2022-05-13
Con Chiello la Signora perde il suo bodyguard
Brutto, sporco e cattivo, ma così dannatamente efficace nell’annullare i guizzi dei più forti attaccanti d’Europa. Giorgio Chiellini dice addio alla Juve, e la serie A perde uno degli ultimi difensori vecchia scuola. Che sul campo sono degli insostituibili «figli di p...».«Come può uno scoglio/arginare il mare». Non è poi così difficile, basta chiamarsi Giorgio Chiellini. Senza saperlo è nato per smentire Lucio Battisti. Per fermare, annientare, vaporizzare onde e mareggiate avversarie; una barriera corallina con la maglia della Juventus e della Nazionale che per 17 anni è stata il simbolo del «primo non prenderle» di antica e gloriosa scuola italiana. Dopo l’esclusione dell’Italia dai Mondiali e la sconfitta in finale di Coppa Italia contro l’Inter, il guerriero pisano con il naso da sparring partner ha detto basta. A 37 anni forse andrà a raccogliere qualche milione a Los Angeles o forse no, ma con il pallone che conta chiude qui. «Ora tocca ai giovani, io credo di avere dato tanto e spero di avere trasmesso loro i valori di questo club e non solo. Grinta, attaccamento alla maglia e la forza di non arrendersi mai: ho fatto tutto quello che dovevo fare, è il momento giusto per andarmene. In futuro vorrei fare il dirigente, ma c’è tempo per pensarci». È un testamento sportivo, è l’attacco di un blues che nessuno merita quanto il difensore sgraziato e imbattibile che gli juventini hanno amato e gli avversari odiato, presupposto per essere un simbolo. In un calcio condizionato dai Pep Guardiola che predicano arrembaggi permanenti e colpi di tacco, Chiellini è l’ultimo dei rivoluzionari, un arcitaliano capace di trasformare la rupture in un’arte. Alla fine della corsa ci lascia anche una frase nicciana da scolpire sulle magliette dei difensori del futuro: «Distruggere è un atto creativo». Quando arriva alla Juventus dal Livorno trova il suo maestro di campo, Fabio Cannavaro. Lo osserva, lo copia, impara a marcare gli avversari «entrandogli nelle mutande» come ordinava Nereo Rocco. E sull’umiltà, lo spirito di sacrificio, l’abnegazione e la furbizia costruisce una carriera da grande giocatore. In carriera vince tutto in Italia: nove scudetti, cinque coppe nazionali, cinque Supercoppe. Gioca due finali di Champions, il grande rimpianto di un intero popolo.Comincia da terzino, si impone da centrale accanto a un regista arretrato come Leonardo Bonucci (il braccio e la mente), diventa un baluardo della Nazionale. È un numero uno da calciatore e non solo, ottiene la laurea magistrale in economia e costruisce una famiglia che protegge e racconta con delicati post su Instagram. Impetuoso in campo, è riservato fuori, con il fratello gemello come procuratore e una sorella che gioca a calcio in Spagna. Per lui l’aggressività è tutto: fisicità estrema, recuperi brutali, gran colpo di testa (che gli vale salvataggi impossibili, gol decisivi e fasciature). Parli di Chiellini e pensi alla genia dei carcerieri di valore, Jaap Stam, Walter Samuel, Claudio Gentile, il terrificante e insuperabile Hans Georg Schwarzenbeck degli anni 70. C’è un energumeno in città, lui si racconta così. «Il contatto fisico con l’attaccante è la cosa che cerco maggiormente perché esalta le mie qualità. Con giocatori più rapidi cerco di partire un secondo prima e di non giocare a campo aperto. Gli avversari li devi conoscere, a certi livelli devi studiare. I miei punti di forza? L’uno contro uno e la marcatura sull’uomo, giocando di posizione e sfruttando la fisicità per impedire all’avversario di segnare. La marcatura è sicuramente la mia dote principale». Con Antonio Conte affina la tecnica, con Max Allegri diventa un monumento. Una vita da guerriero, un ruolo perfezionato ogni giorno in allenamento. È il suo compagno Alvaro Morata a fotografarlo con impietoso realismo: «Giocare contro Chiellini è come entrare nella gabbia di un gorilla per prendergli il cibo. Arriva una botta, un’altra botta e un’altra ancora».Lui si esalta nella battaglia, gode quando il castello sta per crollare. Allora la squadra si affida alla sua cattiveria agonistica e i tifosi impazziscono. Due flash lo accompagneranno sempre. 1) Ai mondiali brasiliani del 2014 il sanguigno pistolero uruguagio Luis Suarez, esasperato dalla sua marcatura, lo morde sulla spalla. Chiellini racconta nell’autobiografia: «Ci siamo sentiti due giorni dopo, non c’era bisogno di chiedermi scusa. Lo stimo, anch’io in campo sono un figlio di puttana». 2) L’estate scorsa, all’ultimo minuto della finale degli Europei, l’inglese Bukayo Saka parte in contropiede. È scattante il doppio, se prende velocità può fare gol; Giorgione gli artiglia il colletto della maglia, lo mette giù come un wrestler, viene ammonito ma salva i rigori e la coppa. È la quintessenza del fallo tattico. «Se fai il mio mestiere devi essere un pessimista e pensare che un tuo compagno può perdere la palla, un avversario può saltarlo. Devi essere pronto all’anticipo o all’intervento anche quando sei stanchissimo, tutto parte dalla testa». Il suo erede naturale è Mathijs De Ligt, cresciuto in modo esponenziale da quando gioca con lui, anche se deve imparare a nascondere al mondo (soprattutto agli arbitri) i trucchi del mestiere. In questo Milan Skriniar e Gleison Bremer sono più avanti. In nome della filosofia di calcio muscolare, Chiellini non ha mai amato i fiorettisti tranne uno, Francesco Totti. «Immarcabile, meritava il pallone d’oro. Non capisco come abbiano potuto darlo a giocatori solo bravi come Andrij Shevchenko e Michael Owen». Parco di parole inutili, juventino fin nel midollo, mancherà allo spogliatoio perché è un uomo leale, dal pensiero forte. Lascia in eredità una frase che dovrà essere la pietra angolare della ripartenza. «La rabbia di aver perso tre partite su quattro con l’Inter deve forgiare il carattere per la prossima stagione». Per un combattente come lui inginocchiarsi davanti agli avversari per sceneggiate alla Black Lives Matter è incomprensibile. Agli Europei la moda dilagava, così il marine azzurro, teorico della distruzione creativa, si sentì in dovere di spiegare: «Combatteremo il nazismo in altri modi». La gaffe gli costò un meme surreale: lui in cima al Reichstag in fiamme al posto del soldato russo nella celebre foto. Non lo ammetterà mai mentre si avvia verso il tramonto, ma sotto sotto quell’immagine gli piace.