2022-03-13
Dalla «Stampa» alla tv fino ai social: le svastiche di Azov ora sono un tabù
Il quotidiano torinese fa sparire un suo vecchio articolo sul battaglione neonazi. Enrico Mentana nega l’impronta hitleriana che gli stessi miliziani rivendicano. E Facebook li rivaluta: via libera agli elogi ai fan delle Ss.Abbiamo sdoganato anche i nazisti dell’Illinois. Fanno comodo alla narrazione, quindi è bene che i Blues Brothers si adeguino e la smettano di ridicolizzarli come biechi putinisti della prima ora. Travolti da un’urgenza revisionista, i media occidentali hanno deciso che la guerra va raccontata come un western degli anni Cinquanta dove non esiste spazio per le sfumature: i russi sono tutti criminali, gli ucraini sono tutti martiri. Compreso il battaglione Azov, vale a dire quel nutrito gruppo di miliziani dalla forte simbologia hitleriana che fino a un mese fa era additato come la vergogna d’Europa. Indiziato per il massacro di Odessa nel 2014, raccontato con imbarazzo dai giornali, bannato da Facebook, era preso ad esempio in tutti gli articoli e nei servizi televisivi (con dovizia di croci uncinate, memorabilia delle Waffen SS e bandiere della Kriegmarine) per spiegare le possibili derive autoritarie della democrazia imperfetta - quando non traballante - del granaio del Continente.Adesso nel racconto consolatorio del giornalista collettivo l’unico matto dev’essere Vladimir Putin. Ce la mette tutta da solo ma è bene aiutarlo; un colpo di bianchetto e si riparte da zero. Battaglione Azov? Chierichetti. In Italia l’operazione riesce meglio che altrove. Due anni di allenamenti nel raccontare a senso unico la pandemia, gli effetti vaccinali e il green pass ci hanno dato un innegabile vantaggio competitivo. Sorretto dal contesto favorevole, durante uno speciale bellico Enrico Mentana mette il punto esclamativo su ciò che molti altri giornali fanno trapelare: «Il battaglione Azov non è neonazista ma è una parte delle forze armate dell’Ucraina». Stupore assoluto, e le croci uncinate? E la trappola per lupi nello stemma che risale al Terzo Reich? E la puntuale celebrazione di Stepan Bandera, ultranazionalista ucraino alleato di Adolf Hitler? L’affermazione negazionista scatena l’indignazione social (con l’aggravante che Mentana è ebreo) ma la narrazione non si sposta di un millimetro, come se fosse funzionale alla costruzione di un nuovo orizzonte informativo che non deve tenere conto della realtà e della storia. I social di Mark Zuckerberg fanno il resto: su Facebook e Instagram il battaglione nero improvvisamente rientra fra i giusti. Combatte con i nostri, vietato criticarlo; ora viene espulso chi ne parla male. Tutto ciò è un esempio di paternalismo ipersemplificato per abbeverare un telespettatore (o un lettore) sprovveduto, immerso in un eterno presente e incline a credere che esistano solo due realtà: il bene assoluto e il male assoluto. Basta scendere un centimetro sotto il pelo dell’acqua per scoprire la verità: il battaglione Azov è così orgogliosamente ultranazionalista da aver messo in imbarazzo gli ufficiali canadesi mandati nel giugno 2018 a Mariupol come istruttori. Nessuno di loro voleva farsi fotografare accanto ai miliziani ucraini per non correre il rischio di finire sui social network e di dover spiegare a parenti e amici il contesto, fra croci runiche e svastiche tatuate. Tranne Mentana, lo sapevano tutti. Una realtà molto ben descritta da un reportage della Stampa, che nel 2014 ha definito il perimetro dell’ultradestra ucraina in un servizio di Maria Grazia Bruzzone, dal titolo: «I neo-nazi imperversano in Ucraina ma il nazismo non è più il male assoluto (per l’Occidente)». L’occasione per l’approfondito affresco (con interviste, link, rapporti Onu) era stata l’approvazione alle Nazioni Unite di una mozione presentata dalla Russia per condannare tentativi di glorificazione dell’ideologia nazista nel Paese vicino, passata con 115 voti favorevoli, 55 astenuti e 3 contrari: Usa, Canada e Ucraina medesima. Quell’articolo raccontava con esemplare terzietà una svolta ideologica sicuramente marginale ma reale. È stato in archivio per otto anni senza dare fastidio a nessuno, adesso non c’è più. Scomparso, volatilizzato, come se improvvisamente non ci fosse spazio per alcuna sfumatura. Solo certezze a senso unico. Noi abbiamo il Gronchi Rosa per averlo scaricato in tempi non sospetti. Negare un’evidenza, rimuovere un articolo dagli archivi, significa ubbidire istintivamente (come per un tic) a due urgenze che poco hanno a che vedere con l’informazione: la rappresentazione di una verità unica, governativa, da coro a bocca chiusa e la semplificazione delle complessità, l’abolizione di quel pensiero plurale che sempre dovrebbe essere un valore in regimi democratici. Un gesto, questo sì, putiniano. Teso non a informare i cittadini ma a irreggimentarli. La pandemia ha fatto danni pesanti. Chi si è abituato a definire no vax coloro che semplicemente avanzavano perplessità sul green pass; chi ha mandato nel girone dei reprobi i colleghi contrari alla caccia al runner; chi si è appiattito su ogni atto di fede governativo, oggi trova del tutto naturale definire il perimetro della verità unica e difenderlo con ogni mezzo. Non ha niente da ridire se a un’europarlamentare (pur bizzarra come Francesca Donato) viene chiusa d’imperio la pagina Facebook. E gli sembra del tutto naturale rappresentare i nazisti dell’Illinois come martiri della libertà.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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