2018-04-20
Dal reuccio di Madrid ai colpacci Nba: cosa non perdersi alle finali di basket
Italia, Eurolega, Usa: i grandi tornei entrano nella fase calda. L'Armani cerca di salvare almeno lo scudetto, il Real sfida i giganti del Cska con un ragazzino geniale. E Philadelphia, per poter vincere, si è fatta battere.Irrompe la stagione della palla arancione. I palazzetti si riempiono, i trofei sono a bordo campo e il basket diventa protagonista dalle altitudini dei suoi talenti, dalle raffinatezze delle sue strategie, copiate a piene mani da tecnici del pallone come Pep Guardiola e Massimiliano Allegri (ma già Arrigo Sacchi rubacchiò parecchio). L'Eurolega è alla vigilia delle finali, la leggendaria Nba americana ha inaugurato i playoff. E allora vale la pena andare a scoprire dove rotolerà quest'anno il pallone a spicchi nel vecchio continente e oltre l'Atlantico. Le Bron James e James Harden detto «il Barba» non hanno bisogno di riflettori, sono già illuminati a prescindere. Cinque vincenti e un perdente: a noi, interessano gli altri. Per molti addetti ai lavori Luka Doncic è l'equivalente di una cometa, nel senso che un talento come il suo passa nel firmamento una volta ogni 50 anni e la sua stella è destinata a brillare sui palcoscenici più prestigiosi della pallacanestro mondiale. Figlio d'arte (il padre è stato nazionale sloveno) Luka da Lubiana è stato prelevato dal Real Madrid in tenera età da quell'enorme fucina di talenti che è la ex Jugoslavia e ha già vinto due campionati spagnoli, due coppe di Spagna e un Europeo con la Slovenia. Piccolo particolare: Non ha ancora 19 anni, ma ha già vinto più di quanto il 90% dei giocatori di basket sogna di vincere in una carriera intera. Quello che più stupisce del ragazzo è la pallacanestro che fluisce dalle sue mani, insieme al sorriso mentre gioca. Diverte e fa divertire. Il trono d'Europa è l'ultimo a mancargli, l'impresa non sarà facile, vista la presenza di corazzate come Cska Mosca, Fenerbahce, Olympiakos. Ma a Doncic partire da sfavorito non interessa. D'altronde nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla piccola Slovenia vincente negli Europei a settembre 2017. Proverà a chiudere il cerchio con la camiseta blanca di Madrid, prima di salpare per gli Stati Uniti per confrontarsi con i migliori, sulle orme di Drazen Petrovic e Toni Kukoc. Doncic, oltreoceano, ci vuole andare da vincitore.Come ogni anno la favorita alla vittoria finale di Eurolega è il Cska Mosca, l'ex squadra dell'Armata rossa fa ancora paura a tutti, anche se il protezionismo dell'era sovietica è ormai dimenticato. Al comando della truppa c'è un greco, Dimitris Itoudis, e le stelle del plotone sono europee e americane, impensabile prima della caduta del muro di Berlino, ma il basket è sempre andato d'accordo con la globalizzazione più sfrenata. Come ogni anno il collante dell'enorme talento a disposizione dei russi ha un nome e un cognome, Kyle Hines. Veterano statunitense con 7 anni di esperienza in Eurolega, ne ha vinte già tre, sempre in maglia rossa, due con l'Olympiakos e una con il Cska. La sua storia è particolare per un altro motivo, il suo è un successo che deriva soprattutto dal lavoro e dal continuo migliorarsi ogni stagione. Nessuno poteva pensare che Kyle, sbarcato per la prima volta da professionista in Italia nel 2008 a Veroli (Frosinone), seconda serie italiana, sarebbe diventato il giocatore che è oggi. In uno sport «razzista» verso chi è troppo basso, vedere un centro di meno di 2 metri a spazzare i tabelloni in mezzo a montagne incantate di muscoli farebbe quasi ridere. Ma alla fine, a ridere, è sempre Kyle Hines. I palloni decisivi li prende lui, poco importa se è più basso. Dedizione, applicazione, grinta e sudore sono ingredienti fondamentali per vincere. A certi livelli il talento da solo non basta.Sul Sarunas Jasikevicius giocatore si potrebbe scrivere un poema, sia per la lunghezza della sua carriera, sia per l'epicità intrinseca del personaggio. Il solo palmares di «Saras» è infinito, si impiegano cinque minuti buoni per leggerlo tutto, esclusi i riconoscimenti personali e alla carriera. Ci troviamo di fronte a una leggenda, ma non sempre un grande giocatore riesce a reinventarsi in un eccellente allenatore. Jasikevicius, che se si candidasse a capo dello Stato lituano probabilmente vincerebbe, rimane il nume tutelare della stagione in Europa. Di ogni stagione. Dopo quattro Euroleghe vinte, un bronzo olimpico (Sydney 2000) e un campionato europeo (2003) con la Lituania, dal 2015 allena la squadra dove ha mosso i primi passi quando ancora c'era la cortina di ferro, lo Zalgiris Kaunas. E quest'anno, con uno dei budget più bassi della competizione, è riuscito a costruire una squadra giovane e affamata. Gioca una pallacanestro spavalda e senza timori reverenziali. A immagine e somiglianza dell'allenatore, che vuole essere protagonista anche nei playoff, dove incontrerà l'Olympiakos. Dalle parti del Pireo hanno il conto aperto con lui, Saras visse i suoi anni migliori nel Panathinaikos e fu spesso loro giustiziere. Jasikevicius se ne infischia, non potrebbe essere altrimenti per un personaggio che ha intitolato la propria autobiografia To win is not enough. Vincere non è abbastanza.Dopo i protagonisti dell'ultima fase, si passa al protagonista mancato, Simone Pianigiani, allenatore dell'Olimpia Milano. Già a giugno, nel momento del suo sbarco all'ombra della Madonnina, si era intuito dai mal di pancia di molti tifosi che non sarebbe stata una stagione facile fuori dal campo. È ancora troppo ingombrante il ricordo dei cinque campionati italiani vinti con la Montepaschi Siena, spesso umiliando la stessa Milano. Titoli conquistati fra le ombre, viste le vicende giudiziarie della società senese. E Pianigiani viene identificato ancora con quella squadra, con quel «sistema». In campo, per ora, le cose non sono andate meglio. Con un budget tra le prime otto d'Europa, l'Olimpia ha mestamente chiuso il viaggio in Europa non andando oltre il penultimo posto, migliorando comunque l'ultima posizione dell'anno scorso. Il quarto di finale di Coppa Italia di febbraio verrà ricordato come una delle più cocenti sconfitte contro gli odiati rivali di Cantù, con le «scarpette rosse» mai in partita e dominate da un club che molti davano per fallito a metà stagione. Resta il campionato, Milano è in testa. Ma le incognite, soprattutto mentali e ambientali, della solita collezione di figurine sono parecchie. Il budget potrebbe da solo coprire tutte le altre squadre di serie A1 messe insieme e questo alla fine conta. L'opzione «zero tituli» per Giorgio Armani non è contemplata.Mitchell suona il JazzIl problema di Salt Lake City, nello Utah, è che lì ci si annoia. Ma quando giocano gli Utah Jazz, franchigia Nba che è un controsenso già nel nome, (perché il jazz con lo Stato dei mormoni c'entra davvero poco), improvvisamente la città si infiamma. È uno dei luoghi in cui il tifo è più caldo ed è qui che è esplosa la stella di un giocatore dal futuro radioso, Donovan Mitchell. Alla fine dello scorso anno, eliminati al secondo turno dei playoff, i Jazz perdono il loro giocatore chiave, Gordon Hayward, un tuttofare in campo, quasi insostituibile. In tanti si erano già rassegnati a stagioni anonime, ma la società cala l'asso. Grazie al meccanismo del draft (in cui ogni squadra sceglie, a turno, un giocatore giovane che proviene dal campionato universitario), Mitchell, 21 anni, alla prima esperienza vera, finisce nello Utah. Il ragazzo si fa notare subito per due cose: è umile, con il suo primo stipendio regala una macchina alla madre, ed è fortissimo. Copre egregiamente il buco lasciato da Hayward ed è in lizza per vincere il premio di miglior giovane dell'anno. Trascina ai playoff un gruppo che aveva solo bisogno della scintilla di Donovan per esplodere. I Jazz difendono terribilmente bene, come pretende il loro allenatore, Quin Snyder, un maniaco dei particolari e del collettivo. Dall'inizio di febbraio hanno perso solo 6 partite (26 vinte) e si presentano ai playoff come una mina vagante. L'era Mitchell è appena cominciata.Giocare per perdere è un concetto frustrante per chiunque abbia praticato uno sport. Nel 2013, il nuovo general manager dei Philadelphia 76ers, Sam Hinkie, decide dopo anni di stagioni mediocri di cambiare strategia. Siccome il meccanismo del draft prevede che la squadra che ha vinto meno partite l'anno prima possa scegliere per prima tra i migliori giovani americani e del mondo, Hinkie fa passare la ricostruzione di un team storico della Nba come i 76ers esattamente da quella strada. Perdere e perderemo, storpiando la famosa frase. E così accade, perché Philadelphia perde 253 partite (su 328 giocate) in quattro stagioni, arrivando a vincerne la miseria di 10 nella stagione 2015/16. Il metodo è opinabile, ma quest'anno, dopo cinque stagioni di Trust the process («fidatevi di noi», tradotto liberamente), il mantra sdoganato per convincere i tifosi della bontà del progetto, i 76ers hanno chiuso la stagione al terzo posto e saranno ai playoff. Il merito? Di Hinkie. Grazie a lui, a Bryan Colangelo, che gli è succeduto nel ruolo di manager, la franchigia ha scelto due giocatori che già ora sono stelle, Ben Simmons e Joel Embiid, affiancando ai giovani dei veterani di sicuro affidamento. Tra questi c'è anche un po' di Italia. Marco Belinelli, già campione Nba, è sbarcato a Philadelphia a febbraio ed è entrato nei cuori dei tifosi con le sue triple. Fidatevi di lui.
Il valico di Rafah (Getty Images)
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