2018-05-23
L’idea della Maraini: «I gay servono a rendere il mondo meno affollato»
La celebre scrittrice pubblica un libro manifesto pro eutanasia. E spiega perché favorire l'omosessualità: «Limita le nascite».Intanto, a Milano una coppia di genitori chiama la figlia Blu, la Procura non approva: «Non corrisponde al sesso». Ma cresce la tendenza unisex. Quando, nel 1996, uscì il suo romanzo Un clandestino a bordo, Dacia Maraini scatenò una focosa discussione nel piccolo universo femminista. Sulla rivista mondadoriana Nuovi Argomenti, allora diretta da Enzo Siciliano, pubblicò una lunga lettera autobiografica, in cui raccontò di aver subìto un aborto spontaneo all'età di 24 anni: prima, cioè, della sua relazione con Alberto Moravia. «L'aborto», spiegò la scrittrice, «sembra essere il luogo maledetto dell'impotenza storica femminile. È l'autoconsacrazione di una sconfitta. Una sconfitta storica bruciante e terribile che si esprime in un gesto brutale contro sé stesse e il figlio che si è concepito». In realtà, la Maraini non ha mai contestato la legge 194, di cui proprio in questi giorni ricorre il quarantennale. Anzi, l'ha sempre apprezzata poiché, a suo parere, responsabile di avere eliminato gli aborti clandestini. Tuttavia, le sue riflessioni amare sull'interruzione di gravidanza suscitarono l'approvazione di un parte del mondo cattolico, a partire dai sacerdoti paolini. Dopo tutto, che un'autrice nota per le sue posizioni femministe e di sinistra osasse mettere in discussione il «diritto ad abortire» non era piccola cosa. Da qualche tempo, però, la Dacia sembra aver cambiato nuovamente idea. Nel 2017, commentando le mosse dell'amministrazione Trump negli Stati Uniti, dichiarò preoccupata: «I diritti si possono perdere. Non sono per sempre. Guardate l'America in questo momento, sta discutendo sui diritti della pace, la difesa dell'ambiente, l'aborto. Dopo aver faticato tanto per cambiare le cose arriva uno, votato - ma non è detto che il mondo porti avanti il migliore - e i diritti possono essere revocati. Bisogna difenderli». L'aborto, d'un tratto, era ritornato un diritto da difendere a tutti i costi. Ed è ugualmente un diritto, a parere della scrittrice, quello di morire. Dacia Maraini, infatti, ha appena dato alle stampe un libro-intervista, a cura di Claudio Volpe, che è un manifesto a favore dell'eutanasia (si intitola appunto Il diritto di morire, e lo pubblica Sem). «La libertà di morire con dolcezza, e senza sofferenza, si scontra con i privilegi di chi vorrebbe imporre una legge divina superiore a quella umana», scrive la Maraini, «si scontra con i privilegi di una legge che pretende di guidare l'individuo anche nei suoi più segreti pensieri e volontà». La signora, ovviamente, è liberissima di pensarla come vuole, e non perderemo tempo, ora, a notare alcune profonde contraddizioni del suo pensiero in merito al suicidio assistito. Ci interessa molto di più esaminare ciò che la Maraini scrive a proposito dell'omosessualità. In quanto intellettuale militante, Dacia è favorevolissima alle unioni gay ed è molto critica sulle posizioni della Chiesa. «Mi chiedo, rileggendo il Vangelo, se Cristo sarebbe oggi così indignato contro chi proclama il diritto all'amore», scrisse sul Corriere della Sera nel 2016. «Dopo tutto anche la sua famiglia aveva poco di “naturale": non era nato da una vergine e da un uomo costretto alla castità?». Negli ultimi anni, ha cambiato idea pure sull'utero in affitto. Inizialmente era contraria, e firmò pure un appello di Se non ora quando contro la gestazione per altri. Poi, nel 2016, confessò a Vanity Fair che la sua firma fu «un atto di fiducia verso una organizzazione che conoscevo da anni e di cui mi fido. Non sapevo che anche loro erano divise». Quindi illustrò il suo pensiero sull'utero in affitto: «Se fatto con amore, perché no? Il mondo cambia, nascono nuove realtà, nuove esigenze». Sfogliando il suo nuovo libro, però, sorge il sospetto che la Maraini abbia di nuovo mutato opinione. Soprattutto, però, sconcerta un pochettino leggere ciò che teorizza: «Probabilmente», scrive, «in passato le comunità erano più deboli, la mortalità infantile era una realtà quotidiana, e quindi per la continuazione della specie era necessario che si facessero molti figli. [...] Per questo l'omosessualità era da considerarsi un delitto contro la comunità, un modo di interrompere la catena della procreazione». E adesso tenetevi forti, perché viene il bello. «Ora invece», prosegue la Maraini, «in tempi di sovrappopolazione, in un mondo che sta diventando pericolosamente ed eccessivamente affollato, con miliardi di esseri viventi che stanno già combattendo per la carenza d'acqua, di cibo e di energia, è comprensibile che l'omosessualità venga accettata e magari favorita. Nonostante le grandi teorie sul come vincere la denatalità incalzante, chi ha uno sguardo più ampio sul mondo e sul futuro sa che il mondo, arrivando a quasi dieci miliardi di persone da nutrire e curare, ha bisogno di limitare le nascite».Chiaro, no? Su questo pianeta siamo in troppi, dunque è opportuno che ci siano sempre più omosessuali, così si riuscirà a tenere sotto controllo la popolazione. In pratica, l'essere gay è una sorta di anticoncezionale. Chissà che ne pensano gli attivisti Lgbti... Purtroppo, però, nelle teorie di Dacia c'è una falla: con l'utero in affitto, anche i gay potranno riprodursi, dunque la popolazione mondiale continuerà ad aumentare. È vero che gli eterosessuali occidentali, ormai, di figli non fanno più. Ma è anche vero che nel Sud del mondo la crescita demografica è notevole. Che fare, dunque? La Maraini, con il suo manifesto pro eutanasia, offre una parte della soluzione (spingere un po' di anziani e malati ad autoeliminarsi). Ma forse servono risposte più radicali. Chissà, magari il prossimo libro di Dacia sarà dedicato alla castrazione...Riccardo Torrescura<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dacia-maraini-il-diritto-di-morire-2571085484.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-nuova-moda-nomi-asessuati-per-bambini-neutri" data-post-id="2571085484" data-published-at="1763790633" data-use-pagination="False"> La nuova moda: nomi asessuati per bambini «neutri» In Ricomincio da tre, Massimo Troisi si domandava se chiamare il figlio Massimiliano avesse delle ripercussioni sull'educazione: «La mamma prima di chiamare Mas-si-mi-lia-no, il ragazzo già chissà dove è andato, chissà cosa sta facendo! Non ubbidisce, perché è troppo lungo». Molto meglio Ugo, sosteneva l'attore napoletano: breve, secco, il bambino lo sente subito ed è costretto a obbedire. Anche Blu è un nome breve, ma la coppia milanese che ha scelto di chiamare così la propria bambina non sembra aver seguito gli stessi criteri di praticità indicati da Troisi. Il fatto è che la scelta non rispetta neanche i criteri previsti dalla legge italiana. E infatti i genitori della piccola, che ha un anno e mezzo, sono stati convocati dalla Procura della Repubblica di Milano per rettificare l'atto di nascita. Altrimenti, spiega la coppia, «sarà il giudice a decidere il nome di nostra figlia». Per il nostro ordinamento, infatti, «il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso». E non sembra certo facile, di primo acchito, capire se Blu sia un lui o una lei. «Considerato che si tratta di nome moderno legato al termine inglese Blue, ossia il colore Blu, e che non può ritenersi attribuibile in modo inequivoco a persona di sesso femminile», si legge nella lettera di convocazione in tribunale, «l'atto di nascita deve essere rettificato, anteponendo altro nome onomastico femminile che potrà essere indicato dai genitori nel corso del giudizio». In assenza di un'alternativa, sarà il giudice a decidere il nome della figlia. Se le tempistiche del tribunale lasciano decisamente a desiderare (una bimba di un anno e mezzo ha già preso consapevolezza da molti mesi del proprio nome), la ratio della decisione sembra invece assolutamente condivisibile, anche se, ahinoi, decisamente fuori dallo spirito del tempo. Se già da qualche anno si vanno imponendo in giro per il mondo presunti pronomi «gender neutral» (hen, in svedese, zie, nel Regno Unito, o anche il plurale unisex they usato al posto dei singolari he o she), era solo questione di tempo prima che si arrivasse a rendere neutri pure i nomi di battesimo. Nella solita Svezia sono già stati approvati per legge 170 nomi unisex. La tendenza si sta imponendo spontaneamente anche in America, dove peraltro la cosa è favorita da una certa fluidità della lingua (i ragazzi degli anni Novanta ricorderanno ancora lo stupore provato quando apparve in tv il personaggio femminile del telefilm Beverly Hills 90210 di nome Andrea...). Secondo il sito Quartz, nel 1910 solo il 5% dei bambini americani di nome Charlie era di sesso femminile. Nel 2016, invece, c'erano più Charlie donne che uomini. Secondo il sito names.org (ne parla Francesco Dell'Acqua sul sito del Sole 24 ore) la percentuale di bambini con un nome gender neutral è passata dal 3,1% del 1880 al 15,4% del 2016. L'idea di base soggiacente alla moda dei nomi neutri è sempre la stessa: non condizionare il bambino, in modo che da grande possa decidere da solo cosa diventare, a partire dalla propria stessa identità di genere. Tutto questo come se chiamare una bambina Blu, Giuseppe o Spirito della Brughiera la esentasse dall'effetto degli estrogeni, dall'avere un seno prominente, dal ciclo mensile, dalla capacità di procreare o come se un bimbo chiamato con nomi femminili non subisse l'effetto del testosterone. È la natura a definirci, a farci essere questo e non quest'altro, anche se talvolta l'impazzimento della cultura vorrebbe tentare l'esperimento della tabula rasa. Tanto varrebbe, allora, non dare alcun nome: perché imporre al bambino la «violenza» di un identificativo che egli non ha scelto e che riflette inevitabilmente i gusti e la cultura di riferimento dei genitori? Lasciamo direttamente i bimbi senza nome, saranno poi loro a sceglierlo al momento opportuno. Sarebbe una follia, ma comunque coerente in massimo grado con l'ideologia del momento. Se non deve definire una persona, in un modo che è necessariamente arbitrario e imposto da altri, un nome non serve a niente. Ma queste sono le tesi che escono dai campus americani: un sogno di autofondazione assoluta, in cui l'uomo non è più erede di nulla: di nessuna tradizione, di nessuna cultura. Persino di nessun nome. Adriano Scianca
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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