2024-07-19
La Consulta blinda i paletti sul fine vita. Bocciato Cappato
La Corte costituzionale conferma la sentenza 2019: «Non esiste un generale diritto di morire in ogni situazione di sofferenza».La Consulta boccia Marco Cappato. Nonostante la martellante campagna del radicale e dell’Associazione Luca Coscioni, in materia di suicidio assistito rimane valida la sentenza del 2019. Compreso il paletto dei «trattamenti di sostegno vitale». Dunque, potranno accedervi pazienti con una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, capaci di esprimere il proprio consenso e che si trovino a dipendere da respiratori meccanici, alimentazione artificiale, oppure da sistemi di evacuazione manuale, aspirazione di muco dalle vie bronchiali e cateteri, purché «tali procedure», anche gestite da assistenti domestici e non da personale sanitario, «si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo». Dovranno essere il Servizio sanitario nazionale (i comitati etici delle Asl competenti) ed eventualmente i giudici a identificare la sussistenza di tali requisiti, rispettando in modo «puntuale» le «condizioni procedurali stabilite dalla sentenza» del 2019, che la Corte aveva «giudicato essenziali per prevenire quel pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili che l’aveva indotta, nell’ordinanza n. 207 del 2018, a sollecitare prioritariamente l’intervento del legislatore». Sia il Ssn sia il Parlamento, insiste la Consulta, dovranno impegnarsi ad attuare tali principi.Il pronunciamento di ieri conferma le anticipazioni che La Verità aveva dato il primo luglio. Il collegio, sollecitato ripetutamente a intervenire su casi che coinvolgevano Cappato e gli altri attivisti, ha voluto blindare i limiti sanciti cinque anni fa, quando arrivò la prima storica decisione sul suicidio assistito, con la vicenda di dj Fabo. Agire diversamente avrebbe messo la Consulta in una situazione paradossale: benché il testo diffuso ieri negasse un potenziale «gravame» sul parere del 2019, sconfessarne un cardine sarebbe stato come ammettere di aver emesso una sentenza sbagliata. Stavolta, a rinviare la questione alla Corte era stato il gip di Firenze, davanti al quale erano comparsi Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, autodenunciatisi per aver accompagnato a morire in un cantone elvetico un quarantaquattrenne toscano, il quale, però, non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale. L’uomo «non solo non si avvaleva di alcun supporto meccanico (ventilazione, nutrizione, idratazione artificiale o altro), ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali quali manovre di evacuazione manuale o simili». Secondo la toga fiorentina, nondimeno, il limite stabilito cinque anni fa discriminava «irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche», in virtù di un dettaglio che «discende da circostanze del tutto accidentali», «senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato». Insomma, chi è attaccato a una macchina non ha più diritto di morire rispetto a chi non lo è.La Consulta ha ascoltato alcuni amici curiae, due donne malate e le memorie difensive di Cappato & C., ai quali si contrapponeva l’Avvocatura dello Stato, costituitasi in rappresentanza della presidenza del Consiglio. E alla fine ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice. Intanto, il collegio ha ribadito che va mantenuta, attorno alla persona, una «cintura protettiva» che la schermi da «scelte autodistruttive». Inoltre - ed è cruciale - ha evidenziato che non aveva mai «riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile»; aveva «soltanto ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che […] già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità» all’articolo 32 della Costituzione, «di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza». È una lettura che considera «conservativa» persino la pronuncia di cinque anni fa e che, soprattutto, permette di differenziare la condizione dei malati i quali, non dipendendo dai trattamenti di sostegno vitale, «non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure». Interessante, poi, in tema di autodeterminazione terapeutica, il ragionamento sui rischi di una eccessiva liberalizzazione del suicidio assistito. Essi, spiega la Consulta, «non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche […] la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte». La Corte ha ricordato che, «dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete condizioni in cui essa si svolga». Ecco perché essa ha rivendicato il margine di discrezionalità, concesso ai singoli Stati dalla Corte di Strasburgo, riguardo al bilanciamento tra i diritti individuali del paziente e la tutela della vita umana in sé.Il verdetto è uscito nel pomeriggio di una giornata infuocata, inaugurata da un pezzo in cui Repubblica, addirittura citando i relatori Franco Modugno e Francesco Viganò, plaudeva a una presunta «svolta sul fine vita». Evidentemente, aveva stiracchiato l’interpretazione, in un certo qual modo estensiva, di «trattamento vitale», che è contenuta nella sentenza. È bizzarro che a spingersi così in là sia stata la stessa Liana Milella che, settimane fa, rimproverava all’ex vicepresidente della Consulta, Nicolò Zanon, di aver svelato in un libro le «opinioni dissenzienti», cioè i disaccordi interni, che la Corte tiene riservati. Ieri, una nota ha precisato: «In relazione a taluni rilievi rivolti alla Corte costituzionale di favorire singole testate l’ufficio stampa tiene a sottolineare che le uniche informazioni relative alle sentenze vengono fornite a tutti i media esclusivamente con i comunicati pubblicati sul sito della Consulta e inviati ai giornalisti». La «svolta sul fine vita» può attendere.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)