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2025-03-12
Con Lula peggiora ancora la sicurezza in Brasile
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Rio de Janeiro ha sempre rappresentato nell’immaginario collettivo un luogo di vacanza fra il mare e la foresta, sorvegliata dall’enorme statua del Cristo Re ed adagiata sulle mitiche spiagge di Ipanema e Copacabana. Oggi però la grande città brasiliana è diventata una metropoli pericolosa, con interi quartieri in mano a gang criminali che non permettono a nessuno di avvicinarsi al proprio territorio. Basta uscire dalle zone strettamente turistiche per rischiare la vita o addirittura perderla come è successo a due turisti nel dicembre scorso. Il primo caso riguarda un argentino che insieme alla sua famiglia era arrivato a Rio de Janeiro proprio per visitare la statua del Cristo Re e per un errore del suo Gps satellitare era finito in una favela, una delle baraccopoli della città dove vive circa il 20% degli abitanti. La sua auto era subito stata bersagliata da colpi di arma da fuoco e lui era stato ferito gravemente, morendo poi in ospedale alla fine di gennaio. Il secondo caso riguarda una giovane donna venuta da San Paolo, altra megalopoli brasiliana, che stava viaggiando su un’auto del servizio Uber che sarebbe entrata in un’area controllata dalle bande. La donna è stata colpita al collo ed è morta praticamente sul colpo. Episodi che si sono ripetuti ancora, ma fortunatamente senza vittime, ma filmati e pubblicati sui social con persone imploranti di non essere uccise solo per essere finite nel posto sbagliato. Victor dos Santos è Segretario della Sicurezza dello Stato di Rio De Janeiro e descrive un quadro a tinte fosche. «La guerra fra le bande criminali che si contendono il controllo del territorio si è molto intensificata nell’arco del 2024, i nostri dati parlano chiaro. Gli ingressi delle favelas sono presidiati da uomini armati che sparano sulle auto che non conoscono o che non rispettano il codice di condotta che le gang impongono. Pretendono che le auto entrino a 20 km orari, con tutti i finestrini abbassati e con le luci accese per essere certi che non si tratti di elementi di una banda rivale che vuole invadere il loro territorio. Questa situazione è frutto di errori politici del recente passato quando si è dato troppo potere alle cosiddette milizie, gruppi di paramilitari di ex poliziotti che controllavano i quartieri ed erano antagonisti dei narcotrafficanti. Con il tempo queste milizie si sono rivelate altrettanto pericolose per lo stato e la polizia ha iniziato a combatterli. Ma intanto le gang di narcotrafficanti come il famigerato Comando Vermelho hanno dilagato approfittando della guerra fra lo stato e le milizie. Ora dobbiamo combattere questi gruppi e colpirli economicamente perché non abbiamo più finanziamenti per comprare armi». Nell’autunno scorso è stato licenziato il Segretario della Polizia Civile Marcus Amim, perché ritenuto colpevole di inerzia davanti a questa terribile ondata di violenza, ma la situazione non è migliorata. I dati del Public Security Institute (ISP) mostrano notevoli aumenti di rapine in strada, furti di veicoli e furti di telefoni cellulari tra gennaio e dicembre 2024, in particolare nella Zona Sud , soprattutto in quartieri come Botafogo e Flamengo, due nomi che scaldano i cuori degli appassionati di calcio brasiliano. Percentuali che parlano di una crescita di quasi il 20% delle rapine a mano armata per il proliferare di armi in tutto lo stato di Rio de Janeiro, armi che finiscono in mano a criminali sempre più giovani. I crimini sono leggermente calati nelle zone a più alta densità turistica, perché fortemente presidiate dalla polizia brasiliana, ma il centro cittadino e tutte le aree periferiche sono terreno di scontro con le bande. Stando ai dati del 2023 i turisti vittime di crimini sono comunque stati circa 3500, con una media di 9,5 al giorno e nel 2022 si erano verificati gli omicidi di un cittadino statunitense e di un cileno, mentre una donna ucraina era stata accoltellata, senza riportare gravi conseguenze. Nell’ottobre del 2022 anche due turisti italiani, finiti per errore nella baraccopoli di Manguinhos, erano stati feriti da colpi di arma da fuoco. Insieme ad altri tre uomini stavano cercando un distributore di benzina, quando la loro auto è stata crivellata di colpi. I due sono rimasti feriti, ma sono riusciti ad allontanarsi rapidamente raggiungendo l’ospedale più vicino. Sono oltre due milioni gli abitanti di Rio che vivono in queste condizioni e le proteste contro il governo federale sono ormai all’ordine del giorno. In molti chiedono l’intervento dell’esercito, accusando la polizia di fare troppo poco per la popolazione, concentrando le forze soltanto nelle aree più ricche e frequentate dai turisti. Il presidente brasiliano Lula ha dichiarato che non intende dichiarare nessun tipo di stato d’emergenza per la situazione a Rio de Janeiro perchè la sua applicazione nel 2018 non aveva portato a nessun risultato. Lula si è detto pronto a lavorare con i governatori che chiedono misure d’emergenza, ma senza concedere eccessivi poteri alla polizia che potrebbe arrivare ad entrare nelle favelas soltanto per uccidere, senza una base giuridica. Il governo federale ha stanziato nuovi fondi per riorganizzare la sicurezza nello stato di Rio de Janeiro, ma le gang sembrano ormai padrone di interi quartieri e pronte ad una vera e propria guerra.
Le favelas di Rio: le baraccopoli che nacquero da una guerra locale
All’origine delle favelas brasiliane ci sono il capo carismatico di una setta religiosa e una guerra locale. O, almeno, gli albori delle baraccopoli di Rio de Janeiro furono indirettamente dovuti a questi due elementi combinati. Siamo nel 1895, a ridosso della nascita della Repubblica brasiliana dopo la sconfitta della monarchia, nella regione di Bahia. Qui si era insediata una sacca di resistenza al nuovo Stato, capeggiata dal santone Antônio Conselheiro, un predicatore filomonarchico che aveva raccolto attorno a sé una folta schiera di ex contadini e ex schiavi, a cui aveva inculcato l’ossessione dell’origine demoniaca dei nuovi governanti del Brasile. La resistenza di Conselheiro e dei suoi seguaci durò quasi due anni, nei quali furono assediati dall’esercito regolare nella cosiddetta guerra di Canudos, nome della località occupata dai ribelli. I soldati brasiliani si attestarono su una collina, dove cresceva rigogliosa il Cnidosculus quercifolius, una pianta tipica della zona, dai locali chiamata «favela». La battaglia finì nel 1897 con la morte di Conselheiro, e la smobilitazione lasciò migliaia di soldati senza lavoro e senza tetto. Assieme agli ex schiavi la massa di diseredati mosse verso Rio de Janeiro, in cerca di fortuna. Qui iniziò a accamparsi in baraccamenti, nella zona collinare detta «Morro da Providencia», poi comunemente noto come «Morro da Favela» per la presenza dei reduci della guerra dei Canudos che avevano battezzato così la collina teatro dell’assedio. La favela del Morro da Providencia, costruita a ridosso del centro di Rio dopo che il governo aveva disatteso la promessa di provvedere alla sistemazione degli ex soldati, fu ingrossata negli anni successivi a causa della riforma urbanistica della allora capitale (sostituita da Brasilia nel 1960), voluta dal presidente Rodrigues Alves e dal sindaco Pereira Passos. La trasformazione di Rio sul modello europeo di Parigi portò alla demolizione di numerosi edifici popolari ne centro storico, per lasciare il posto alle grandi «avenue» che ricordavano la capitale francese. Ai suoi abitanti, non rimase che la collina della favela, che cresceva così senza piani regolatori e soprattutto senza alcun tipo di servizi. La situazione peggiorò ulteriormente con la crisi globale del 1929 e con la risposta del presidente populista Gètulio Vargas. Se la scelta dell’industrializzazione portò ad una forte crescita del Paese negli anni interbellici, determinò anche un massiccio esodo dalle campagne falcidiate dalla crisi dell’export dei prodotti agricoli. Il risultato fu un ulteriore ingrossamento delle popolazioni delle favelas di Rio, una sacca di forza lavoro per l’industria e i servizi della città trasferita da un’agricoltura che con la meccanizzazione richiedeva sempre meno addetti. L’urbanizzazione sregolata proseguì per tutti gli anni Cinquanta, ma nel 1960 Rio perse lo status di capitale, entrando in una fase di declino temporaneo. Nel 1964 un colpo di Stato portò al potere una giunta militare, che iniziò un programma di eradicazione forzata delle favelas per fare spazio a nuove costruzioni residenziali, una azione che porterà solo ad uno spostamento ancora più ai margini dell’area metropolitana del problema, acuito da una nuova urbanizzazione dovuta al periodo di crescita economica del Brasile. Alla fine del decennio, la politica di abbattimento delle baraccopoli di Rio fu abbandonata, lasciando una sacca di potenziale instabilità sociale. Negli anni Ottanta, la criminalità diventerà progressivamente la padrona delle favelas. L’origine dell’infiltrazione fu dovuta ad una interconnessione tra gli ex oppositori del regime ed il narcotraffico avvenuta nelle carceri di massima sicurezza. Il «Comando Vermelho» (comando rosso) inizialmente nato con intenti rivoluzionari nel contesto suburbano, si trasformò ben presto nel più potente gruppo criminale del Paese, radicandosi totalmente nelle favelas complice la fase di non intervento governativo seguita alla fine della dittatura. La guerra al narcotraffico delle Favelas prese piede negli anni Novanta, con violente operazioni di polizia, tra le quali spiccano quelle del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais), un Corpo d’élite della polizia militare, spesso criticato per l’uso indiscriminato della violenza. Per tutto il decennio e quello successivo le favelas carioca sono state un campo di battaglia. Tra gli scontri più famosi quello della favela del Complexo do Alemão nel 2010, dove si contarono oltre 50 morti accertati. Dal 2008 il governo ha introdotto nelle favelas le Unità di polizia pacificatrice (UPP-Unidades de Polìcia Pacificadora), per aumentare e mantenere il controllo sul territorio. Dopo i primi frutti positivi, a partire dal 2016 a causa della crisi economica e dei tagli il programma ha conosciuto un forte rallentamento, mentre le violenze incontrollate sono riprese con vigore dopo la pandemia di Covid-19. Un esempio sono stati i 28 morti della strage nella favela di Jacarezinho nel 2021. Ad oggi i dati stimano che in Brasile circa l’8% della popolazione sia costituito da «favelados».
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La criminalità a Rio de Janeiro è cresciuta sensibilmente nell'ultimo anno. La violenza predatoria non risparmia gli stranieri, con una media di quasi 10 turisti assaliti ogni giorno. Le origini e la storia delle favelas di Rio, le «megalopoli della miseria» in mano al crimine organizzato.Lo speciale contiene due articoli.Rio de Janeiro ha sempre rappresentato nell’immaginario collettivo un luogo di vacanza fra il mare e la foresta, sorvegliata dall’enorme statua del Cristo Re ed adagiata sulle mitiche spiagge di Ipanema e Copacabana. Oggi però la grande città brasiliana è diventata una metropoli pericolosa, con interi quartieri in mano a gang criminali che non permettono a nessuno di avvicinarsi al proprio territorio. Basta uscire dalle zone strettamente turistiche per rischiare la vita o addirittura perderla come è successo a due turisti nel dicembre scorso. Il primo caso riguarda un argentino che insieme alla sua famiglia era arrivato a Rio de Janeiro proprio per visitare la statua del Cristo Re e per un errore del suo Gps satellitare era finito in una favela, una delle baraccopoli della città dove vive circa il 20% degli abitanti. La sua auto era subito stata bersagliata da colpi di arma da fuoco e lui era stato ferito gravemente, morendo poi in ospedale alla fine di gennaio. Il secondo caso riguarda una giovane donna venuta da San Paolo, altra megalopoli brasiliana, che stava viaggiando su un’auto del servizio Uber che sarebbe entrata in un’area controllata dalle bande. La donna è stata colpita al collo ed è morta praticamente sul colpo. Episodi che si sono ripetuti ancora, ma fortunatamente senza vittime, ma filmati e pubblicati sui social con persone imploranti di non essere uccise solo per essere finite nel posto sbagliato. Victor dos Santos è Segretario della Sicurezza dello Stato di Rio De Janeiro e descrive un quadro a tinte fosche. «La guerra fra le bande criminali che si contendono il controllo del territorio si è molto intensificata nell’arco del 2024, i nostri dati parlano chiaro. Gli ingressi delle favelas sono presidiati da uomini armati che sparano sulle auto che non conoscono o che non rispettano il codice di condotta che le gang impongono. Pretendono che le auto entrino a 20 km orari, con tutti i finestrini abbassati e con le luci accese per essere certi che non si tratti di elementi di una banda rivale che vuole invadere il loro territorio. Questa situazione è frutto di errori politici del recente passato quando si è dato troppo potere alle cosiddette milizie, gruppi di paramilitari di ex poliziotti che controllavano i quartieri ed erano antagonisti dei narcotrafficanti. Con il tempo queste milizie si sono rivelate altrettanto pericolose per lo stato e la polizia ha iniziato a combatterli. Ma intanto le gang di narcotrafficanti come il famigerato Comando Vermelho hanno dilagato approfittando della guerra fra lo stato e le milizie. Ora dobbiamo combattere questi gruppi e colpirli economicamente perché non abbiamo più finanziamenti per comprare armi». Nell’autunno scorso è stato licenziato il Segretario della Polizia Civile Marcus Amim, perché ritenuto colpevole di inerzia davanti a questa terribile ondata di violenza, ma la situazione non è migliorata. I dati del Public Security Institute (ISP) mostrano notevoli aumenti di rapine in strada, furti di veicoli e furti di telefoni cellulari tra gennaio e dicembre 2024, in particolare nella Zona Sud , soprattutto in quartieri come Botafogo e Flamengo, due nomi che scaldano i cuori degli appassionati di calcio brasiliano. Percentuali che parlano di una crescita di quasi il 20% delle rapine a mano armata per il proliferare di armi in tutto lo stato di Rio de Janeiro, armi che finiscono in mano a criminali sempre più giovani. I crimini sono leggermente calati nelle zone a più alta densità turistica, perché fortemente presidiate dalla polizia brasiliana, ma il centro cittadino e tutte le aree periferiche sono terreno di scontro con le bande. Stando ai dati del 2023 i turisti vittime di crimini sono comunque stati circa 3500, con una media di 9,5 al giorno e nel 2022 si erano verificati gli omicidi di un cittadino statunitense e di un cileno, mentre una donna ucraina era stata accoltellata, senza riportare gravi conseguenze. Nell’ottobre del 2022 anche due turisti italiani, finiti per errore nella baraccopoli di Manguinhos, erano stati feriti da colpi di arma da fuoco. Insieme ad altri tre uomini stavano cercando un distributore di benzina, quando la loro auto è stata crivellata di colpi. I due sono rimasti feriti, ma sono riusciti ad allontanarsi rapidamente raggiungendo l’ospedale più vicino. Sono oltre due milioni gli abitanti di Rio che vivono in queste condizioni e le proteste contro il governo federale sono ormai all’ordine del giorno. In molti chiedono l’intervento dell’esercito, accusando la polizia di fare troppo poco per la popolazione, concentrando le forze soltanto nelle aree più ricche e frequentate dai turisti. Il presidente brasiliano Lula ha dichiarato che non intende dichiarare nessun tipo di stato d’emergenza per la situazione a Rio de Janeiro perchè la sua applicazione nel 2018 non aveva portato a nessun risultato. Lula si è detto pronto a lavorare con i governatori che chiedono misure d’emergenza, ma senza concedere eccessivi poteri alla polizia che potrebbe arrivare ad entrare nelle favelas soltanto per uccidere, senza una base giuridica. Il governo federale ha stanziato nuovi fondi per riorganizzare la sicurezza nello stato di Rio de Janeiro, ma le gang sembrano ormai padrone di interi quartieri e pronte ad una vera e propria guerra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/con-lula-peggiora-ancora-la-sicurezza-in-brasile-2671313708.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-favelas-di-rio-le-baraccopoli-che-nacquero-da-una-guerra-locale" data-post-id="2671313708" data-published-at="1741783530" data-use-pagination="False"> Le favelas di Rio: le baraccopoli che nacquero da una guerra locale All’origine delle favelas brasiliane ci sono il capo carismatico di una setta religiosa e una guerra locale. O, almeno, gli albori delle baraccopoli di Rio de Janeiro furono indirettamente dovuti a questi due elementi combinati. Siamo nel 1895, a ridosso della nascita della Repubblica brasiliana dopo la sconfitta della monarchia, nella regione di Bahia. Qui si era insediata una sacca di resistenza al nuovo Stato, capeggiata dal santone Antônio Conselheiro, un predicatore filomonarchico che aveva raccolto attorno a sé una folta schiera di ex contadini e ex schiavi, a cui aveva inculcato l’ossessione dell’origine demoniaca dei nuovi governanti del Brasile. La resistenza di Conselheiro e dei suoi seguaci durò quasi due anni, nei quali furono assediati dall’esercito regolare nella cosiddetta guerra di Canudos, nome della località occupata dai ribelli. I soldati brasiliani si attestarono su una collina, dove cresceva rigogliosa il Cnidosculus quercifolius, una pianta tipica della zona, dai locali chiamata «favela». La battaglia finì nel 1897 con la morte di Conselheiro, e la smobilitazione lasciò migliaia di soldati senza lavoro e senza tetto. Assieme agli ex schiavi la massa di diseredati mosse verso Rio de Janeiro, in cerca di fortuna. Qui iniziò a accamparsi in baraccamenti, nella zona collinare detta «Morro da Providencia», poi comunemente noto come «Morro da Favela» per la presenza dei reduci della guerra dei Canudos che avevano battezzato così la collina teatro dell’assedio. La favela del Morro da Providencia, costruita a ridosso del centro di Rio dopo che il governo aveva disatteso la promessa di provvedere alla sistemazione degli ex soldati, fu ingrossata negli anni successivi a causa della riforma urbanistica della allora capitale (sostituita da Brasilia nel 1960), voluta dal presidente Rodrigues Alves e dal sindaco Pereira Passos. La trasformazione di Rio sul modello europeo di Parigi portò alla demolizione di numerosi edifici popolari ne centro storico, per lasciare il posto alle grandi «avenue» che ricordavano la capitale francese. Ai suoi abitanti, non rimase che la collina della favela, che cresceva così senza piani regolatori e soprattutto senza alcun tipo di servizi. La situazione peggiorò ulteriormente con la crisi globale del 1929 e con la risposta del presidente populista Gètulio Vargas. Se la scelta dell’industrializzazione portò ad una forte crescita del Paese negli anni interbellici, determinò anche un massiccio esodo dalle campagne falcidiate dalla crisi dell’export dei prodotti agricoli. Il risultato fu un ulteriore ingrossamento delle popolazioni delle favelas di Rio, una sacca di forza lavoro per l’industria e i servizi della città trasferita da un’agricoltura che con la meccanizzazione richiedeva sempre meno addetti. L’urbanizzazione sregolata proseguì per tutti gli anni Cinquanta, ma nel 1960 Rio perse lo status di capitale, entrando in una fase di declino temporaneo. Nel 1964 un colpo di Stato portò al potere una giunta militare, che iniziò un programma di eradicazione forzata delle favelas per fare spazio a nuove costruzioni residenziali, una azione che porterà solo ad uno spostamento ancora più ai margini dell’area metropolitana del problema, acuito da una nuova urbanizzazione dovuta al periodo di crescita economica del Brasile. Alla fine del decennio, la politica di abbattimento delle baraccopoli di Rio fu abbandonata, lasciando una sacca di potenziale instabilità sociale. Negli anni Ottanta, la criminalità diventerà progressivamente la padrona delle favelas. L’origine dell’infiltrazione fu dovuta ad una interconnessione tra gli ex oppositori del regime ed il narcotraffico avvenuta nelle carceri di massima sicurezza. Il «Comando Vermelho» (comando rosso) inizialmente nato con intenti rivoluzionari nel contesto suburbano, si trasformò ben presto nel più potente gruppo criminale del Paese, radicandosi totalmente nelle favelas complice la fase di non intervento governativo seguita alla fine della dittatura. La guerra al narcotraffico delle Favelas prese piede negli anni Novanta, con violente operazioni di polizia, tra le quali spiccano quelle del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais), un Corpo d’élite della polizia militare, spesso criticato per l’uso indiscriminato della violenza. Per tutto il decennio e quello successivo le favelas carioca sono state un campo di battaglia. Tra gli scontri più famosi quello della favela del Complexo do Alemão nel 2010, dove si contarono oltre 50 morti accertati. Dal 2008 il governo ha introdotto nelle favelas le Unità di polizia pacificatrice (UPP-Unidades de Polìcia Pacificadora), per aumentare e mantenere il controllo sul territorio. Dopo i primi frutti positivi, a partire dal 2016 a causa della crisi economica e dei tagli il programma ha conosciuto un forte rallentamento, mentre le violenze incontrollate sono riprese con vigore dopo la pandemia di Covid-19. Un esempio sono stati i 28 morti della strage nella favela di Jacarezinho nel 2021. Ad oggi i dati stimano che in Brasile circa l’8% della popolazione sia costituito da «favelados».
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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Ansa
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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