2023-06-21
Con la riforma di Nordio rischia di saltare l’inchiesta sulle mascherine di Arcuri
La cancellazione dell’abuso d’ufficio impedirà di fare luce sulla truffa da oltre 1 miliardo di euro per i bavagli cinesi. E sulle assoluzioni i numeri non tornano.Era il 18 ottobre di due anni fa quando il premier Giorgia Meloni pronunciava parole di fuoco sull’inchiesta che vede coinvolto l’ex commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri: «Dopo mesi e mesi di denunce, e curiosamente appena finisce la campagna elettorale, apprendiamo che Arcuri è indagato per abuso d’ufficio e peculato nell’ambito dell’inchiesta riguardante l’acquisto di mascherine.Eppure un corposo dossier con le troppe anomalie della gestione commissariale era stato presentato da Fratelli d’Italia già molti mesi fa», aveva dichiarato l’allora leader dell’opposizione. Che aveva poi concluso: «Si facciano presto luce e chiarezza sulle tante zone d’ombra che hanno caratterizzato la gestione della pandemia ad opera dell’uomo voluto da Pd e M5s. Gli italiani meritano di sapere la verità». Meno di due anni, ma sembra passato un secolo, visto che quel procedimento penale, per cui, nell’ottobre scorso, è stato chiesto il rinvio a giudizio (l’udienza preliminare è fissata per il 15 settembre), è destinato a essere spazzato via dalla riforma della giustizia varata dal governo Meloni. Su quella vicenda, 800 milioni di mascherine costate 1,2 miliardi di euro, che hanno fruttato ai mediatori (indagati per traffico di influenze) provvigioni per almeno 78 milioni di euro, cadrà infatti la scure della riforma varata dal Guardasigilli Carlo Nordio. La posizione di Arcuri, rimasto sotto inchiesta solo per il presunto abuso d’ufficio, con la cancellazione del reato dal codice penale si chiuderà con un non luogo a procedere «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato». Ricordiamo come, secondo i pm capitolini, Arcuri in concorso con il suo collaboratore Antonio Fabbrocini e con un imprenditore, «concedendo alle società cinesi intermediate da Tommasi (Vincenzo, uno dei mediatori, ndr) anticipazioni dei pagamenti a carico di merce in Cina, prima di ogni verifica in Italia sulla qualità delle forniture e validità dei documenti di accompagnamento», di fatto, favoriva lo stesso Tommasi, perché «a tutti gli altri importatori italiani si negavano anticipazioni dei pagamenti, imponendo loro di acquistare, a proprio carico, i dispositivi da fornirsi, con pagamento a verifica della merce in Italia». Su queste accuse, non potrà più esserci quella «luce e chiarezza» che il presidente del Consiglio chiedeva soltanto venti mesi fa. E anche la posizione dei mediatori, grazie all’indebolimento del reato di traffico di influenze, che prevede che la mediazione sarà illecita solo se sarà finalizzata a far compiere un reato a un pubblico ufficiale, diventa molto più tranquilla. In sintesi, di tutta la vicenda, l’unico capo d’accusa che potrebbe forse rimanere in piedi è la frode in pubbliche forniture, sempre più difficile da accertare, visto il tempo trascorso nei magazzini dalle mascherine sequestrate, che in molti casi hanno già superato la data di scadenza che garantisce l’affidabilità del prodotto. Secondo Paolo Ielo, il procuratore aggiunto di Roma titolare dell’inchiesta su Arcuri, la cancellazione dell’abuso d’ufficio rappresenta «il via libera ai faccendieri». Va detto che l’abuso d’ufficio è sempre stato un reato indigesto per la classe politica del nostro Paese. La prima riforma, che lo trasformò da reato di pericolo in reato di danno, stringendo notevolmente il raggio d’azione dei pm, risale al lontano 1997. Una riforma non priva di strascichi polemici, poiché l’allora premier Romano Prodi era indagato proprio per abuso d’ufficio, in relazione alla vendita della Cirio-Bertolli-De Rica, portata avanti dal Professore quando era presidente dell’Iri. L’inchiesta si concluse con un non luogo a procedere al momento dell’udienza preliminare, «perché il fatto non sussiste». II gup Eduardo Landi citò, però, nelle motivazioni anche la riforma dell’abuso d’ufficio, varata pochi mesi prima (il 10 luglio) su iniziativa dell’Ulivo e votata anche dalla coalizione di centrodestra allora all’opposizione. Dal 1997 al 2022, secondo un documento interno del dipartimento per gli Affari di giustizia del ministero, i provvedimenti di condanna per abuso d’ufficio «iscritti al casellario» e quindi definitivi, sono stati 3.623, una media di 144 all’anno, ma con un calo vertiginoso nell’ultimo periodo. Dai 546 casi del 1997, seguiti l’anno successivo da 572 condanne definitive, dal 2005 in poi la cifra ha sfiorato o superato di poco le 100 condanne all’anno. Con un crollo a partire dal 2020, anno dell’ulteriore riforma: 44 condanne, seguite da 40 nel 2021 e solo 6 nel 2022. Anche i dati dei procedimenti andati a sentenza davanti al Tribunale ordinario negli ultimi 5 anni fanno apparire la riforma approvata nel 2020 (quando sulla poltrona di ministro sedeva il grillino Alfonso Bonafede), come uno spartiacque, anche se i numeri sono molto diversi da quelli sbandierati in questi giorni su tv e giornali, dove c’è chi ha parlato del 99 per cento di assoluzioni. Non è così, anche se la norma è scritta malissimo. Nel 2017 sono state emesse 465 sentenze, di cui 66 condanne (14,19%), 257 assoluzioni (55,27%), 121 prescrizioni (26,02%).Nel 2018 le sentenze sono state 492, di cui 54 condanne (10,98%), 279 assoluzioni (56,71%), 126 prescrizioni (25,61%). Nel 2019 su 424 sentenze, abbiamo avuto 54 condanne (12,74%), 235 assoluzioni (55,42%) e 114 prescrizioni (26,89%).Nel 2020, anno del lockdown, il numero delle sentenze è leggermente calato (367), ma le percentuali non sono cambiate di molto: 37 condanne (10,08%), 200 assoluzioni (54,50%), 115 prescrizioni (31,34%). Nel 2021, primo anno dopo la riforma, sono state invece emesse (il ministero specifica che il dato è provvisorio) 455 sentenze, con un calo evidente delle condanne, 18 (3,96%), affiancate da 256 assoluzioni (56,26%) e 152 prescrizioni (33,41%). Una diminuzione che potrebbe, però, essere fisiologica, in virtù della modifica del reato, che ha influito sui procedimenti in corso. In ogni caso si tratta di percentuali più alte di quelle, come detto, circolate in questi giorni, che comunque non tenevano conto di un dettaglio specificato dalla nota metodologica dei file predisposti dagli uffici del ministero della Giustizia: «Nei procedimenti aventi più indagati/imputati è stato attribuito un solo esito». Tradotto, non è dato sapere quanti siano gli imputati condannati, o assolti, o prescritti, ma solo il numero di sentenze con un esito univoco per tutti gli imputati.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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