2021-09-08
I dazi europei prima bloccano i porti, ora mettono a rischio pure l’export
Nuovo allarme degli esperti del settore sulla carenza di acciaio: «Senza i materiali necessari si fermano il commercio con l'estero e il rilancio». Pesa pure il costo del nolo dei container, sbilanciato a favore di Pechino.«Lo dico con grande franchezza: di tutto mi sarei aspettato, tranne che da una carenza di offerta di acciaio, per quanto forte fosse, si potesse sviluppare una congestione dei porti tanto estrema quale quella a cui stiamo assistendo. La situazione è talmente grave da rischiare di bloccare il commercio con l'estero nei mesi a venire». Massimo è il manager di uno dei principali centri di servizio in Italia. Stretto tra l'incudine della carenza di offerta siderurgica e il martello delle pressanti richieste da parte dei clienti, ha quello che viene definito il «polso» dell'economia del Paese. Che, tastato con attenzione, non risulta essere perfettamente coerente con la fotografia scattata dal governo che, stando alle recenti dichiarazioni a Cernobbio del ministro dell'Economia, Daniele Franco, stima una crescita superiore il +5,8% per fine anno. Grattando sotto la superficie, infatti, emerge un quadro molto più complesso che parte dalla condizione di grave carenza che si registra nel settore siderurgico. Una tensione sul lato dell'offerta, quella a cui si sta assistendo nel mercato italiano, figlia da un lato dell'esplosione dei consumi derivante dagli stimoli fiscali e dall'altro della tensione nel mercato dei noli marittimi che paga la strategia Covid zero adottata dalla Cina, pronta a bloccare le attività di interi terminali a fronte di pochi casi. L'asimmetria alimentata da Pechino è ben visibile dall'andamento dei noli per container che; se per la tratta Cina-Europa hanno ieri superato i 14.000 dollari, veleggiano ad appena 1.500 dollari per la rotta inversa. C'è però un convitato di pietra rappresentato dalle limitazioni all'import varate dall'Ue a causa delle quali una semplice, benché estrema, carenza di acciaio si sta trasformando in una paralisi dei maggiori porti italiani. Un provvedimento, quello delle cosiddette misure di salvaguardia, che, è bene ricordare, è stato esteso lo scorso giugno per ben tre anni dalla Commissione con il voto a favore dell'Italia attraverso la nostra rappresentanza permanente (che dipende dal ministero degli Esteri). La congestione dei porti è arrivata a un punto tale che sarebbero già oltre mezzo milione le tonnellate di acciaio bloccate nei terminal di Marghera e Ravenna in attesa di essere sdoganate. Che la dinamica sia diretta conseguenza delle limitazioni imposte da Bruxelles lo conferma il fatto che la paralisi riguardi proprio i due porti attraverso cui transita il 70% delle importazioni siderurgiche via mare destinate al mercato italiano con un effetto poi a cascata sugli altri terminal come quelli di Monfalcone, Trieste e Koper, in Slovenia, che però sono solo parzialmente attrezzati per gestire l'eccedenza di import siderurgico. Sulla questione interviene anche Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri e diplomatico di lungo corso: «Per un Paese come il nostro che ha nelle capacità di trasformazione delle materie prime e di creazione di valore aggiunto uno dei punti di forza del proprio sistema economico, è cruciale che tanto il flusso quanto i costi delle commodity presentino margini ragionevoli di prevedibilità», spiega alla Verità, «ciò a maggior ragione nel contesto attuale già carico di incognite a causa degli effetti della pandemia. È pertanto necessario che, in quanto seconda potenza manifatturiera europea, le esigenze dell'Italia in questo settore trovino adeguato riscontro da parte delle istituzioni comunitarie, tenuto conto anche del rischio che misure restrittive del commercio internazionale possano pregiudicare in questa fase i risultati dei piani di rilancio post Covid adottati dagli Stati membri». Grande preoccupazione è anche espressa da Riccardo Benso, presidente di Assofermet: «Noi come associazione avevamo fatto di tutto per avvisare il sistema sui rischi che l'imposizione delle quote all'import avrebbe creato. Temiamo che la situazione non possa risolversi in tempi brevi visto che la quantità di acciaio in attesa di essere sdoganata è tale che quando in ottobre le quote trimestrali si riapriranno si esauriranno nel giro di poco tempo, aprendo a nuove e ben più gravi tensioni nei mesi di novembre e dicembre alimentate anche dal calo dell'offerta siderurgica dalla Cina, primo produttore mondiale che oltre a decise riduzioni di produzione sta varando da alcuni mesi politiche volte alla riduzione dell'export. Il rischio inoltre è che la situazione possa sortire effetti negativi sulla crescita del Paese: perché un conto è pagare di più il materiale, un altro non averlo disponibile. E con il governo che nei prossimi mesi sarà impegnato nella messa a terra dei piani del Pnrr, il rischio è quello di porre un freno nel 2022 al volano di crescita che c'è stata quest'anno. In linea di principio infatti le quote imposte da Bruxelles sono troppo limitate rispetto alla reale necessità del sistema industriale che i produttori europei non riescono a soddisfare». Sarebbe però da ingenui pensare che la situazione possa risolversi a breve. La prospettiva ventilata dall'amministrazione americana di riformare il sistema della Section 232, aprendo i canali di import di acciaio con l'Europa proprio per allentare la carenza di materiale che negli Usa ha raggiunto picchi ancora più estremi di quelli europei, rischia di aggravare ulteriormente il quadro. Stante infatti il premio di prezzo di circa 700 euro la tonnellata su cui poggia il laminato a caldo statunitense rispetto a quello europeo, la manovra indurrà i produttori europei a dirottare il materiale oltreoceano acuendo la carenza nel mercato del Vecchio continente. Con il rischio finale di dover bloccare le esportazioni.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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