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2021-10-29
Confusione e fisco: gli italiani non si fidano ancora dell'elettrico
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Incerta situazione quella del settore automotive italiano del 2021, con la domanda che supera l'offerta, troppa incertezza sul futuro delle motorizzazioni che non sono almeno ibride, e soprattutto tanta confusione nei clienti, che spesso si perdono nel vocabolario tecnico, facendo fatica, per esempio, a distinguere la differenza tra una mild-hybrid (l'elettrico aiuta l'endotermico), una full-hybrid (i due motori lavorano insieme e l'endotermico carica le batterie) e una hybrid-plug-in (l'elettrico si ricarica anche mediante una presa esterna). Termini che, in effetti, sembrano fatti apposta per confondere. E poi c'è lo spettro fiscale all'orizzonte: i carburanti concorrono per 40 miliardi di accise al bilancio statale, tasse di possesso e le assicurazioni sono calcolate su parametri che non esisteranno più, quindi la fiscalità del comparto andrà ripensata.
Sono le prime considerazioni emerse al ForumAutomotive 2021 di Milano, dove è stato presentato uno studio di Findomestic secondo il quale la fiducia e la propensione all'acquisto di automezzi degli italiani nel momento post-covid è in aumento, ma a frenare sono proprio le incertezze. C'è poi una questione di fondo: la transizione all'elettrico è stata imposta, nessun cliente l'ha chiesta, ma a pagare saremo proprio noi in quanto tali. Eppure stando allo studio di Findomestic il 71% degli intervistati vorrebbe cambiare auto con una che inquina meno, spinto dalle possibili limitazioni alla circolazione, il 55% pensa a un mezzo più sicuro e soltanto il 30% sceglie l'auto in base al tipo di alimentazione. Su questo ultimo parametro la scelta degli italiani sarebbe per il 58% per un'automobile ibrida, 13% per una elettrica o diesel, 13% la vorrebbe a benzina , l'11% Gpl e 5% a metano. Come ha sottolineato Antonino Geronimo La Russa, presidente di Aci Milano tra i relatori del convegno, «dal punto di vista della comunicazione anche le istituzioni hanno spesso fallito, illudendo oppure fuorviando, arrivando finanche a criminalizzare un tipo di motorizzazione rispetto a un'altra. E non c'è ragione per sentirsi inadeguati oppure poco ecologici se si guida una vettura Euro5 o 6».
E se il problema, come dicono a Bruxelles e a Roma, è la vetustà del parco macchine circolante, allora non sarebbe una cattiva idea dare incentivi anche per l'usato, in modo che gli automobilisti possano trovare più accessibili automezzi relativamente recenti rottamando quelli ante "Euro4".
Proprio la mancanza di chiarezza sarebbe la causa del rinvio dell'acquisto secondo Aldo Fassina, presidente dell'omonimo gruppo di concessionarie, che insieme con Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto, concordano sul fatto che i consumatori non sono pronti alla conversione all'elettrico, nella quale la confusione regna sovrana. Quanto alle mancanti infrastrutture, si apprende che l'installazione di una serie di colonnine per la ricarica rapida in autostrada costa circa 500.000 euro, tanto da rendere impossibile per chi investe recuperare questa cifra nei 15 anni di previsione della sua utilità e ciclo di vita.
Tra i concessionari di ogni marca che non sia di lusso è forte anche la preoccupazione sul fatto che in questo momento, con la penuria di componenti elettronici e le difficoltà di spedizione, le case automobilistiche vogliano cercare a tutti i costi di accorciare la filiera, spingendo i clienti a ordinare le automobili online. Ebbene, consola il fatto che se gli accessi ai siti web e ai configuratori sono aumentati, poi la formalizzazione dell'acquisto avviene sempre dopo una visita all'autosalone, perché nessuno compra un automezzo senza essersi seduto dentro almeno una volta. Senza concessionari il cliente perde il punto di riferimento, e la chiusura degli autosaloni, specialmente di quelli piccoli, significa spesso la perdita di presidio di un territorio. L'era post-pandemia e la spinta alla conversione stanno, insieme, creando una situazione inedita, con i costruttori che mirano alla marginalità su ogni esemplare venduto più che ai volumi, come Stellantis. «Spesso oggi abbiamo il venduto ma non il consegnato» ricorda Michele Crisci dell'Unione nazionale rappresentanti veicoli esteri, "le produzioni sono molto rallentate e di conseguenza le consegne avvengono con tempi molto lunghi".
Il piano del ministro tecnico
All'incontro milanese è intervenuto per circa settanta minuti anche il Ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani, interangendo con i relatori su vari aspetti. Cingolani come ministro ha due vantaggi. Primo: è un fisico, quindi realista e conoscitore del valore dei numeri. Secondo: essendo stato chiamato da tecnico non è costretto a cambiare parole parlando con interlocutori di uno schieramento politico o di un altro. Inizialmente il ministro è parso ragionare con molto buon senso: «La decarbonizzazione, ha dichiarato, ci sarà ma nei tempi giusti, seguendo puntualmente le tappe previste dall'agenda. E senza tralasciare alcuna tecnologia, a cominciare da quella atomica green e di quarta generazione». Intervistato dal moderatore del convegno, il giornalista Pierluigi Bonora, promotore dell'evento, ha poi virato lasciando poche speranze ai presenti che rappresentano la filiera automotive: «Per accelerare la transizione non si può pensare di avere incentivi a ripetizione, quello che serve per la decarbonizzazione sono aiuti strutturali, non del tipo stop&go come avvenuto di recente». Interrogato a proposito dei tempi imposti dalla Commissione Ue in tema di green, ha risposto dicendo che l'impegno si basa su un programma preciso, che comprende centinaia di azioni nei prossimi cinque anni ma, e ha aggiunto: «L'agenda prevede tappe forzate che prevediamo di rispettare puntualmente e senza strafare, perché non si può correre una maratona al ritmo dei 100 metri».
Stimolato sul dibattito, Cingolani ritiene offensivo chi liquida tutto parlando di «blablabla» (la frase usata recentemente da Greta Thunberg), perché se le cose fossero state semplici sarebbero già state fatte. Il piano, infatti, prevede che per arrivare a impiegare il 70% per cento di energie rinnovabili per alimentare la mobilità bisogna installare migliaia di impianti, decuplicando ogni anno le centrali, facendo in modo che la domanda di energia possa crescere compatibilmente con quello che produciamo. «Altrimenti non potremo liberarci dai combustibili fossili. Occorrono più realismo e trasparenza, e meno azzardi». È questo il tema sul quale Roberto Cingolani ha saputo fornire rassicurazioni ai presenti, con una serie di indicazioni puntuali, in posizione centrale e di massimo equilibrio rispetto alle derive ideologiche che arrivano da alcune parti della politica. «Abbiamo abbastanza tempo per recuperare parte del terreno perso in questi anni» ha puntualizzato «senza trascurare la leadership che l'Italia ha in questo settore. La lungimiranza paga, come sta dimostrando la Cina, e noi stiamo lavorando su più fronti, partendo dall'investimento di 3,2 miliardi di euro riservati alla ricerca sull'idrogeno verde. Nelle scelte che ci aspettano, dobbiamo metterci nei panni della persona comune, perché un conto è vivere in una grande città, un altro è abitare in un posto nel quale non esistono tutti i servizi delle metropoli. L'elettrico è obiettivamente utile sulle piccole tratte; il problema non dipende dalle auto, ma dalle infrastrutture».
Per Cingolani la transizione non può essere concentrata solo sull'elettrico. «Dobbiamo aiutare con gli incentivi chi non può fare autonomamente il salto, consentendogli di passare oggi alle auto omologate Euro 6. Questo avrebbe effetti positivi sulla decarbonizzazione, ma è importante fermare il mercato di auto di terza o quarta mano che finiscono in altri continenti, trasferendo il problema in aree geografiche diverse».
Meno diplomatico sulla fine prematura dei motori diesel, dichiarati «vittime della transizione», concludendo con una frase che però ha ancora troppo sapore di utopia: «La transizione è importante» ha concluso «ma dovremo farlo solo con idee chiare, tenendo presente che si dovrà continuare ancora a lungo a produrre componenti per le auto convenzionali anche e soprattutto allo scopo di evitare che milioni di lavoratori perdano il posto».
E proprio questo ora è il punto da affrontare: calcolare come rendere sostenibile l'impatto sociale, quali azioni per incentivare la trasformazione di posti di lavoro che con l'arrivo dell'elettrico non esisteranno più. In Italia duecentomila posti sui quali impatterà la rivoluzione, sessanta mila quelli che vedranno la loro specialità sparire. Il pensiero, per esempio, va chi produce marmitte.
Premio Dekra al Politecnico di Milano, per l'innovativo simulatore di guida
La quarta edizione del Dekra Road Safety Award, il premio speciale che tende a valorizzare le realtà italiane più attive e brillanti nell'ambito della sicurezza stradale va al Politecnico di Milano nella persona del magnifico rettore Ferruccio Resta. La multinazionale delle ispezioni ai veicoli, presente in Italia da oltre 20 anni con oltre 700 dipendenti, ha ideato il Premio con il duplice obiettivo di sensibilizzare in modo positivo la pubblica opinione e di riconoscere il merito alle figure che nei propri ambiti hanno realizzato azioni di grande efficacia. Il premio 2021, ritirato dal professor Marco Bocciolone, direttore del Dipartimento di meccanica, rappresenta il riconoscimento per l'azione continua sviluppata dal Politecnico di Milano, dove quest'anno è stato inaugurato il simulatore di guida Dim400 realizzato con il contributo di Regione Lombardia, che consente attività di ricerca nell'ambito della sicurezza dei veicoli. Precedentemente il premio era stato vinto da Alberto Bombassei, presidente di Brembo, dal prefetto Roberto Sgalla, già direttore centrale delle specialità della Polizia di Stato, dal sindaco di Genova Marco Bucci nel suo ruolo di Commissario straordinario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera.
Il paradosso dell'elettrico
Il segmento di auto più richieste attualmente è il Suv, Sport Uilitity Vehicle. Possibilmente ibrido, ovviamente. Ovvero, per le leggi della fisica, quanto di più assurdo si possa immaginare. Stante una massa di oltre 1.500 chilogrammi e una batteria al massimo dello stato dell'arte, consuma oltre il 90% dell'energia che produce per spostare sé stessa. E siccome le case produttrici hanno problemi di approvvigionamento, tendono a promuovere e concentrarsi sui modelli che garantiscono loro più marginalità, ovvero quelli di lusso, i cosiddetti premium. In Europa il costo delle emissioni di Co2 basato sulle dimensioni delle auto e sui divieti è perdente, poiché spinge i costruttori a migliorare le auto più grandi. Dunque chi deve sostituire una vecchia utilitaria si trova nella condizione di avere meno scelta e costi troppo alti per passare a una elettrica. Questa quindi si presenta snaturata: la Fiat 500 elettrica, per esempio, è iper equipaggiata di gadget ed è un "brand" di lusso. Forse una versione basica e meno costosa venderebbe di più aiutando la transizione, ma sarebbe poco o nulla profittevole per Stellantis. Le emissioni di Co2 di un Suv ibrido sono oggi «politicamente guidate» per apparire virtuose, in realtà senza infrastrutture di ricarica capillari, ovvero portando in giro batterie semiscariche usando il motore endotermico, inquinano di più dello stesso modello diesel Euro5 o 6.
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Produzioni rallentate, concessionari in pericolo, incertezza e spettro fiscale su tasse e assicurazioni frenano gli acquisti.Roberto Cingolani al Forum Automotive 2021 di Milano: «Il cambio sarà una maratona di cinque anni. Il diesel? Una vittima senza più possibilità».Il Politecnico di Milano si è aggiudicato la quarta edizione del Dekra Road Safety Award, il premio speciale che tende a valorizzare le realtà italiane più attive e brillanti nell'ambito della sicurezza stradale.Il paradosso dell'elettrico: le emissioni di Co2 di un Suv ibrido appaiono virtuose, ma in realtà sono senza infrastrutture di ricarica capillari e portano in giro batterie semiscariche usando il motore endotermico. Risultato: inquinano di più dello stesso modello diesel Euro5 o 6.Lo speciale contiene quattro articoli.Incerta situazione quella del settore automotive italiano del 2021, con la domanda che supera l'offerta, troppa incertezza sul futuro delle motorizzazioni che non sono almeno ibride, e soprattutto tanta confusione nei clienti, che spesso si perdono nel vocabolario tecnico, facendo fatica, per esempio, a distinguere la differenza tra una mild-hybrid (l'elettrico aiuta l'endotermico), una full-hybrid (i due motori lavorano insieme e l'endotermico carica le batterie) e una hybrid-plug-in (l'elettrico si ricarica anche mediante una presa esterna). Termini che, in effetti, sembrano fatti apposta per confondere. E poi c'è lo spettro fiscale all'orizzonte: i carburanti concorrono per 40 miliardi di accise al bilancio statale, tasse di possesso e le assicurazioni sono calcolate su parametri che non esisteranno più, quindi la fiscalità del comparto andrà ripensata.Sono le prime considerazioni emerse al ForumAutomotive 2021 di Milano, dove è stato presentato uno studio di Findomestic secondo il quale la fiducia e la propensione all'acquisto di automezzi degli italiani nel momento post-covid è in aumento, ma a frenare sono proprio le incertezze. C'è poi una questione di fondo: la transizione all'elettrico è stata imposta, nessun cliente l'ha chiesta, ma a pagare saremo proprio noi in quanto tali. Eppure stando allo studio di Findomestic il 71% degli intervistati vorrebbe cambiare auto con una che inquina meno, spinto dalle possibili limitazioni alla circolazione, il 55% pensa a un mezzo più sicuro e soltanto il 30% sceglie l'auto in base al tipo di alimentazione. Su questo ultimo parametro la scelta degli italiani sarebbe per il 58% per un'automobile ibrida, 13% per una elettrica o diesel, 13% la vorrebbe a benzina , l'11% Gpl e 5% a metano. Come ha sottolineato Antonino Geronimo La Russa, presidente di Aci Milano tra i relatori del convegno, «dal punto di vista della comunicazione anche le istituzioni hanno spesso fallito, illudendo oppure fuorviando, arrivando finanche a criminalizzare un tipo di motorizzazione rispetto a un'altra. E non c'è ragione per sentirsi inadeguati oppure poco ecologici se si guida una vettura Euro5 o 6».E se il problema, come dicono a Bruxelles e a Roma, è la vetustà del parco macchine circolante, allora non sarebbe una cattiva idea dare incentivi anche per l'usato, in modo che gli automobilisti possano trovare più accessibili automezzi relativamente recenti rottamando quelli ante "Euro4".Proprio la mancanza di chiarezza sarebbe la causa del rinvio dell'acquisto secondo Aldo Fassina, presidente dell'omonimo gruppo di concessionarie, che insieme con Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto, concordano sul fatto che i consumatori non sono pronti alla conversione all'elettrico, nella quale la confusione regna sovrana. Quanto alle mancanti infrastrutture, si apprende che l'installazione di una serie di colonnine per la ricarica rapida in autostrada costa circa 500.000 euro, tanto da rendere impossibile per chi investe recuperare questa cifra nei 15 anni di previsione della sua utilità e ciclo di vita.Tra i concessionari di ogni marca che non sia di lusso è forte anche la preoccupazione sul fatto che in questo momento, con la penuria di componenti elettronici e le difficoltà di spedizione, le case automobilistiche vogliano cercare a tutti i costi di accorciare la filiera, spingendo i clienti a ordinare le automobili online. Ebbene, consola il fatto che se gli accessi ai siti web e ai configuratori sono aumentati, poi la formalizzazione dell'acquisto avviene sempre dopo una visita all'autosalone, perché nessuno compra un automezzo senza essersi seduto dentro almeno una volta. Senza concessionari il cliente perde il punto di riferimento, e la chiusura degli autosaloni, specialmente di quelli piccoli, significa spesso la perdita di presidio di un territorio. L'era post-pandemia e la spinta alla conversione stanno, insieme, creando una situazione inedita, con i costruttori che mirano alla marginalità su ogni esemplare venduto più che ai volumi, come Stellantis. «Spesso oggi abbiamo il venduto ma non il consegnato» ricorda Michele Crisci dell'Unione nazionale rappresentanti veicoli esteri, "le produzioni sono molto rallentate e di conseguenza le consegne avvengono con tempi molto lunghi".<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/confusione-fisco-italiani-non-elettrico-2655436953.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-piano-del-ministro-tecnico" data-post-id="2655436953" data-published-at="1635502310" data-use-pagination="False"> Il piano del ministro tecnico All'incontro milanese è intervenuto per circa settanta minuti anche il Ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani, interangendo con i relatori su vari aspetti. Cingolani come ministro ha due vantaggi. Primo: è un fisico, quindi realista e conoscitore del valore dei numeri. Secondo: essendo stato chiamato da tecnico non è costretto a cambiare parole parlando con interlocutori di uno schieramento politico o di un altro. Inizialmente il ministro è parso ragionare con molto buon senso: «La decarbonizzazione, ha dichiarato, ci sarà ma nei tempi giusti, seguendo puntualmente le tappe previste dall'agenda. E senza tralasciare alcuna tecnologia, a cominciare da quella atomica green e di quarta generazione». Intervistato dal moderatore del convegno, il giornalista Pierluigi Bonora, promotore dell'evento, ha poi virato lasciando poche speranze ai presenti che rappresentano la filiera automotive: «Per accelerare la transizione non si può pensare di avere incentivi a ripetizione, quello che serve per la decarbonizzazione sono aiuti strutturali, non del tipo stop&go come avvenuto di recente». Interrogato a proposito dei tempi imposti dalla Commissione Ue in tema di green, ha risposto dicendo che l'impegno si basa su un programma preciso, che comprende centinaia di azioni nei prossimi cinque anni ma, e ha aggiunto: «L'agenda prevede tappe forzate che prevediamo di rispettare puntualmente e senza strafare, perché non si può correre una maratona al ritmo dei 100 metri».Stimolato sul dibattito, Cingolani ritiene offensivo chi liquida tutto parlando di «blablabla» (la frase usata recentemente da Greta Thunberg), perché se le cose fossero state semplici sarebbero già state fatte. Il piano, infatti, prevede che per arrivare a impiegare il 70% per cento di energie rinnovabili per alimentare la mobilità bisogna installare migliaia di impianti, decuplicando ogni anno le centrali, facendo in modo che la domanda di energia possa crescere compatibilmente con quello che produciamo. «Altrimenti non potremo liberarci dai combustibili fossili. Occorrono più realismo e trasparenza, e meno azzardi». È questo il tema sul quale Roberto Cingolani ha saputo fornire rassicurazioni ai presenti, con una serie di indicazioni puntuali, in posizione centrale e di massimo equilibrio rispetto alle derive ideologiche che arrivano da alcune parti della politica. «Abbiamo abbastanza tempo per recuperare parte del terreno perso in questi anni» ha puntualizzato «senza trascurare la leadership che l'Italia ha in questo settore. La lungimiranza paga, come sta dimostrando la Cina, e noi stiamo lavorando su più fronti, partendo dall'investimento di 3,2 miliardi di euro riservati alla ricerca sull'idrogeno verde. Nelle scelte che ci aspettano, dobbiamo metterci nei panni della persona comune, perché un conto è vivere in una grande città, un altro è abitare in un posto nel quale non esistono tutti i servizi delle metropoli. L'elettrico è obiettivamente utile sulle piccole tratte; il problema non dipende dalle auto, ma dalle infrastrutture».Per Cingolani la transizione non può essere concentrata solo sull'elettrico. «Dobbiamo aiutare con gli incentivi chi non può fare autonomamente il salto, consentendogli di passare oggi alle auto omologate Euro 6. Questo avrebbe effetti positivi sulla decarbonizzazione, ma è importante fermare il mercato di auto di terza o quarta mano che finiscono in altri continenti, trasferendo il problema in aree geografiche diverse». Meno diplomatico sulla fine prematura dei motori diesel, dichiarati «vittime della transizione», concludendo con una frase che però ha ancora troppo sapore di utopia: «La transizione è importante» ha concluso «ma dovremo farlo solo con idee chiare, tenendo presente che si dovrà continuare ancora a lungo a produrre componenti per le auto convenzionali anche e soprattutto allo scopo di evitare che milioni di lavoratori perdano il posto».E proprio questo ora è il punto da affrontare: calcolare come rendere sostenibile l'impatto sociale, quali azioni per incentivare la trasformazione di posti di lavoro che con l'arrivo dell'elettrico non esisteranno più. In Italia duecentomila posti sui quali impatterà la rivoluzione, sessanta mila quelli che vedranno la loro specialità sparire. 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La multinazionale delle ispezioni ai veicoli, presente in Italia da oltre 20 anni con oltre 700 dipendenti, ha ideato il Premio con il duplice obiettivo di sensibilizzare in modo positivo la pubblica opinione e di riconoscere il merito alle figure che nei propri ambiti hanno realizzato azioni di grande efficacia. Il premio 2021, ritirato dal professor Marco Bocciolone, direttore del Dipartimento di meccanica, rappresenta il riconoscimento per l'azione continua sviluppata dal Politecnico di Milano, dove quest'anno è stato inaugurato il simulatore di guida Dim400 realizzato con il contributo di Regione Lombardia, che consente attività di ricerca nell'ambito della sicurezza dei veicoli. Precedentemente il premio era stato vinto da Alberto Bombassei, presidente di Brembo, dal prefetto Roberto Sgalla, già direttore centrale delle specialità della Polizia di Stato, dal sindaco di Genova Marco Bucci nel suo ruolo di Commissario straordinario per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/confusione-fisco-italiani-non-elettrico-2655436953.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-paradosso-dell-elettrico" data-post-id="2655436953" data-published-at="1635502310" data-use-pagination="False"> Il paradosso dell'elettrico Il segmento di auto più richieste attualmente è il Suv, Sport Uilitity Vehicle. Possibilmente ibrido, ovviamente. Ovvero, per le leggi della fisica, quanto di più assurdo si possa immaginare. Stante una massa di oltre 1.500 chilogrammi e una batteria al massimo dello stato dell'arte, consuma oltre il 90% dell'energia che produce per spostare sé stessa. E siccome le case produttrici hanno problemi di approvvigionamento, tendono a promuovere e concentrarsi sui modelli che garantiscono loro più marginalità, ovvero quelli di lusso, i cosiddetti premium. In Europa il costo delle emissioni di Co2 basato sulle dimensioni delle auto e sui divieti è perdente, poiché spinge i costruttori a migliorare le auto più grandi. Dunque chi deve sostituire una vecchia utilitaria si trova nella condizione di avere meno scelta e costi troppo alti per passare a una elettrica. Questa quindi si presenta snaturata: la Fiat 500 elettrica, per esempio, è iper equipaggiata di gadget ed è un "brand" di lusso. Forse una versione basica e meno costosa venderebbe di più aiutando la transizione, ma sarebbe poco o nulla profittevole per Stellantis. Le emissioni di Co2 di un Suv ibrido sono oggi «politicamente guidate» per apparire virtuose, in realtà senza infrastrutture di ricarica capillari, ovvero portando in giro batterie semiscariche usando il motore endotermico, inquinano di più dello stesso modello diesel Euro5 o 6.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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