Contadini in piazza contro l’inflazione e i prezzi imposti dalle grandi catene

Era già stato tutto previsto da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Dopo il (Giuseppe) Conte zio, la peste, le gride del ministro della salute Roberto Speranza che hanno prodotto come effetto collaterale la distruzione del turismo e un rallentamento senza precedenti dei consumi, ora arriva la carestia e non manca molto all’assalto ai forni sulla spinta di un’inflazione prepotente, come non si vedeva da un ventennio a fronte di redditi inchiodati in basso. Ne hanno fornito la prova ieri migliaia di agricoltori che hanno lasciato le stalle e gli orti per un giorno per invadere pacificamente le città italiane: da Milano a Firenze, da Piacenza a Cagliari, da Palermo a Cosenza, da Salerno a Roma. Li ha chiamati alla mobilitazione la Coldiretti che segnala il pericolo di desertificazione dei campi a causa dell’impennata dei costi energetici e delle materie prime che gli agricoltori non riescono a compensare con aumenti di prezzo delle loro produzioni.
Sono scesi in piazza anche i ristoratori organizzati dal Mio - aderente a Confindustria - che hanno inscenato un sit in davanti alla Corte di cassazione a Roma. Paolo Bianchini ha spiegato: «Siamo qui, radunati dietro allo striscione che grida “Mattarella falliti noi falliti tutti”, per portare simbolicamente i nostri bilanci in tribunale. Abbiamo perso quest’anno il 65% del fatturato; gli aumenti di costi dell’energia, la mancata cassa integrazione, la fine della moratoria sui mutui, la pressione fiscale ci uccidono. Sono già almeno 30.000 le aziende dell’Horeca (bar, ristoranti, pizzerie, enoteche, pub) che hanno chiuso e il perdurare delle restrizioni tipo il green pass e l’assenza di turismo ci condannano definitivamente. Chiediamo un intervento subito».
È il tanto reclamato scostamento di bilancio da 30 miliardi su cui sta insistendo il segretario della Lega Matteo Salvini e che ieri alla Camera è stato lumeggiato anche dal ministro per lo Sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, per fare fronte al rincaro energetico. L’Arera- l’autorità di vigilanza sull’energia - ha stabilito che nel trimestre in corso la luce rincarerà del 55% e il metano del 41,8%: scaldare una serra o tenere acceso un frigorifero diventa proibitivo.
Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini ha firmato una lettera appello a Mario Draghi in cui si sottolinea: «È urgente che almeno una parte delle risorse del Pnrr già stanziate per l’agricoltura, come gli 1,2 miliardi per i contratti di filiera e 1,5 miliardi per il fotovoltaico senza consumo di suolo, vengano messe a disposizione quanto prima delle nostre imprese con semplici decreti ministeriali». Diversamente, là dove ci sono campi tra qualche mese ci sarà il deserto. Secondo un’ indagine di Ixe il 30% degli agricoltori ha dovuto ridurre se non abbandonare del tutto la produzione. Questo significa mettere a rischio le forniture alimentari. La ragione dell’abbandono della produzione - come spiegano gli allevatori che a Roma hanno portato in corteo anche la mucca Giustina che in piazza Santi Apostoli è diventata la mascotte della protesta - sta nei prezzi che gli agricoltori riescono a spuntare che non coprono più neppure i costi. Per pagare un caffè - dicono - dobbiamo vendere tre litri di latte, ma produrli costa infinitamente di più. La bolletta energetica è lievitata per ora del 70%, i mangimi sono aumentati del 40%, i fertilizzanti passano da 25 a 60 euro al quintale, il gasolio agricolo da 50 centesimi a 1,20 euro. E se Ettore Prandini sottolinea che «non si può aspettare oltre per fermare la speculazione in atto sul prezzo del latte alla stalla, a rischio c’è il futuro di 26.000 allevamenti» il presidente di Alleanza cooperative agroalimentari - rappresenta circa il 70% della nostra produzione - Giorgio Mercuri aggiunge che «fissare un prezzo alla stalla non si è rilevato un intervento risolutivo, serve un intervento strutturale o le stalle chiudono».
Ma il problema non è solo della zootecnia, riguarda tutto l’agroalimerntare perché la Gdo non riconosce gli aumenti di ortofrutta, formaggi, salumi; teme di perdere domanda e comprime i margini delle imprese agricole. Ma è un argine debolissimo che peraltro rischia di travolgere sia i campi sia le industrie del cibo: pane e pasta stanno subendo aumenti del 40% alla produzione (la Fao ha stimato solo nell’ultimo mese aumenti dei cereali del 12,5% anche perché la produzione mondiale è crollata e la crisi ucraina pesa), i pomodori sono aumentati del 35%, le melanzane del 37%, i cavolfiori sono quotati 1,30 euro (aumento del 40%), le zucchine sono a 2,7 euro con aumento del 70%, il record è dei finocchi passati da 45 centesimi a 2,30 euro. Ma questi aumenti non vengono del tutto riconosciuti ai contadini. Anche i pescatori stanno lasciando le barche all’ormeggio perché gli aumenti medi del 20% del pescato non coprono i rincari dei carburanti. E per paradosso il surgelato - così come vale per la frutta refrigerata - costa ancora di più proprio per il peso dei rincari energetici. Sono i segnali della carestia.






