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2021-05-17
I martiri di cui nessuno parla. Ogni giorno uccisi 13 cristiani
Se si toglie all'uomo la possibilità di cercare la verità fino alla radice, quindi fino a misurarsi con Dio, dell'uomo resta ben poco. A meno che non si scambi per umano uno dei molti surrogati oggi alla moda, tutti prodotti però che offrono poche garanzie anche per una buona convivenza civile. L'uomo che non sente il dovere di porsi le domande ultime resta povero, rattrappito su sé stesso. Per questo la libertà religiosa, rettamente intesa, cioè rivolta alla ricerca del Dio vero e non una marmellata delle religioni, è da ritenersi fonte primaria dei cosiddetti diritti umani. Ostacolare questa libertà significa uccidere, non solo fisicamente. Eppure oggi la persecuzione, e specialmente quella a danno dei cristiani, è un dato di fatto. Una realtà che la pandemia ha addirittura amplificato, perché oltre ad aver aggravato le vulnerabilità sociali, culturali ed economiche, ha legittimato l'incremento di sorveglianza e delle restrizioni di governi totalitari o autoritari.
Nell'ultimo rapporto sulla libertà religiosa nel mondo della fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre, si registra che essa «è violata in quasi un terzo dei Paesi del mondo». Viene individuata una «zona rossa» di 26 Paesi dove le persecuzioni sono considerate «estreme», quasi la metà di questi si trova in Africa dove cresce l'espansione di reti jihadiste transnazionali che si diffondono lungo l'equatore e aspirano a essere «califfati» transcontinentali. In Asia, invece, la persecuzione dei gruppi religiosi è principalmente opera di dittature marxiste, come quelle della Corea del Nord e della Cina; in India il rischio arriva soprattutto da movimenti di nazionalismo etno religioso.
Poi ci sono 36 Paesi in zona «arancione» dove la persecuzione è meno estrema, ma la libertà religiosa di fatto non c'è. In questa fascia sono annoverati Stati del Medio Oriente, dell'Asia meridionale e centrale, nonché le ex Repubbliche sovietiche e le nazioni limitrofe, Paesi che hanno approvato leggi volte a impedire l'espansione di quelle che considerano religioni straniere e a vietare «l'islam non tradizionale». Poi c'è la persecuzione «educata», potremmo dire da zona «gialla», che nei Paesi occidentali si fonda soprattutto sull'ascesa di nuovi «diritti», nuove norme culturali create in base a valori in evoluzione, che consegnano le religioni «all'oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee». La World watch list 2021 di Open doors / Porte aperte ha registrato, nel periodo ottobre 2019-settembre 2020, ben 13 cristiani morti ammazzati nel mondo ogni giorno, a cui quotidianamente si devono aggiungere 12 chiese ed edifici connessi attaccati o chiusi, 11 cristiani arrestati senza processo e 4 rapiti.
La politica risponde a singhiozzo davanti a questa epidemia liberticida e anticristiana. «Dalla creazione di un'Alleanza internazionale per la libertà religiosa alla firma di ordini esecutivi che promuovono la libertà religiosa e la libertà di coscienza, l'amministrazione Trump», ha scritto il Wall Street journal, «ha elevato questi problemi in patria e all'estero come nessun altro. Joe Biden farebbe bene a costruire sull'eredità del suo predecessore». Ma il nuovo presidente, nonostante il recente riconoscimento del «genocidio» armeno, finora sembra orientato ad altre priorità. Anzi i cattolici americani, compresi i vescovi, discutono sulla figura del secondo presidente «cattolico» dopo John Kennedy, proprio per questioni etiche che rimandano all'obiezione di coscienza e quindi alla libertà religiosa.
In Italia recentemente è stata approvata in Commissione esteri alla Camera la risoluzione presentata da Andrea Delmastro Delle Vedove, capogruppo di Fdi, che prevede tra i criteri da valutare per la concessione dei fondi italiani per la cooperazione allo sviluppo anche il rispetto del diritto a professare liberamente la propria fede. Ma anche quando sono validi, questi restano spesso episodi isolati, segno che non si tratta di una vera priorità. La Commissione Ue ha impiegato un anno e mezzo dall'insediamento per nominare l'inviato speciale per la promozione e la protezione della libertà di religione o di credo fuori dell'Ue: il ritardo, per quanto motivato dalla pandemia, mostra lo scarso rilievo politico dato alla materia. Dopo la scadenza del precedente inviato speciale, lo slovacco Ján Figel, la Commissione aveva addirittura smantellato l'ufficio, per poi ripristinarlo nel luglio 2020 dopo le vibranti proteste di diverse associazioni, ma la nomina del nuovo inviato, il cipriota Christos Stylianides, è arrivata solo il 5 maggio scorso. E si spera che gli siano forniti più mezzi rispetto a quelli decisamente scarni assegnati a Figel nei suoi 4 anni di valido servizio.
Il tema della libertà religiosa si può anche declinare come «cristianofobia», come evidenziano i ripetuti atti vandalici nei confronti di chiese (anche roghi, come sappiamo) che avvengono in Francia con periodicità costante. Secondo il ministero dell'Interno, nel 2018 sono stati censiti 1.063 «fatti anticristiani» e nel 2017 erano stati 1.038. Eppure, nulla accade nella vecchia Europa che ha rifiutato le sue radici cristiane, nessun «Christian lives matter», nessuna voce si alza dalle articolesse che contano. Anzi, come disse il professor Henry Jenkins, si conferma che «il nuovo anticattolicesimo rimane l'unico pregiudizio accettabile».
«Un figlio ucciso sotto i miei occhi per obbligarmi ad adorare Allah»
Se l'inferno esiste, non dev'essere molto diverso dall'esperienza toccata a Rebecca Bitrus. Sì, perché questa donna ha sperimentato l'esperienza di un rapimento, con tanto di sfruttamento e abusi sessuali, per mano nientemeno che degli uomini di Boko Haram, l'organizzazione terroristica jihadista diffusa nel nord della Nigeria, nota anche come Gruppo della gente della sunna per la propaganda religiosa e il jihad, dal 2015 alleatasi con lo Stato islamico.
La Bitrus, sequestrata quando aveva solo 28 anni, ha vissuto un calvario lungo due anni. Tutto ebbe inizio il 28 agosto 2014, quando la giovane donna - appartenente alla comunità Dogon Ghukwu Kangarwan Bagi, situata al Nord dello Stato nigeriano del Borno, al confine tra Ciad e Niger - fu testimone dell'arrivo del terroristi. Al momento dell'attacco, aveva provato a fuggire con il marito e i figli, Zacarías e Jonatan. Il marito è però riuscito a scappare, lei no.
«Mi hanno trasformato in una schiava», ricorda la Bitrus ripensando a quel durissimo periodo, «ho lavorato per loro, ho cucinato, ho pulito e lavato i vestiti. Dopo un anno, mi hanno chiesto di diventare musulmana, ma non volevo rinunciare alla mia fede. Credo in Gesù e qualunque cosa mi facciano non cambierò la mia opinione». Inutile dire che, per un simile rifiuto, la donna poteva essere giustiziata da un momento all'altro. In effetti, spazientiti per l'attaccamento alla fede della donna, i terroristi, dopo circa un anno, avevano preso provvedimenti.
Così la Bitrus, a un certo punto, è stata rinchiusa una gabbia sottoterra per tre giorni, senza cibo né acqua. Siccome ancora non mollava, gli uomini di Boko Haram hanno inflitto alla donna il più atroce dolore che può vivere una madre: hanno preso Jonatan, il figlio di poco più di un anno, e lo hanno gettato nel fiume, dov'è annegato quasi immediatamente. Alla fine, la cristiana è riuscita a fuggire. Ha camminato per quasi un mese, mangiando erba. Tuttora il suo corpo porta i segni di quell'incredibile e terrificante esperienza.
A distanza di anni, e nonostante l'immenso dolore vissuto, Rebecca Bitrus ha deciso di condividere la sua esperienza, mettendo in luce come essa sia una prova, più che del male degli uomini, della grandezza del Signore: «Voglio raccontare la mia storia, la fede mi ha aiutato a sopravvivere e voglio dire a tutti che l'unica cosa che ci salva è Dio». Parole che lasciano senza fiato, per la forza e l'attaccamento alla vita di cui sono l'esempio.
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Nel mondo ogni giorno 13 morti, soprattutto nei regimi comunisti e islamici. Donald Trump aveva denunciato le violenze mentre Joe Biden si defila. E l'Europa, disconosciute le proprie radici, adesso tace.L'odissea di Rebecca Bitrus rapita, abusata e ridotta in schiavitù nel Nord della Nigeria dai terroristi di Boko Haram: «Chiusa tre giorni in una gabbia sotto terra senza cibo, sopravvissuta grazie alla fede».Lo speciale contiene due articoli.Se si toglie all'uomo la possibilità di cercare la verità fino alla radice, quindi fino a misurarsi con Dio, dell'uomo resta ben poco. A meno che non si scambi per umano uno dei molti surrogati oggi alla moda, tutti prodotti però che offrono poche garanzie anche per una buona convivenza civile. L'uomo che non sente il dovere di porsi le domande ultime resta povero, rattrappito su sé stesso. Per questo la libertà religiosa, rettamente intesa, cioè rivolta alla ricerca del Dio vero e non una marmellata delle religioni, è da ritenersi fonte primaria dei cosiddetti diritti umani. Ostacolare questa libertà significa uccidere, non solo fisicamente. Eppure oggi la persecuzione, e specialmente quella a danno dei cristiani, è un dato di fatto. Una realtà che la pandemia ha addirittura amplificato, perché oltre ad aver aggravato le vulnerabilità sociali, culturali ed economiche, ha legittimato l'incremento di sorveglianza e delle restrizioni di governi totalitari o autoritari.Nell'ultimo rapporto sulla libertà religiosa nel mondo della fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre, si registra che essa «è violata in quasi un terzo dei Paesi del mondo». Viene individuata una «zona rossa» di 26 Paesi dove le persecuzioni sono considerate «estreme», quasi la metà di questi si trova in Africa dove cresce l'espansione di reti jihadiste transnazionali che si diffondono lungo l'equatore e aspirano a essere «califfati» transcontinentali. In Asia, invece, la persecuzione dei gruppi religiosi è principalmente opera di dittature marxiste, come quelle della Corea del Nord e della Cina; in India il rischio arriva soprattutto da movimenti di nazionalismo etno religioso. Poi ci sono 36 Paesi in zona «arancione» dove la persecuzione è meno estrema, ma la libertà religiosa di fatto non c'è. In questa fascia sono annoverati Stati del Medio Oriente, dell'Asia meridionale e centrale, nonché le ex Repubbliche sovietiche e le nazioni limitrofe, Paesi che hanno approvato leggi volte a impedire l'espansione di quelle che considerano religioni straniere e a vietare «l'islam non tradizionale». Poi c'è la persecuzione «educata», potremmo dire da zona «gialla», che nei Paesi occidentali si fonda soprattutto sull'ascesa di nuovi «diritti», nuove norme culturali create in base a valori in evoluzione, che consegnano le religioni «all'oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee». La World watch list 2021 di Open doors / Porte aperte ha registrato, nel periodo ottobre 2019-settembre 2020, ben 13 cristiani morti ammazzati nel mondo ogni giorno, a cui quotidianamente si devono aggiungere 12 chiese ed edifici connessi attaccati o chiusi, 11 cristiani arrestati senza processo e 4 rapiti.La politica risponde a singhiozzo davanti a questa epidemia liberticida e anticristiana. «Dalla creazione di un'Alleanza internazionale per la libertà religiosa alla firma di ordini esecutivi che promuovono la libertà religiosa e la libertà di coscienza, l'amministrazione Trump», ha scritto il Wall Street journal, «ha elevato questi problemi in patria e all'estero come nessun altro. Joe Biden farebbe bene a costruire sull'eredità del suo predecessore». Ma il nuovo presidente, nonostante il recente riconoscimento del «genocidio» armeno, finora sembra orientato ad altre priorità. Anzi i cattolici americani, compresi i vescovi, discutono sulla figura del secondo presidente «cattolico» dopo John Kennedy, proprio per questioni etiche che rimandano all'obiezione di coscienza e quindi alla libertà religiosa. In Italia recentemente è stata approvata in Commissione esteri alla Camera la risoluzione presentata da Andrea Delmastro Delle Vedove, capogruppo di Fdi, che prevede tra i criteri da valutare per la concessione dei fondi italiani per la cooperazione allo sviluppo anche il rispetto del diritto a professare liberamente la propria fede. Ma anche quando sono validi, questi restano spesso episodi isolati, segno che non si tratta di una vera priorità. La Commissione Ue ha impiegato un anno e mezzo dall'insediamento per nominare l'inviato speciale per la promozione e la protezione della libertà di religione o di credo fuori dell'Ue: il ritardo, per quanto motivato dalla pandemia, mostra lo scarso rilievo politico dato alla materia. Dopo la scadenza del precedente inviato speciale, lo slovacco Ján Figel, la Commissione aveva addirittura smantellato l'ufficio, per poi ripristinarlo nel luglio 2020 dopo le vibranti proteste di diverse associazioni, ma la nomina del nuovo inviato, il cipriota Christos Stylianides, è arrivata solo il 5 maggio scorso. E si spera che gli siano forniti più mezzi rispetto a quelli decisamente scarni assegnati a Figel nei suoi 4 anni di valido servizio.Il tema della libertà religiosa si può anche declinare come «cristianofobia», come evidenziano i ripetuti atti vandalici nei confronti di chiese (anche roghi, come sappiamo) che avvengono in Francia con periodicità costante. Secondo il ministero dell'Interno, nel 2018 sono stati censiti 1.063 «fatti anticristiani» e nel 2017 erano stati 1.038. Eppure, nulla accade nella vecchia Europa che ha rifiutato le sue radici cristiane, nessun «Christian lives matter», nessuna voce si alza dalle articolesse che contano. Anzi, come disse il professor Henry Jenkins, si conferma che «il nuovo anticattolicesimo rimane l'unico pregiudizio accettabile».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cristiani-perseguitati-nuovi-martiri-2653005033.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-figlio-ucciso-sotto-i-miei-occhi-per-obbligarmi-ad-adorare-allah" data-post-id="2653005033" data-published-at="1621180433" data-use-pagination="False"> «Un figlio ucciso sotto i miei occhi per obbligarmi ad adorare Allah» Se l'inferno esiste, non dev'essere molto diverso dall'esperienza toccata a Rebecca Bitrus. Sì, perché questa donna ha sperimentato l'esperienza di un rapimento, con tanto di sfruttamento e abusi sessuali, per mano nientemeno che degli uomini di Boko Haram, l'organizzazione terroristica jihadista diffusa nel nord della Nigeria, nota anche come Gruppo della gente della sunna per la propaganda religiosa e il jihad, dal 2015 alleatasi con lo Stato islamico. La Bitrus, sequestrata quando aveva solo 28 anni, ha vissuto un calvario lungo due anni. Tutto ebbe inizio il 28 agosto 2014, quando la giovane donna - appartenente alla comunità Dogon Ghukwu Kangarwan Bagi, situata al Nord dello Stato nigeriano del Borno, al confine tra Ciad e Niger - fu testimone dell'arrivo del terroristi. Al momento dell'attacco, aveva provato a fuggire con il marito e i figli, Zacarías e Jonatan. Il marito è però riuscito a scappare, lei no. «Mi hanno trasformato in una schiava», ricorda la Bitrus ripensando a quel durissimo periodo, «ho lavorato per loro, ho cucinato, ho pulito e lavato i vestiti. Dopo un anno, mi hanno chiesto di diventare musulmana, ma non volevo rinunciare alla mia fede. Credo in Gesù e qualunque cosa mi facciano non cambierò la mia opinione». Inutile dire che, per un simile rifiuto, la donna poteva essere giustiziata da un momento all'altro. In effetti, spazientiti per l'attaccamento alla fede della donna, i terroristi, dopo circa un anno, avevano preso provvedimenti. Così la Bitrus, a un certo punto, è stata rinchiusa una gabbia sottoterra per tre giorni, senza cibo né acqua. Siccome ancora non mollava, gli uomini di Boko Haram hanno inflitto alla donna il più atroce dolore che può vivere una madre: hanno preso Jonatan, il figlio di poco più di un anno, e lo hanno gettato nel fiume, dov'è annegato quasi immediatamente. Alla fine, la cristiana è riuscita a fuggire. Ha camminato per quasi un mese, mangiando erba. Tuttora il suo corpo porta i segni di quell'incredibile e terrificante esperienza. A distanza di anni, e nonostante l'immenso dolore vissuto, Rebecca Bitrus ha deciso di condividere la sua esperienza, mettendo in luce come essa sia una prova, più che del male degli uomini, della grandezza del Signore: «Voglio raccontare la mia storia, la fede mi ha aiutato a sopravvivere e voglio dire a tutti che l'unica cosa che ci salva è Dio». Parole che lasciano senza fiato, per la forza e l'attaccamento alla vita di cui sono l'esempio.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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