridare la parola agli italiani con nuove elezioni».
Il documento contiene un aggettivo: «irrimediabile», che è una sentenza. Il M5s risponde con una dichiarazione dal tono smarrito: «La nota della Lega è incomprensibile. Dicano chiaramente cosa vogliono fare. Siano chiari». Toninelli dichiara: «Non andare avanti è tradire il mandato».
In serata, dopo un'ora di colloquio con Conte, Salvini chiude il cerchio. È finita: «Andiamo subito in Parlamento», dice il capo della Lega, «per prendere atto che non c'è più una maggioranza, come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori». Insomma, la Lega pretende le elezioni: e vuole andare al voto passando da un confronto in Parlamento. A questo punto il prima possibile, verosimilmente in ottobre, e già si parla del 13 di quel mese.
E Di Maio? Ora tenta la carta del «grande obiettivo» del taglio dei parlamentari. Su Facebook, il vicepremier ha scritto che «il dibattito sulle poltrone inizia a stancarmi». Ha ricordato che il 9 settembre è previsto il voto alla Camera per arrivare a un Parlamento con 345 poltrone in meno (230 deputati e 115 senatori). Per dire ai leghisti e ai suoi: prima tagliamo i seggi, poi tutti alle urne. Ma questo significa, come spiegato ieri dalla Verità, allungare i tempi fino a metà 2020. Di Maio inizia così la sua campagna elettorale: la casta non ha voluto dimagrirsi, Lega in testa. Ma il leader grillino ha un altro problema: negli ultimi due mesi, dopo il crollo alle europee, i toni sempre più duri di Salvini hanno reso Di Maio sempre più fragile. Anche gli equilibri nel M5s, negli ultimi due mesi, si sono modificati, e anche in casa ormai tutto gioca contro di lui: per cercare un'alternativa alla fallimentare strategia dell'ala «governativa» del M5s, l'ala «movimentista» che non ha mai simpatizzato con il suo leader, e cioè la parte più «di sinistra» incarnata dal presidente della Camera Roberto Fico e dal leader-alternativo-in-pectore Alessandro Di Battista, negli ultimi tempi è andata in cerca di una saldatura con parti centrali del partito.
Il primo scricchiolio era arrivato il 6 agosto con le dimissioni di Massimo Bugani, uno dei capi della segreteria di Di Maio a Palazzo Chigi e (soprattutto) socio di Davide Casaleggio nella Casaleggio & associati, la casa-madre del M5s: l'improvviso addio è stato letto come un nuovo avvertimento per il vicepremier. Ma non è bastato a far cambiare la strategia.
Ora, con la crisi alle porte, Di Maio può soltanto lanciare invettive contro il suo ex gemello Salvini, forse temendo per il suo futuro: «Noi siamo pronti», dice in serata il ministro grillino, «perché della poltrona non ci interessa e non ci è mai interessato nulla. Ma una coda è certa: quando prendi in giro il Paese, i cittadini, prima o poi ti torna contro. Prima o poi ne paghi le conseguenze». Di Battista ha bisogno invece di cercare visibilità, magari per proporsi come nuovo capo. Forse è per questo se in serata, spara una dichiarazione forte contro il leader leghista, un attacco che scende sul personale: «Salvini», dice il Dibba, «manda tutto all'aria per pagare cambiali a parlamentari terrorizzati dal taglio delle poltrone o agli amici del “suocero" Denis Verdini che se la fanno sotto per la riforma della prescrizione che entrerebbe a breve in vigore». Parole da voto, Mattarella permettendo: in caso di incarichi di emergenza nazionale, che farà il M5s? E chi deciderà?
Ma tra Matteo e le urne c’è Mattarella pronto a tutto
Nel giorno del suo cinquantacinquesimo compleanno, Giuseppe Conte pensava di cavarsela con una passeggiatina al Colle, un colloquio di 40 minuti (dalle 12.55 alle 13.35) con Sergio Mattarella (che in giornata ha poi incontrato il presidente della Camera e sentito la presidente del Senato), e una scarna nota ipertranquillizzante fatta filtrare alla fine, nell'illusione di spegnere subito l'incendio. Era di buon umore, l'avvocato del popolo: il colloquio di mercoledì all'ora di cena con Matteo Salvini gli era parso positivo, e il successivo comizio a Sabaudia del leader leghista gli era sembrato meno fiammeggiante di quanto temesse. Morale: l'altra sera Conte aveva fatto sconvocare una conferenza stampa che si sarebbe dovuta tenere ieri. E così, nella convinzione di poter agevolmente sedare il fuoco, il premier era salito al Quirinale. Subito dopo, la macchina dello spin di Conte pensava di poter servire altra camomilla, facendo sapere che il presidente del Consiglio si era limitato a «un'informativa» al Capo dello Stato. E le fonti vicine a Conte, incautamente, aggiungevano: «Nessuna ipotesi di dimissioni». Il tentativo di minimizzazione proseguiva raccontando di un mero esame della situazione svolto al Quirinale, senza l'approfondimento di scenari di crisi. È forse questo che ha ulteriormente irritato la Lega, portandola alla durissima nota che - per la prima volta - evoca esplicitamente il voto, bissata - dopo poche ore - da un'altra a firma Matteo Salvini che il voto lo reclama esplicitamente.
Sta di fatto che, nel pomeriggio, Salvini e Conte si sono visti per 90 lunghissimi minuti a Palazzo Chigi, senza Di Maio, che pure era nel suo ufficio.
La sensazione è che, fino a ieri, in diversi palazzi romani si fosse sottovalutata la determinazione di Salvini. Alla Verità risulta un fatto: molti erano convinti che Salvini avesse definitivamente accettato l'idea di un semplice rimpasto, e soprattutto di non voler mettere in discussione la scadenza del 9 settembre, con la definitiva approvazione in Parlamento del taglio di deputati e senatori. Una riforma popolarissima, certo. Ma pure un cavallo di Troia per impedire il voto per un semestre, e forse anche più a lungo: e non solo per il tempo consentito (3 mesi) agli eventuali contrari per convocare un referendum, ma soprattutto perché, siccome il taglio dei parlamentari innescherebbe un inevitabile effetto ultramaggioritario, diverse forze parlamentari sarebbero pronte - pur di allungare il brodo - a riaprire adesso la questione della legge elettorale, per mettere sabbia nelle ruote della Lega. Ma Salvini tutto questo l'ha capito: ed ecco perché la sua accelerazione ha fatto ribaltare il banco.
Certo, con la parlamentarizzazione della crisi (se verrà innescata dal voto di fiducia/sfiducia invocato da Salvini) sarà il Quirinale a prendere in mano, come norma impone, le operazioni. E qui si concentrano tutti i timori della Lega, che vede l'attivismo del Colle come unico, concreto ostacolo, per il voto anticipato già a ottobre. La possibilità di affidare un incarico esplorativo a una personalità tecnica, infatti, è eufemisticamente nelle corde di Mattarella. Ricordiamo tutti il traccheggiamento infinito attorno alla figura di Cottarelli. Ma ancora prima dell'affidamento di un mandato esplorativo a un tecnico, o di un reincarico allo stesso Conte perché cerchi una maggioranza alternativa (M5s-Pd-pezzi di Fi) in Parlamento, in via Bellerio temono che il rallentamento delle operazioni. Magari con la scusa delle Camere ormai chiuse per ferie. Magari con il ritardo nella presentazione delle mozioni di sfiducia, necessarie per innescare la crisi de facto.
E dire che stavolta il Colle non avrebbe a disposizione l'alibi «stagionale»: si dice che in autunno di solito non si vota. Ma in Austria si voterà il 26 settembre, e pure in Spagna (se non si formerà un governo entro il 23 settembre) le urne si riapriranno in autunno. Ergo, non c'è motivo per dire che in Italia non si possa fare altrettanto. Quindi, dopo una rapidissima esplorazione, condotta direttamente o per interposta persona, il capo dello Stato potrebbe anche decidere di sciogliere subito le Camere.
Informalmente, nelle scorse settimane, sia pur non vincolandosi mai in modo chiaro, il Colle aveva fatto giungere a Salvini il messaggio secondo cui non avrebbe compiuto «forzature». Ma il timore del leader leghista è che ciò non avvenga, e che l'esplosione della crisi coincida con l'immersione in una palude.
Immaginiamola una tempistica efficace: scioglimento delle Camere entro pochi giorni; voto tra il 6 e il 20 ottobre (la Lega punta domenica 13 ottobre); nuovo governo e nuovo Parlamento operativi tra la prima e la terza settimana di novembre. Occorre però che, dopo la nascita del nuovo governo, il lavoro parlamentare proceda come un treno. Il termine che non può assolutamente essere mancato è l'approvazione della manovra entro il 31 dicembre. Nulla vieta che il lavoro di impostazione sia portato avanti dai tecnici ministeriali in attesa dell'insediamento di un esecutivo a trazione super leghista. Che, in quel caso, metterebbe il timbro politico sulla finanziaria anche con un maxi emendamento. Un precedente caro ai competenti c'è: Mario Monti fece il Salva Italia in 48 ore.
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Il capo M5s era pronto ad acconsentire a molte richieste del Carroccio, ma è rimasto schiacciato. Adesso lui e Alessandro Di Battista attaccano: «Alleati servi del sistema, fanno vomitare. Prima delle urne tagliamo i parlamentari».Ritardi, consultazioni, incarichi esplorativi, equilibri alternativi: cosa può fare il Colle per impedire di far parlare gli elettori.Lo speciale contiene due articoli.Di Maio in peggio. Il governo gialloblù è arrivato al capolinea e il suo vicepremier stellato pare veramente in disarmo. È lui infatti il più colpito dalla grandinata di colpi sparata dal suo alleato di governo, la Lega di Matteo Salvini, anche perché per tutto il giorno ha effettivamente cercato di accontentare l'ormai ex alleato difendendo le prospettive del governo ma anche il suo presente e il suo futuro personale.Invece il dato di ieri sera è che l'esecutivo non c'è più: gli ultimatum lanciati da Salvini e culminati nello scontro con il M5s sulla Tav, la linea ad alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione, hanno raggiunto l'obiettivo finale. Quello scontro, mercoledì, aveva dato da subito l'impressione che i due partiti fossero arrivati alla collisione finale: e infatti nella stessa sera di mercoledì Salvini aveva posto al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, una secca alternativa. La Lega avrebbe abbandonato il governo se non fossero arrivate le dimissioni di tre ministri grillini: quello dei Trasporti, Danilo Toninelli (che aveva definito il leader della Lega «un nano sulle spalle di giganti che lavorano»), quello della Difesa, Elisabetta Trenta, e quello dell'Ambiente, Sergio Costa. Ieri siamo arrivati al redde rationem. Nel pomeriggio il nervosismo è tale che, dopo un incontro tra Conte e Sergio Mattarella, immediatamente gira voce che Salvini abbia chiesto le dimissioni dello stesso Conte, mentre altre spargono la voce di un imminente ritiro dei leghisti dal governo. Via Bellerio però smentisce al volo: «Noi parliamo solo attraverso note ufficiali». Poi una nota (per l'appunto) ufficiale spiega il busillis, ma solo per metà. Vi si legge che «la Lega non vuole alcun rimpasto», ma le visioni dell'alleato sono troppo differenti «su temi fondamentali per il Paese come grandi opere, infrastrutture e sviluppo economico, choc fiscale, applicazione delle autonomie, energia, riforma della giustizia e rapporto con l'Europa». Poi, l'affondo: «L'Italia ha bisogno di certezze e di scelte coraggiose e condivise, inutile andare avanti fra No, rinvii, blocchi e litigi quotidiani. Ogni giorno che passa è un giorno perso, per noi l'unica alternativa a questo governo è ridare la parola agli italiani con nuove elezioni». Il documento contiene un aggettivo: «irrimediabile», che è una sentenza. Il M5s risponde con una dichiarazione dal tono smarrito: «La nota della Lega è incomprensibile. Dicano chiaramente cosa vogliono fare. Siano chiari». Toninelli dichiara: «Non andare avanti è tradire il mandato».In serata, dopo un'ora di colloquio con Conte, Salvini chiude il cerchio. È finita: «Andiamo subito in Parlamento», dice il capo della Lega, «per prendere atto che non c'è più una maggioranza, come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori». Insomma, la Lega pretende le elezioni: e vuole andare al voto passando da un confronto in Parlamento. A questo punto il prima possibile, verosimilmente in ottobre, e già si parla del 13 di quel mese.E Di Maio? Ora tenta la carta del «grande obiettivo» del taglio dei parlamentari. Su Facebook, il vicepremier ha scritto che «il dibattito sulle poltrone inizia a stancarmi». Ha ricordato che il 9 settembre è previsto il voto alla Camera per arrivare a un Parlamento con 345 poltrone in meno (230 deputati e 115 senatori). Per dire ai leghisti e ai suoi: prima tagliamo i seggi, poi tutti alle urne. Ma questo significa, come spiegato ieri dalla Verità, allungare i tempi fino a metà 2020. Di Maio inizia così la sua campagna elettorale: la casta non ha voluto dimagrirsi, Lega in testa. Ma il leader grillino ha un altro problema: negli ultimi due mesi, dopo il crollo alle europee, i toni sempre più duri di Salvini hanno reso Di Maio sempre più fragile. Anche gli equilibri nel M5s, negli ultimi due mesi, si sono modificati, e anche in casa ormai tutto gioca contro di lui: per cercare un'alternativa alla fallimentare strategia dell'ala «governativa» del M5s, l'ala «movimentista» che non ha mai simpatizzato con il suo leader, e cioè la parte più «di sinistra» incarnata dal presidente della Camera Roberto Fico e dal leader-alternativo-in-pectore Alessandro Di Battista, negli ultimi tempi è andata in cerca di una saldatura con parti centrali del partito. Il primo scricchiolio era arrivato il 6 agosto con le dimissioni di Massimo Bugani, uno dei capi della segreteria di Di Maio a Palazzo Chigi e (soprattutto) socio di Davide Casaleggio nella Casaleggio & associati, la casa-madre del M5s: l'improvviso addio è stato letto come un nuovo avvertimento per il vicepremier. Ma non è bastato a far cambiare la strategia.Ora, con la crisi alle porte, Di Maio può soltanto lanciare invettive contro il suo ex gemello Salvini, forse temendo per il suo futuro: «Noi siamo pronti», dice in serata il ministro grillino, «perché della poltrona non ci interessa e non ci è mai interessato nulla. Ma una coda è certa: quando prendi in giro il Paese, i cittadini, prima o poi ti torna contro. Prima o poi ne paghi le conseguenze». Di Battista ha bisogno invece di cercare visibilità, magari per proporsi come nuovo capo. Forse è per questo se in serata, spara una dichiarazione forte contro il leader leghista, un attacco che scende sul personale: «Salvini», dice il Dibba, «manda tutto all'aria per pagare cambiali a parlamentari terrorizzati dal taglio delle poltrone o agli amici del “suocero" Denis Verdini che se la fanno sotto per la riforma della prescrizione che entrerebbe a breve in vigore». Parole da voto, Mattarella permettendo: in caso di incarichi di emergenza nazionale, che farà il M5s? E chi deciderà?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-incassa-lultimo-schiaffo-poi-i-grillini-passano-agli-insulti-2639734768.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-tra-matteo-e-le-urne-ce-mattarella-pronto-a-tutto" data-post-id="2639734768" data-published-at="1765393922" data-use-pagination="False"> Ma tra Matteo e le urne c’è Mattarella pronto a tutto Nel giorno del suo cinquantacinquesimo compleanno, Giuseppe Conte pensava di cavarsela con una passeggiatina al Colle, un colloquio di 40 minuti (dalle 12.55 alle 13.35) con Sergio Mattarella (che in giornata ha poi incontrato il presidente della Camera e sentito la presidente del Senato), e una scarna nota ipertranquillizzante fatta filtrare alla fine, nell'illusione di spegnere subito l'incendio. Era di buon umore, l'avvocato del popolo: il colloquio di mercoledì all'ora di cena con Matteo Salvini gli era parso positivo, e il successivo comizio a Sabaudia del leader leghista gli era sembrato meno fiammeggiante di quanto temesse. Morale: l'altra sera Conte aveva fatto sconvocare una conferenza stampa che si sarebbe dovuta tenere ieri. E così, nella convinzione di poter agevolmente sedare il fuoco, il premier era salito al Quirinale. Subito dopo, la macchina dello spin di Conte pensava di poter servire altra camomilla, facendo sapere che il presidente del Consiglio si era limitato a «un'informativa» al Capo dello Stato. E le fonti vicine a Conte, incautamente, aggiungevano: «Nessuna ipotesi di dimissioni». Il tentativo di minimizzazione proseguiva raccontando di un mero esame della situazione svolto al Quirinale, senza l'approfondimento di scenari di crisi. È forse questo che ha ulteriormente irritato la Lega, portandola alla durissima nota che - per la prima volta - evoca esplicitamente il voto, bissata - dopo poche ore - da un'altra a firma Matteo Salvini che il voto lo reclama esplicitamente. Sta di fatto che, nel pomeriggio, Salvini e Conte si sono visti per 90 lunghissimi minuti a Palazzo Chigi, senza Di Maio, che pure era nel suo ufficio. La sensazione è che, fino a ieri, in diversi palazzi romani si fosse sottovalutata la determinazione di Salvini. Alla Verità risulta un fatto: molti erano convinti che Salvini avesse definitivamente accettato l'idea di un semplice rimpasto, e soprattutto di non voler mettere in discussione la scadenza del 9 settembre, con la definitiva approvazione in Parlamento del taglio di deputati e senatori. Una riforma popolarissima, certo. Ma pure un cavallo di Troia per impedire il voto per un semestre, e forse anche più a lungo: e non solo per il tempo consentito (3 mesi) agli eventuali contrari per convocare un referendum, ma soprattutto perché, siccome il taglio dei parlamentari innescherebbe un inevitabile effetto ultramaggioritario, diverse forze parlamentari sarebbero pronte - pur di allungare il brodo - a riaprire adesso la questione della legge elettorale, per mettere sabbia nelle ruote della Lega. Ma Salvini tutto questo l'ha capito: ed ecco perché la sua accelerazione ha fatto ribaltare il banco. Certo, con la parlamentarizzazione della crisi (se verrà innescata dal voto di fiducia/sfiducia invocato da Salvini) sarà il Quirinale a prendere in mano, come norma impone, le operazioni. E qui si concentrano tutti i timori della Lega, che vede l'attivismo del Colle come unico, concreto ostacolo, per il voto anticipato già a ottobre. La possibilità di affidare un incarico esplorativo a una personalità tecnica, infatti, è eufemisticamente nelle corde di Mattarella. Ricordiamo tutti il traccheggiamento infinito attorno alla figura di Cottarelli. Ma ancora prima dell'affidamento di un mandato esplorativo a un tecnico, o di un reincarico allo stesso Conte perché cerchi una maggioranza alternativa (M5s-Pd-pezzi di Fi) in Parlamento, in via Bellerio temono che il rallentamento delle operazioni. Magari con la scusa delle Camere ormai chiuse per ferie. Magari con il ritardo nella presentazione delle mozioni di sfiducia, necessarie per innescare la crisi de facto. E dire che stavolta il Colle non avrebbe a disposizione l'alibi «stagionale»: si dice che in autunno di solito non si vota. Ma in Austria si voterà il 26 settembre, e pure in Spagna (se non si formerà un governo entro il 23 settembre) le urne si riapriranno in autunno. Ergo, non c'è motivo per dire che in Italia non si possa fare altrettanto. Quindi, dopo una rapidissima esplorazione, condotta direttamente o per interposta persona, il capo dello Stato potrebbe anche decidere di sciogliere subito le Camere. Informalmente, nelle scorse settimane, sia pur non vincolandosi mai in modo chiaro, il Colle aveva fatto giungere a Salvini il messaggio secondo cui non avrebbe compiuto «forzature». Ma il timore del leader leghista è che ciò non avvenga, e che l'esplosione della crisi coincida con l'immersione in una palude. Immaginiamola una tempistica efficace: scioglimento delle Camere entro pochi giorni; voto tra il 6 e il 20 ottobre (la Lega punta domenica 13 ottobre); nuovo governo e nuovo Parlamento operativi tra la prima e la terza settimana di novembre. Occorre però che, dopo la nascita del nuovo governo, il lavoro parlamentare proceda come un treno. Il termine che non può assolutamente essere mancato è l'approvazione della manovra entro il 31 dicembre. Nulla vieta che il lavoro di impostazione sia portato avanti dai tecnici ministeriali in attesa dell'insediamento di un esecutivo a trazione super leghista. Che, in quel caso, metterebbe il timbro politico sulla finanziaria anche con un maxi emendamento. Un precedente caro ai competenti c'è: Mario Monti fece il Salva Italia in 48 ore.
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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