2019-09-17
Davamo accoglienza agli aguzzini di migranti
I tre, accusati da diversi testimoni di essere i carcerieri di un lager libico, erano mescolati ai richiedenti asilo ospitati a Messina. Contestato per la prima volta il reato di tortura. Intanto esplode l'hotspot di Lampedusa: il Viminale trasferisce 70 persone in Sicilia.C'erano anche tre kapò dei lager libici mimetizzati tra i migranti ospiti nel centro di accoglienza di Messina, e richiedenti asilo essi stessi. Arrestati dalla Procura di Palermo per tratta di esseri umani, violenza sessuale, omicidio, associazione a delinquere e tortura. Reato contestato per la prima volta in Italia.Secondo quanto ricostruito dai pm Calogero Ferrara e Gianluca Caputo e dall'aggiunto Marzia Sabella, i complici (Mohamed Condè detto Suarez, 22 anni, nato in Guinea; Hameda Ahmed, 26 anni, e Mahmoud Ashuia, 24 anni, entrambi egiziani) avrebbero fatto parte, insieme ad altra persona ancora da identificare di diversa nazionalità, di una vera e propria banda, capeggiata da tale «Ossama» e dedita alla gestione di un illegale centro di prigionia, collocato in una ex base militare della città libica di Zawiya. Ciascuno nella gang aveva un ruolo preciso. Secondo gli investigatori, Condè avrebbe avuto il compito di imprigionare i migranti, di torturarli e di occuparsi dei riscatti che venivano richiesti ai familiari dei detenuti. Hameda Ahmed sarebbe stato invece il torturatore del gruppo e il cuoco della struttura. Mahmoud Ashuia, infine, avrebbe rivestito il ruolo di carceriere, e anche lui avrebbe torturato e picchiato brutalmente i migranti servendosi di un fucile. Diverse le testimonianze raccolte dagli agenti della Squadra mobile locale nell'ambito del procedimento aperto dalla Procura di Agrigento in seguito allo sbarco di 59 migranti avvenuto a Lampedusa il 5 e 7 luglio 2019 a bordo dell'imbarcazione a vela «Alex & co» dell'Ong Mediterranea. I migranti, salvati in zona Sar libica, si legge nel decreto di fermo, finivano rinchiusi in un'ex base militare a Zawiya, in Libia, dove «venivano innanzitutto privati della loro libertà personale, non essendo possibile per loro allontanarsi ed essendo […] sorvegliati, ininterrottamente, da carcerieri armati». Inoltre erano tenuti in «condizioni disumane, privi dei beni di prima necessità e delle cure mediche necessarie (tant'è che in tanti sono morti per gli stenti o le malattie lì contratte, così come emerge da diverse dichiarazioni), in modo che, da un lato, non rappresentassero un costo per l'associazione, e dall'altro, vivessero in uno stato di grave soggezione nei confronti dei loro carcerieri». L'organizzazione avrebbe commesso «continue e atroci violenze fisiche o sessuali, fino a giungere alla perpetrazione di veri e propri atti di tortura, talora culminata in omicidi, e ciò al fine di costringere i familiari dei migranti a versare all'associazione di denaro quali prezzo per la loro liberazione. Essendo questa la finalità primaria dell'associazione», scrive la Procura nel decreto di fermo, «cioè sequestrare e seviziare allo scopo di ottenere somme di denaro per far cessare lo stato di prigionia e le relative sevizie, l'organizzazione si era dotata di un apposito “telefono di servizio", tramite cui i migranti prigionieri potevano contattare i loro congiunti e così indurli a pagare il riscatto». A scopo persuasivo, le atrocità inflitte alle vittime «venivano spesso documentate tramite l'invio di fotografie». Quanti non riuscivano ad assecondare i desideri dell'asociazione finivano per essere trucidati o, in alternativa, se sfruttabili lavorativamente o sessualmente, venivano venduti ad altri trafficanti di esseri umani. Invece, chi pagava «veniva rimesso in libertà», per potersi imbarcare verso l'Italia, «ma con l'elevato rischio di essere nuovamente catturato dalla medesima associazione e di versare altro denaro ai carcerieri di Zawiya».Un testimone ha raccontato ai poliziotti di aver «assistito personalmente a tanti omicidi avvenuti con la scossa elettrica». «Io sono stato picchiato più volte, anche senza alcun motivo apparente. Venivamo picchiati tramite un tubo di gomma che ci procurava tanto dolore e, alcune volte, anche delle ferite. Personalmente, all'interno di quel carcere, ho avuto modo di vedere che un migrante è deceduto a causa della fame. Era malnutrito e nessuno prestava a lui la necessaria assistenza. Ho visto, anche, tanti altri ammalati che non venivano sottoposti alle cure necessarie. Ho visto che un carceriere, una volta, ha sparato e colpito alle gambe un nigeriano, colpevole di aver preso un pezzo di pane. Ho avuto modo di vedere che, tante volte, nel corso della giornata, le donne venivano prelevate dai carcerieri per essere violentate». «Da questa prigione», ha aggiunto il testimone, «si usciva solamente se si pagava il riscatto». Un altro ha riferito di essere riuscito a uscire dal lager «perché mi hanno venduto, forse per 500 dinari, ad un altro libico. Ho lavorato alle sue dipendenze, come bracciante agricolo».Ma c'è un altro posto dove il lavoro delle Ong nel Mediterraneo non cessa di creare problemi: il sindaco di Lampedusa, Totò Martello, ha attaccato di nuovo il governo per la decisione di collocare nell'hotspot dell'isola gli 82 migranti sbarcati dalla Ocean Viking, facendo lievitare a 224 il numero degli ospiti (capienza massima: 95). «Accoglienti sì, cretini no», ha detto Martello. Così ieri mattina il Viminale ha deciso di far trasferire 70 persone a Porto Empedocle.