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2021-07-24
Dal barista poliziotto alle falsificazioni. Il certificato verde aumenterà il caos
Ansa
Dopo il ristoratore interior designer e il barista igienista, arriva il cameriere poliziotto e il maitre esperto di frodi informatiche. Perché si fa presto a dire green pass obbligatorio con i locali degli altri, ma alla fine, nella catena di comando che parte dal governo e passa per le autorità locali, l'onere più grave e delicato - vale a dire quello dei controlli «sul campo» - spetterà ai diretti interessati. I quali, dopo due ondate di chiusure che hanno costretto alla serrata i più deboli economicamente e hanno ridotto sul lastrico chi riusciva con difficoltà a tenersi a galla, dovranno aggiungere ulteriori compiti a quelli strettamente connessi al proprio mestiere, se vorranno continuare a lavorare.
In primis, quello di vigilare sull'osservanza dell'obbligo del green pass e respingere chi si presenterà nel locale senza il lasciapassare, questione che ovviamente presenta una serie di rischi, in termini di ordine pubblico e di salute, oltre che di gravami economici, che da inizio agosto ricadranno sulla categorie di lavoratori interessati dalle nuove norme. Primo problema, il controllo: è impensabile - come hanno già fatto presente tutte le associazioni di categoria - che la verifica del possesso e della regolarità del green pass possa essere svolta contemporaneamente ad altre attività. Ne consegue che esercenti, ristoratori e baristi coinvolti nell'obbligo del green pass dovranno prevedere una risorsa ad hoc, che dovrà essere tolta ad altre mansioni precedentemente svolte o dovrà essere assunta solo per il controllo, con tutto ciò che ne consegue in termini di ulteriori spese.
Un controllo, inoltre, non semplice, che dovrà essere fatto con una pistola scanner ma che, in alcune parti del Continente, ha già mostrato delle falle, se è vero che in Germania alcuni hacker hanno già trovato il modo di clonare il green pass. Poi c'è la questione della verifica dell'identità del possessore del pass, che potrebbe presentarsi con il lasciapassare di un altro, e qui l'affare diventa delicato perché l'identificazione di un cittadino e la limitazione, anche temporanea, della sua libertà di movimento è compito riservato alle forze dell'ordine e ai pubblici ufficiali. Che, stando alla normativa vigente, sono categoria esente dall'obbligo vaccinale e che potrebbero dar luogo al paradosso di un agente non vaccinato che entra in un locale dove l'ingresso è riservato solamente a chi è stata somministrata almeno una dose.
Non è un caso, quindi, che la cronaca di ieri abbia fatto registrare, per tutto il corso della giornata, una serie di reazioni negative e preoccupate all'introduzione dell'obbligo del green pass da parte di tutte le associazioni di categoria, oltre che dei sindacati. «I gestori dei bar e dei ristoranti non sono pubblici ufficiali», ha osservato in una nota la Fipe-Confcommercio, «e come tali non possono assumersi responsabilità che spettano ad altri. È impensabile che, con l'attività frenetica che caratterizza questi locali, titolari e dipendenti possano mettersi a chiedere alle persone di esibire il loro green pass e ancor meno a fare i controlli incrociati con i rispettivi documenti di identità. Così facendo», prosegue, «c'è il rischio di rendere inefficace la norma. Bisogna semplificare, prevedendo un'autocertificazione che sollevi i titolari dei locali da ogni responsabilità. Con questo decreto il governo ha perso un'occasione: poteva ribaltare il paradigma, così come suggerito sia da noi che dalle Regioni, utilizzando il green pass in chiave positiva e non punitiva».
Stesso concetto espresso da Confesercenti, per la quale «il green pass, così come è stato delineato, rischia di essere un provvedimento ingiustamente punitivo per le imprese, che non solo devono sostenere l'onere organizzativo ed economico del controllo, ma anche assumersi responsabilità legali che non competono loro. La collaborazione delle imprese non può diventare un'assunzione eccessiva di responsabilità o un caos organizzativo, anche in considerazione del fatto che il green pass è comunque una forte limitazione dell'attività economica, che andrà certamente indennizzata». Stesso concetto, con toni più duri, da Paolo Bianchini, presidente di Mio Italia (Movimento imprese ospitalità), il quale non accetta che i suoi colleghi diventino «pseudopoliziotti all'ingresso del bar o ristorante» e sfida il premier, Mario Draghi, e il ministro Roberto Speranza: «Venissero loro a chiedere il green pass all'ingresso del mio ristorante!».
Anche dal mondo dei viaggi arrivano critiche, come testimoniano le dichiarazioni di Gianni Rebecchi, presidente di Assoviaggi, facente parte anch'essa di Confesercenti: «Il danno è fatto», ha affermato, «la confusione informativa di questi ultimi giorni sul green pass ha scatenato il caos, creando una profonda incertezza e allarmismo ingiustificato tra i viaggiatori, che ha determinato un crollo delle prenotazioni e numerose cancellazioni, affossando ancora una volta il turismo organizzato che era timidamente ripartito». C'è poi chi, come i gestori delle discoteche che si sono visti negare la riapertura, sta prendendo in considerazione l'ipotesi ricorso al Tar, come asserito dal presidente del Silb dell'Emilia-Romagna. Per loro chiedono a Draghi di tornare sui propri passi i ministri leghisti Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia, mentre alza ulteriormente i toni la leader di Fdi, Giorgia Meloni, che ha parlato su Facebook di «parole di terrore» del premier in conferenza stampa e di green pass come «nuovo mantra».
Le discoteche beffate non mollano e scatenano la guerra dei ricorsi
Le discoteche sono sul piede di guerra. Dopo che il nuovo decreto del governo ha stabilito di lasciare chiuse queste attività, alcuni gestori hanno dato il via a una serie di ricorsi. A renderlo noto è stata ieri l'associazione Giustitalia: «Attraverso più ricorsi ai tribunali amministrativi presentati dagli esercenti, i gestori chiedono l'annullamento del nuovo decreto nella parte in cui impone il mantenimento della chiusura dei locali», ha dichiarato. In particolare, a essere colpite dallo stop sono circa 2.500 attività, per un numero complessivo di 50.000 dipendenti e un fatturato di 5 miliardi di euro (nel 2019). E oggi, alle 17.30, la protesta si sposterà nelle piazze, da Roma ad Aosta, coinvolgendo in contemporanea più di 50 località della Penisola.
D'altronde, al di là del significativo nodo economico, si scorgono alcuni paradossi nella decisione di lasciare chiusi questi esercizi. Innanzitutto, è stato lo stesso premier, Mario Draghi, a dichiarare nella sua ultima conferenza stampa: «Il green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all'aperto, al chiuso, con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose. In questo senso è una misura che, nonostante abbia chiaramente delle difficoltà di applicazione, dà serenità, non che toglie serenità». Se partiamo da questa premessa, è onestamente difficile capire per quale ragione il green pass non debba consentire l'accesso alle discoteche. Tanto più che, a differenza di altre attività, proprio le discoteche dispongono di personale preposto alla sicurezza: personale che avrebbe quindi la possibilità di garantire l'ingresso esclusivamente a chi detiene il green pass.
In secondo luogo, il premier ha annunciato dei ristori per questi esercizi. Ma è altrettanto vero che, in passato, i ristori si siano rivelati poco più che un palliativo per situazioni economiche fortemente compromesse dalla crisi: si spera quindi che non sia così anche stavolta. Un terzo aspetto da considerare è poi che la chiusura delle discoteche rischi di favorire il crearsi di realtà abusive o di occasioni private, in cui i paletti per la sicurezza sanitaria possano essere alla fine facilmente aggirati.
Non è tuttavia soltanto una questione di paradossi tecnici. Il tema sta infatti agitando non poco le stesse forze politiche della maggioranza. Non è infatti soltanto la Lega a non digerire questa misura. Visto che Giorgia Meloni, leader di Fdi, ha parlato di «stato di diritto cancellato». E appena pochi giorni fa, il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani, aveva dichiarato: «Il green pass va utilizzato per consentire l'accesso del pubblico a spettacoli, manifestazioni sportive, matrimoni o comunioni che si svolgano al chiuso. Il green pass è necessario per evitare la chiusura dei locali e per favorire, con le necessarie cautele, la riapertura delle discoteche».
Su una linea simile si è collocato anche Stefano Bonaccini, presidente dem di una Regione, l'Emilia Romagna, particolarmente colpita dallo stop alle discoteche. «L'unica cosa che non condivido è che avrei fatto riaprire le discoteche e i locali da ballo», ha dichiarato ieri, commentando il decreto. «Fate riaprire», ha proseguito, «i locali da ballo, fate riaprire solo a chi dimostra di essere vaccinato togliendo rischi a quello che è il luogo massimo di assembramento. Il mio timore», ha concluso Bonaccini, «è che questo comporti che da un lato alcune attività economiche spariscano definitivamente e si perdano migliaia di posti di lavoro, ma dall'altro anche che proliferino feste private che non controlla nessuno».
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Confesercenti e Fipe-Confcommercio contestano: «I titolari non sono pubblici ufficiali». Assoviaggi: «Cancellazioni record»Giustitalia: «Annulliamo il decreto». Oggi manifestazioni in una cinquantina di cittàLo speciale contiene due articoliDopo il ristoratore interior designer e il barista igienista, arriva il cameriere poliziotto e il maitre esperto di frodi informatiche. Perché si fa presto a dire green pass obbligatorio con i locali degli altri, ma alla fine, nella catena di comando che parte dal governo e passa per le autorità locali, l'onere più grave e delicato - vale a dire quello dei controlli «sul campo» - spetterà ai diretti interessati. I quali, dopo due ondate di chiusure che hanno costretto alla serrata i più deboli economicamente e hanno ridotto sul lastrico chi riusciva con difficoltà a tenersi a galla, dovranno aggiungere ulteriori compiti a quelli strettamente connessi al proprio mestiere, se vorranno continuare a lavorare. In primis, quello di vigilare sull'osservanza dell'obbligo del green pass e respingere chi si presenterà nel locale senza il lasciapassare, questione che ovviamente presenta una serie di rischi, in termini di ordine pubblico e di salute, oltre che di gravami economici, che da inizio agosto ricadranno sulla categorie di lavoratori interessati dalle nuove norme. Primo problema, il controllo: è impensabile - come hanno già fatto presente tutte le associazioni di categoria - che la verifica del possesso e della regolarità del green pass possa essere svolta contemporaneamente ad altre attività. Ne consegue che esercenti, ristoratori e baristi coinvolti nell'obbligo del green pass dovranno prevedere una risorsa ad hoc, che dovrà essere tolta ad altre mansioni precedentemente svolte o dovrà essere assunta solo per il controllo, con tutto ciò che ne consegue in termini di ulteriori spese. Un controllo, inoltre, non semplice, che dovrà essere fatto con una pistola scanner ma che, in alcune parti del Continente, ha già mostrato delle falle, se è vero che in Germania alcuni hacker hanno già trovato il modo di clonare il green pass. Poi c'è la questione della verifica dell'identità del possessore del pass, che potrebbe presentarsi con il lasciapassare di un altro, e qui l'affare diventa delicato perché l'identificazione di un cittadino e la limitazione, anche temporanea, della sua libertà di movimento è compito riservato alle forze dell'ordine e ai pubblici ufficiali. Che, stando alla normativa vigente, sono categoria esente dall'obbligo vaccinale e che potrebbero dar luogo al paradosso di un agente non vaccinato che entra in un locale dove l'ingresso è riservato solamente a chi è stata somministrata almeno una dose. Non è un caso, quindi, che la cronaca di ieri abbia fatto registrare, per tutto il corso della giornata, una serie di reazioni negative e preoccupate all'introduzione dell'obbligo del green pass da parte di tutte le associazioni di categoria, oltre che dei sindacati. «I gestori dei bar e dei ristoranti non sono pubblici ufficiali», ha osservato in una nota la Fipe-Confcommercio, «e come tali non possono assumersi responsabilità che spettano ad altri. È impensabile che, con l'attività frenetica che caratterizza questi locali, titolari e dipendenti possano mettersi a chiedere alle persone di esibire il loro green pass e ancor meno a fare i controlli incrociati con i rispettivi documenti di identità. Così facendo», prosegue, «c'è il rischio di rendere inefficace la norma. Bisogna semplificare, prevedendo un'autocertificazione che sollevi i titolari dei locali da ogni responsabilità. Con questo decreto il governo ha perso un'occasione: poteva ribaltare il paradigma, così come suggerito sia da noi che dalle Regioni, utilizzando il green pass in chiave positiva e non punitiva». Stesso concetto espresso da Confesercenti, per la quale «il green pass, così come è stato delineato, rischia di essere un provvedimento ingiustamente punitivo per le imprese, che non solo devono sostenere l'onere organizzativo ed economico del controllo, ma anche assumersi responsabilità legali che non competono loro. La collaborazione delle imprese non può diventare un'assunzione eccessiva di responsabilità o un caos organizzativo, anche in considerazione del fatto che il green pass è comunque una forte limitazione dell'attività economica, che andrà certamente indennizzata». Stesso concetto, con toni più duri, da Paolo Bianchini, presidente di Mio Italia (Movimento imprese ospitalità), il quale non accetta che i suoi colleghi diventino «pseudopoliziotti all'ingresso del bar o ristorante» e sfida il premier, Mario Draghi, e il ministro Roberto Speranza: «Venissero loro a chiedere il green pass all'ingresso del mio ristorante!». Anche dal mondo dei viaggi arrivano critiche, come testimoniano le dichiarazioni di Gianni Rebecchi, presidente di Assoviaggi, facente parte anch'essa di Confesercenti: «Il danno è fatto», ha affermato, «la confusione informativa di questi ultimi giorni sul green pass ha scatenato il caos, creando una profonda incertezza e allarmismo ingiustificato tra i viaggiatori, che ha determinato un crollo delle prenotazioni e numerose cancellazioni, affossando ancora una volta il turismo organizzato che era timidamente ripartito». C'è poi chi, come i gestori delle discoteche che si sono visti negare la riapertura, sta prendendo in considerazione l'ipotesi ricorso al Tar, come asserito dal presidente del Silb dell'Emilia-Romagna. Per loro chiedono a Draghi di tornare sui propri passi i ministri leghisti Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia, mentre alza ulteriormente i toni la leader di Fdi, Giorgia Meloni, che ha parlato su Facebook di «parole di terrore» del premier in conferenza stampa e di green pass come «nuovo mantra». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dal-barista-poliziotto-alle-falsificazioni-il-certificato-verde-aumentera-il-caos-2653920651.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-discoteche-beffate-non-mollano-e-scatenano-la-guerra-dei-ricorsi" data-post-id="2653920651" data-published-at="1627085947" data-use-pagination="False"> Le discoteche beffate non mollano e scatenano la guerra dei ricorsi Le discoteche sono sul piede di guerra. Dopo che il nuovo decreto del governo ha stabilito di lasciare chiuse queste attività, alcuni gestori hanno dato il via a una serie di ricorsi. A renderlo noto è stata ieri l'associazione Giustitalia: «Attraverso più ricorsi ai tribunali amministrativi presentati dagli esercenti, i gestori chiedono l'annullamento del nuovo decreto nella parte in cui impone il mantenimento della chiusura dei locali», ha dichiarato. In particolare, a essere colpite dallo stop sono circa 2.500 attività, per un numero complessivo di 50.000 dipendenti e un fatturato di 5 miliardi di euro (nel 2019). E oggi, alle 17.30, la protesta si sposterà nelle piazze, da Roma ad Aosta, coinvolgendo in contemporanea più di 50 località della Penisola. D'altronde, al di là del significativo nodo economico, si scorgono alcuni paradossi nella decisione di lasciare chiusi questi esercizi. Innanzitutto, è stato lo stesso premier, Mario Draghi, a dichiarare nella sua ultima conferenza stampa: «Il green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all'aperto, al chiuso, con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose. In questo senso è una misura che, nonostante abbia chiaramente delle difficoltà di applicazione, dà serenità, non che toglie serenità». Se partiamo da questa premessa, è onestamente difficile capire per quale ragione il green pass non debba consentire l'accesso alle discoteche. Tanto più che, a differenza di altre attività, proprio le discoteche dispongono di personale preposto alla sicurezza: personale che avrebbe quindi la possibilità di garantire l'ingresso esclusivamente a chi detiene il green pass. In secondo luogo, il premier ha annunciato dei ristori per questi esercizi. Ma è altrettanto vero che, in passato, i ristori si siano rivelati poco più che un palliativo per situazioni economiche fortemente compromesse dalla crisi: si spera quindi che non sia così anche stavolta. Un terzo aspetto da considerare è poi che la chiusura delle discoteche rischi di favorire il crearsi di realtà abusive o di occasioni private, in cui i paletti per la sicurezza sanitaria possano essere alla fine facilmente aggirati. Non è tuttavia soltanto una questione di paradossi tecnici. Il tema sta infatti agitando non poco le stesse forze politiche della maggioranza. Non è infatti soltanto la Lega a non digerire questa misura. Visto che Giorgia Meloni, leader di Fdi, ha parlato di «stato di diritto cancellato». E appena pochi giorni fa, il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani, aveva dichiarato: «Il green pass va utilizzato per consentire l'accesso del pubblico a spettacoli, manifestazioni sportive, matrimoni o comunioni che si svolgano al chiuso. Il green pass è necessario per evitare la chiusura dei locali e per favorire, con le necessarie cautele, la riapertura delle discoteche». Su una linea simile si è collocato anche Stefano Bonaccini, presidente dem di una Regione, l'Emilia Romagna, particolarmente colpita dallo stop alle discoteche. «L'unica cosa che non condivido è che avrei fatto riaprire le discoteche e i locali da ballo», ha dichiarato ieri, commentando il decreto. «Fate riaprire», ha proseguito, «i locali da ballo, fate riaprire solo a chi dimostra di essere vaccinato togliendo rischi a quello che è il luogo massimo di assembramento. Il mio timore», ha concluso Bonaccini, «è che questo comporti che da un lato alcune attività economiche spariscano definitivamente e si perdano migliaia di posti di lavoro, ma dall'altro anche che proliferino feste private che non controlla nessuno».
D’altronde, quando la Casa Bianca aveva minacciato la prima volta un intervento militare, era stato addirittura il consigliere della Segreteria di Stato vaticana, padre Giulio Albanese, a descrivere alla Stampa l’«equilibrio quasi perfetto tra cristiani e musulmani» in Nigeria, turbato dal tycoon allo scopo di «consolidare consenso in casa». E allora, come funziona davvero tale fulgido esempio di coesistenza tra confessioni diverse?
Un dato dice tutto: i cristiani rischiano 6 volte e mezzo di più dei musulmani di finire uccisi e cinque volte di più di essere rapiti. Lo si evince dai report dell’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa (Orfa). Quelli della Fondazione Porte aperte sono altrettanto sconvolgenti: nel 2025, l’82% degli omicidi e dei rapimenti di fedeli di Gesù nel mondo è risultato concentrato in Nigeria. Nei primi sette mesi dell’anno, hanno perso la vita oltre 7.000 cristiani. È una tendenza ormai consolidata. Tra ottobre 2019 e settembre 2023 - sempre stando alle ricerche Orfa, illustrate anche dal portale Aciafrica - la violenza religiosa, nella nazione affacciata sul Golfo di Guinea, ha provocato la morte di 55.910 persone in 9.970 attentati. I cristiani ammazzati sono stati 16.769, i musulmani 6.235. Di 7.722 vittime civili non si conosceva la religione. Nello stesso periodo, i rapiti cristiani sono stati 21.621. La World watch list, per il 2024, ha contato 3.100 vittime cristiane, oltre a 2.380 sequestrati. La relazione di Aics-Aiuto alla Chiesa che soffre sottolineava che, lo scorso anno, la Nigeria era all’ottavo posto nella ignominiosa classifica del Global terrorism index. «Sebbene anche i musulmani siano vittime delle violenze», precisava il documento, «i cristiani rappresentano il bersaglio di gran lunga prevalente».
Ciò non significa che gli islamici se la spassino, oppure che i jihadisti non approfittino della povertà per attirare miliziani e conseguire obiettivi politici ed economici, tipo il controllo delle risorse naturali. Le sofferenze dei musulmani sono atroci. Per dire: la sera del 21 dicembre, 28 persone, tra cui donne e bambini, sono state catturate nello Stato di Plateau, nel centro del Paese, mentre si recavano a un raduno per la festività maomettana del Mawlid, in cui si onora la nascita del «profeta». Pochi giorni prima, le autorità avevano ottenuto il rilascio di 130 tra studenti e insegnanti di alcune scuole cattoliche.
Un mese fa, intervistato da Agensir, padre Tobias Chikezie Ihejirika, prete somasco nigeriano, di stanza nel Foggiano, era stato chiaro: «I responsabili di questi attacchi sono quasi sempre musulmani». E la classe dirigente, esattamente come lamentato da Trump, non ha profuso grandi sforzi per prevenire i massacri: alcuni criminali, riferiva padre Tobias, sono persino «figure protette all’interno del governo. […] Sarebbe di grande aiuto se le organizzazioni internazionali tracciassero il flusso di denaro destinato alla risoluzione dei conflitti e identificassero coloro che ci speculano su. Questi fondi dovrebbero essere impiegati per risolvere i problemi, non per alimentare la violenza». Solito quadretto dell’ipocrisia occidentale: noi ci laviamo la coscienza spedendo aiuti, il denaro finisce in mani sbagliate e gli innocenti continuano a morire. Bombardare è inutile? Ma anche le strade battute finora si sono rivelate vicoli ciechi.
Stando alle indagini più recenti del Pew research center (2020), il 56,1% della popolazione, specie nel Nord della Nigeria, è islamica, con una nettissima prevalenza di sunniti. I cristiani sono il 43,4%, in maggioranza protestanti (74% del totale dei fedeli, contro il 25% di cattolici e l’1% di altre Chiese, compresa la ortodossa).
L’elenco di omicidi e rapimenti è agghiacciante. E in occasione delle festività, la ferocia aumenta. A Pasqua 2025, in vari attentati, erano stati assassinati 170 cristiani. A giugno, 100 o addirittura 200 sfollati erano stati presi di mira da bande armate; molti di loro erano cristiani. Il Natale più sanguinoso, forse, è stato quello di due anni fa: 200 morti e 500 feriti in una scia di attacchi jihadisti. E poi ci sono i sequestri dei sacerdoti. Gli ultimi, tra novembre e dicembre 2025: padre Emmanuel Ezema, della diocesi di Zaria, nella parte nordoccidentale del Paese; e padre Bobbo Paschal, parroco della chiesa di Santo Stefano, nello Stato di Kaduna, Centro-Nord della Nigeria. Proprio il primo martire della Chiesa è stato invocato ieri dal Papa, affinché «sostenga le comunità che maggiormente soffrono per la loro testimonianza cristiana». Trump? Bene: chi ha idee migliori, che non siano restare a guardare?
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Il ministro degli Esteri della Nigeria Yusuf Maitama Tuggar (Getty Images)
Gli attacchi dell’aviazione statunitense sono stati concordati anche con il governo di Abuja, che ha subito confermato i bombardamenti contro i terroristi. Il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, aveva cercato di minimizzare il problema, dopo le accuse di Donald Trump, ma la situazione sul campo resta critica per la minoranza cristiana che ancora non ha abbandonato gli Stati del nord come ha già fatto la maggioranza. Yusuf Maitama Tuggar è un diplomatico di lunga esperienza e da circa un anno e mezzo guida il ministero degli Esteri della Nigeria, dopo essere stato ambasciatore in Germania.
Ministro Tuggar, il governo nigeriano ha dichiarato di essere al corrente dell’attacco degli Stati Uniti.
«Il presidente Tinubu e tutto il suo gabinetto ministeriale, così come i vertici delle forze armate, erano stati preventivamente informati delle operazioni militari statunitense. Si tratta di attacchi chirurgici che hanno ucciso un numero ancora imprecisato di pericolosi terroristi. La Nigeria vuole collaborare con gli Stati Uniti, che è un grande alleato e che come noi vuole distruggere il terrorismo islamico. Gli Stati di Sokoto e Kebbi, al confine con Niger e Benin, vivono una situazione complicata per le continue infiltrazioni di gruppi islamisti provenienti dalle nazioni vicine. Non escludiamo che in futuro potremmo operare ancora insieme su obiettivi militari molto precisi e sempre nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale. Una cooperazione che comprende scambio di intelligence, coordinamento strategico e altre forme di supporto, tutto sempre nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale».
Gli Stati Uniti accusano lo Stato islamico di voler sterminare i cristiani nigeriani e il vostro governo di non fare abbastanza per difenderli.
«Utilizzare il termine Stato islamico è una semplificazione, perché si tratta di una galassia molto complessa. Nella nostra nazione non c’è una presenza significativa dell’Isis in quell’area. Nel nord-ovest, abbiamo bande criminali, chiamate localmente banditi, e di recente è arrivato un gruppo chiamato Lakurawa. Si tratta di miliziani che hanno iniziato a riversarsi in Nigeria dal Sahel, ma negli ultimi 18 mesi-due anni si sono stabiliti negli Stati di Sokoto e Kebbi. I capi delle tribù locali hanno fatto un errore permettendo a questo gruppo di insediarsi nelle loro province per utilizzarli per difendersi dalla criminalità comune, ma la situazione è degenerata e adesso sono un pericolo per tutti. I Lakurawa sono un gruppo terroristico, ma smentiamo che siano ufficialmente parte della Provincia dello Stato Islamico del Sahel (Issp), l’ex Provincia dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs). Questo gruppo agisce soprattutto nelle zone occidentali vicino al lago Ciad e le nostre forze armate lo stanno costringendo a lasciare il nostro territorio. Voglio smentire ufficialmente che il governo nigeriano faccia poco per difendere i cristiani. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e sono sotto la protezione dello Stato. Questi terroristi uccidono anche musulmani ed animisti, perché sono dei criminali».
Tutta l’Africa centrale e occidentale rischia di essere travolta dal terrorismo islamico e molte nazioni appaiono impotenti.
«La Nigeria ha istituito una serie di corpi speciali per la lotta all’estremismo islamico che agisce sul territorio. La settimana scorsa abbiamo liberato 30 studentesse rapite da una scuola, arrestando gli uomini che le avevano prese. Il governo federale e quello locale stanno anche portando avanti una serie di azioni di reintegro per tutti quelli che abbandonano i gruppi armati. Nel Sahel ci sono province in mano ai terroristi che vogliono occupare anche il nord della Nigeria. Per questo motivo collaboriamo con diversi stati confinanti in operazioni militari congiunte e siamo felici che gli Stati Uniti ci vogliono aiutare, ma sempre nel rispetto delle decisioni del governo di Abuja».
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Laurent Vinatier (Ansa)
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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