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2022-06-11
Comuni, le sfide calde. Chi non fa alleanze conta sui ballottaggi
Quasi 9 milioni di italiani chiamati alle urne: domani, domenica 12 giugno, dalle 7 alle 23 si vota per eleggere i sindaci e rinnovare i consigli comunali di 978 Comuni, tra i quali 22 capoluoghi di provincia (Alessandria, Asti, Barletta, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lodi, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Verona, Viterbo) e quattro capoluoghi anche di Regione: Genova, Palermo, Catanzaro e L’Aquila. I Comuni con più di 15.000 abitanti, nei quali si andrà al ballottaggio tra i primi due candidati domenica 26 giugno se nessuno otterrà il 50% più uno dei voti, sono 142. Per i Comuni con meno di 15.000 abitanti queste amministrative introducono una novità: se alle elezioni risulta ammessa una sola lista, e fermo restando che i voti validi all’unica lista ammessa non devono essere inferiori al 50% dei votanti, sarà sufficiente che il numero dei votanti non sia inferiore al 40% degli elettori.
Passiamo sinteticamente in rassegna le sfide principali. A Genova i candidati sono 7: i favoriti sono il sindaco uscente Marco Bucci, sostenuto dal centrodestra, da Carlo Calenda e Matteo Renzi, e Ariel Dello Strologo, alla guida di una coalizione giallorossa con Pd, M5s e altre liste di sinistra; giallorossi compatti anche a Catanzaro, a sostegno di Nicola Fiorita, mentre il centrodestra si divide: Valerio Donato è sostenuto da Forza Italia, Lega, Italia viva e Udc mentre Fratelli d’Italia tenta la corsa in solitaria candidando Wanda Ferro. A L’Aquila in gara il sindaco uscente di centrodestra, Pierluigi Biondi, che sfida la senatrice del Pd Stefania Pezzopane, sostenuta anche dal M5s. A Palermo, dopo un lungo tira e molla, il centrodestra ha trovato l’intesa su Francesco Lagalla, mentre Pd e M5s schierano Franco Miceli e Azione di Calenda e +Europa di Emma Bonino sostengono Fabrizio Ferrandelli.
Il doppio turno finisce come di consueto per agevolare le spaccature interne alle coalizioni, che poi di solito si riuniscono al ballottaggio, e così, oltre che a Catanzaro, il centrodestra si presenta diviso anche a Verona, Parma e Viterbo. A Verona l’altro ieri sera c’è stato finalmente un abbraccio pubblico tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini: Lega e Fratelli d’Italia sostengono la ricandidatura del sindaco uscente Federico Sboarina, insieme ai centristi dell’Udc, Noi con l’Italia e alla lista del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Forza Italia invece si è schierata con l’ex sindaco Flavio Tosi, mentre il centrosinistra sostiene l’ex calciatore Damiano Tommasi (ma il M5s non ha presentato la lista).
Centrodestra diviso pure a Parma, dove i cittadini sono chiamati a eleggere il nuovo sindaco dopo i due mandati Federico Pizzarotti, eletto nel 2012 con il M5s e poi di nuovo nel 2017 come civico. Pizzarotti e il Pd sostengono Michele Guerra, Forza Italia e Lega schierano l’ex sindaco Pietro Vignali, mentre Fratelli d’Italia candida Priamo Bocchi. Il M5s non ha presentato la lista. A Viterbo, Fdi schiera Laura Allegrini; Lega, Udc e un pezzo di Forza Italia sostengono Claudio Ubertini; Italexit appoggia Marco Cardona e per finire Chiara Frontini ha il sostegno di Rinascimento di Vittorio Sgarbi e alcune civiche di area moderata. I giallorossi sostengono Alessandra Troncarelli.
Frantumato il centrosinistra (o campo largo, o giallorossi, come preferite): solo in 18 capoluoghi su 26 Pd e M5s sono compatti a sostegno dello stesso candidato a sindaco. Il crollo più vistoso è quello dei pentastellati guidati da Giuseppe Conte, che in moltissimi Comuni non schierano il simbolo (i casi più clamorosi sono Parma e Verona) e vedono i loro militanti sparpagliati in varie civiche. Il M5s non presenta il simbolo neanche a Lucca, mentre a Cuneo corre da solo con Silvia Cina che sfida la candidata di Pd e centrosinistra Patrizia Manassero. Per comprendere immediatamente la situazione disastrosa del M5s, basta pensare che in Sicilia, un tempo granaio elettorale dei grillini, Conte è riuscito a presentare la lista in coalizione con il Pd solo in 3 Comuni su 120 (Palermo, Messina e Scordia in provincia di Catania). A proposito di Messina: qui la Lega, con il simbolo Prima l’Italia, sostiene Federico Basile mentre il resto del centrodestra appoggia Federico Croce. Basile è il candidato dell’ex sindaco Cateno De Luca, in corsa per le regionali del prossimo autunno. Regionali che rappresentano un nodo intricato da sciogliere per il centrodestra: Fratelli d’Italia spinge per la ricandidatura del governatore Nello Musumeci, ma la Lega fa muro. Nel 2023, invece, si svolgeranno invece le regionali in Lombardia. Ieri Carlo Calenda, leader di Azione, ha sparigliato le carte: «Ci sono persone di grandissima qualità», ha detto Calenda, «anche nel campo avverso: Letizia Moratti sarebbe un’ottima candidata a fare il presidente della Regione. Lo farebbe molto bene». La Moratti ha ringraziato Calenda, aggiungendo che «ci sono diverse ipotesi e riflessioni in corso». Il governatore Attilio Fontana, in corsa per la ricandidatura, si è limitato a una battuta: «Vuol dire che Carlo Calenda chiederà di entrare nel centrodestra, e la cosa mi fa piacere».
Giustizia, corsa all’ultimo votante. Ma l’obiettivo quorum resta difficile
Sarà una corsa all’ultimo voto. O meglio: all’ultimo votante. Stiamo parlando dei cinque referendum sulla giustizia, per i quali l’attenzione domani sarà concentrata sull’affluenza ai seggi. Trattandosi di un referendum abrogativo e non di un referendum costituzionale, affinché sia valida, la consultazione ha bisogno che vi prendano parte la metà più uno degli aventi diritto al voto. Da questo punto di vista, la concomitanza con le elezioni amministrative in numerosi comuni può certamente rappresentare un aiuto, ma l’obiettivo resta comunque difficile. Anche perché i seggi saranno aperti una sola giornata, dalle 7 alle 23, a differenza che in altre occasioni, quando si è votato per due giorni o in periodi dell’anno meno soggetti alla tentazione balneare. Ad alleggerire il fardello per chi sta tentando di raggiungere il quorum, è arrivata in extremis la revoca dell’obbligo di mascherina nei seggi, inizialmente previsto da una circolare congiunta del ministero dell’Interno e della Salute e poi caduto in seguito alle proteste della Lega.
Quanto ai quesiti, come è noto riguardano tutti la giustizia, visto che a suo tempo la Consulta dichiarò non ammissibili quelli sulla legalizzazione della cannabis e sull’eutanasia. Giova ricordare che nei referendum abrogativi all’elettore si chiede se vuole mantenere o cancellare una legge o parte di essa, per cui chi è favorevole alla modifica deve barrare il sì, mentre chi vuole conservare lo status quo deve barrare il no.
Il primo (scheda rossa) riguarda la legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza dalle cariche pubbliche anche in assenza di una condanna definitiva: votando sì a decidere l’interdizione dai pubblici uffici per il politico condannato non in via definitiva sarebbe il giudice, valutando caso per caso senza alcun automatismo. Il secondo quesito (scheda arancione) riguarda la custodia cautelare e il suo possibile abuso: se prevarranno i sì questa non potrà più applicarsi per il rischio di reiterazione del reato, con l’eccezione di reati che prevedono l’uso della violenza o delle armi oppure legati alla criminalità organizzata. Il terzo quesito (scheda gialla) è quello sulla separazione dei ruoli per i magistrati. Chi non vuole che le toghe possano passare dal ruolo di giudice a quello di pm e viceversa, ma che facciano una scelta definitiva a inizio carriera, dovranno votare sì. Riguarda invece i criteri di valutazione dei magistrati il quarto quesito, quello con la scheda grigia: qui la vittoria del sì permetterebbe anche ai professori universitari e agli avvocati facenti parte dei Consigli giudiziari di esprimere il proprio parere sull’operato delle toghe. Infine, il quinto quesito (scheda verde) interviene sul sistema elettorale del Csm. Se vincerà il sì, un magistrato che volesse candidarsi non avrebbe bisogno di essere supportato da almeno 25 colleghi, di norma riferibili a una corrente.
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Nove milioni di italiani alle urne. Carlo Calenda mette un piede nel campo del centrodestra e lancia Letizia Moratti in Lombardia.Cinque referendum abrogativi per riformare un sistema ingessato ormai da decenni.Lo speciale contiene due articoli.Quasi 9 milioni di italiani chiamati alle urne: domani, domenica 12 giugno, dalle 7 alle 23 si vota per eleggere i sindaci e rinnovare i consigli comunali di 978 Comuni, tra i quali 22 capoluoghi di provincia (Alessandria, Asti, Barletta, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lodi, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Verona, Viterbo) e quattro capoluoghi anche di Regione: Genova, Palermo, Catanzaro e L’Aquila. I Comuni con più di 15.000 abitanti, nei quali si andrà al ballottaggio tra i primi due candidati domenica 26 giugno se nessuno otterrà il 50% più uno dei voti, sono 142. Per i Comuni con meno di 15.000 abitanti queste amministrative introducono una novità: se alle elezioni risulta ammessa una sola lista, e fermo restando che i voti validi all’unica lista ammessa non devono essere inferiori al 50% dei votanti, sarà sufficiente che il numero dei votanti non sia inferiore al 40% degli elettori.Passiamo sinteticamente in rassegna le sfide principali. A Genova i candidati sono 7: i favoriti sono il sindaco uscente Marco Bucci, sostenuto dal centrodestra, da Carlo Calenda e Matteo Renzi, e Ariel Dello Strologo, alla guida di una coalizione giallorossa con Pd, M5s e altre liste di sinistra; giallorossi compatti anche a Catanzaro, a sostegno di Nicola Fiorita, mentre il centrodestra si divide: Valerio Donato è sostenuto da Forza Italia, Lega, Italia viva e Udc mentre Fratelli d’Italia tenta la corsa in solitaria candidando Wanda Ferro. A L’Aquila in gara il sindaco uscente di centrodestra, Pierluigi Biondi, che sfida la senatrice del Pd Stefania Pezzopane, sostenuta anche dal M5s. A Palermo, dopo un lungo tira e molla, il centrodestra ha trovato l’intesa su Francesco Lagalla, mentre Pd e M5s schierano Franco Miceli e Azione di Calenda e +Europa di Emma Bonino sostengono Fabrizio Ferrandelli.Il doppio turno finisce come di consueto per agevolare le spaccature interne alle coalizioni, che poi di solito si riuniscono al ballottaggio, e così, oltre che a Catanzaro, il centrodestra si presenta diviso anche a Verona, Parma e Viterbo. A Verona l’altro ieri sera c’è stato finalmente un abbraccio pubblico tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini: Lega e Fratelli d’Italia sostengono la ricandidatura del sindaco uscente Federico Sboarina, insieme ai centristi dell’Udc, Noi con l’Italia e alla lista del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Forza Italia invece si è schierata con l’ex sindaco Flavio Tosi, mentre il centrosinistra sostiene l’ex calciatore Damiano Tommasi (ma il M5s non ha presentato la lista).Centrodestra diviso pure a Parma, dove i cittadini sono chiamati a eleggere il nuovo sindaco dopo i due mandati Federico Pizzarotti, eletto nel 2012 con il M5s e poi di nuovo nel 2017 come civico. Pizzarotti e il Pd sostengono Michele Guerra, Forza Italia e Lega schierano l’ex sindaco Pietro Vignali, mentre Fratelli d’Italia candida Priamo Bocchi. Il M5s non ha presentato la lista. A Viterbo, Fdi schiera Laura Allegrini; Lega, Udc e un pezzo di Forza Italia sostengono Claudio Ubertini; Italexit appoggia Marco Cardona e per finire Chiara Frontini ha il sostegno di Rinascimento di Vittorio Sgarbi e alcune civiche di area moderata. I giallorossi sostengono Alessandra Troncarelli.Frantumato il centrosinistra (o campo largo, o giallorossi, come preferite): solo in 18 capoluoghi su 26 Pd e M5s sono compatti a sostegno dello stesso candidato a sindaco. Il crollo più vistoso è quello dei pentastellati guidati da Giuseppe Conte, che in moltissimi Comuni non schierano il simbolo (i casi più clamorosi sono Parma e Verona) e vedono i loro militanti sparpagliati in varie civiche. Il M5s non presenta il simbolo neanche a Lucca, mentre a Cuneo corre da solo con Silvia Cina che sfida la candidata di Pd e centrosinistra Patrizia Manassero. Per comprendere immediatamente la situazione disastrosa del M5s, basta pensare che in Sicilia, un tempo granaio elettorale dei grillini, Conte è riuscito a presentare la lista in coalizione con il Pd solo in 3 Comuni su 120 (Palermo, Messina e Scordia in provincia di Catania). A proposito di Messina: qui la Lega, con il simbolo Prima l’Italia, sostiene Federico Basile mentre il resto del centrodestra appoggia Federico Croce. Basile è il candidato dell’ex sindaco Cateno De Luca, in corsa per le regionali del prossimo autunno. Regionali che rappresentano un nodo intricato da sciogliere per il centrodestra: Fratelli d’Italia spinge per la ricandidatura del governatore Nello Musumeci, ma la Lega fa muro. Nel 2023, invece, si svolgeranno invece le regionali in Lombardia. Ieri Carlo Calenda, leader di Azione, ha sparigliato le carte: «Ci sono persone di grandissima qualità», ha detto Calenda, «anche nel campo avverso: Letizia Moratti sarebbe un’ottima candidata a fare il presidente della Regione. Lo farebbe molto bene». La Moratti ha ringraziato Calenda, aggiungendo che «ci sono diverse ipotesi e riflessioni in corso». Il governatore Attilio Fontana, in corsa per la ricandidatura, si è limitato a una battuta: «Vuol dire che Carlo Calenda chiederà di entrare nel centrodestra, e la cosa mi fa piacere».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/comuni-le-sfide-calde-chi-non-fa-alleanze-conta-sui-ballottaggi-2657494395.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giustizia-corsa-allultimo-votante-ma-lobiettivo-quorum-resta-difficile" data-post-id="2657494395" data-published-at="1654930939" data-use-pagination="False"> Giustizia, corsa all’ultimo votante. Ma l’obiettivo quorum resta difficile Sarà una corsa all’ultimo voto. O meglio: all’ultimo votante. Stiamo parlando dei cinque referendum sulla giustizia, per i quali l’attenzione domani sarà concentrata sull’affluenza ai seggi. Trattandosi di un referendum abrogativo e non di un referendum costituzionale, affinché sia valida, la consultazione ha bisogno che vi prendano parte la metà più uno degli aventi diritto al voto. Da questo punto di vista, la concomitanza con le elezioni amministrative in numerosi comuni può certamente rappresentare un aiuto, ma l’obiettivo resta comunque difficile. Anche perché i seggi saranno aperti una sola giornata, dalle 7 alle 23, a differenza che in altre occasioni, quando si è votato per due giorni o in periodi dell’anno meno soggetti alla tentazione balneare. Ad alleggerire il fardello per chi sta tentando di raggiungere il quorum, è arrivata in extremis la revoca dell’obbligo di mascherina nei seggi, inizialmente previsto da una circolare congiunta del ministero dell’Interno e della Salute e poi caduto in seguito alle proteste della Lega. Quanto ai quesiti, come è noto riguardano tutti la giustizia, visto che a suo tempo la Consulta dichiarò non ammissibili quelli sulla legalizzazione della cannabis e sull’eutanasia. Giova ricordare che nei referendum abrogativi all’elettore si chiede se vuole mantenere o cancellare una legge o parte di essa, per cui chi è favorevole alla modifica deve barrare il sì, mentre chi vuole conservare lo status quo deve barrare il no. Il primo (scheda rossa) riguarda la legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza dalle cariche pubbliche anche in assenza di una condanna definitiva: votando sì a decidere l’interdizione dai pubblici uffici per il politico condannato non in via definitiva sarebbe il giudice, valutando caso per caso senza alcun automatismo. Il secondo quesito (scheda arancione) riguarda la custodia cautelare e il suo possibile abuso: se prevarranno i sì questa non potrà più applicarsi per il rischio di reiterazione del reato, con l’eccezione di reati che prevedono l’uso della violenza o delle armi oppure legati alla criminalità organizzata. Il terzo quesito (scheda gialla) è quello sulla separazione dei ruoli per i magistrati. Chi non vuole che le toghe possano passare dal ruolo di giudice a quello di pm e viceversa, ma che facciano una scelta definitiva a inizio carriera, dovranno votare sì. Riguarda invece i criteri di valutazione dei magistrati il quarto quesito, quello con la scheda grigia: qui la vittoria del sì permetterebbe anche ai professori universitari e agli avvocati facenti parte dei Consigli giudiziari di esprimere il proprio parere sull’operato delle toghe. Infine, il quinto quesito (scheda verde) interviene sul sistema elettorale del Csm. Se vincerà il sì, un magistrato che volesse candidarsi non avrebbe bisogno di essere supportato da almeno 25 colleghi, di norma riferibili a una corrente.
Volodymyr Zelensky e Giorgia Meloni (Ansa)
Il tour europeo di Volodymyr Zelensky è passato anche dall’Italia. Ieri, il presidente ucraino era infatti a Roma, dove, nel pomeriggio, è stato ricevuto per un’ora e mezza a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni.
«Nel corso dell’incontro, i due leader hanno analizzato lo stato di avanzamento del processo negoziale e condiviso i prossimi passi da compiere per il raggiungimento di una pace giusta e duratura per l’Ucraina», recita una nota di Palazzo Chigi. «I due leader hanno inoltre ricordato l’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e americani e del contributo europeo a soluzioni che avranno ripercussioni sulla sicurezza del continente», prosegue il comunicato, secondo cui i due leader hanno anche discusso delle garanzie di sicurezza per Kiev. «Ho incontrato la presidente del Consiglio dei ministri italiana Giorgia Meloni a Roma. Abbiamo avuto un ottimo colloquio, molto approfondito su tutti gli aspetti della situazione diplomatica. Apprezziamo il fatto che l’Italia sia attiva nella ricerca di idee efficaci e nella definizione di misure per avvicinare la pace», ha dichiarato il presidente ucraino al termine del bilaterale. «Ho informato il presidente del lavoro del nostro team negoziale e del coordinamento diplomatico», ha proseguito Zelensky, per poi aggiungere: «Contiamo molto sul sostegno italiano anche in futuro: è importante per l’Ucraina. Vorrei ringraziare in modo particolare per il pacchetto di sostegno energetico e le attrezzature necessarie».
Sempre ieri, in mattinata, il presidente ucraino è stato ricevuto a Castel Gandolfo da Leone XIV, in quello che è stato il secondo incontro tra i due. «Durante il cordiale colloquio, il quale ha avuto al centro la guerra in Ucraina, il Santo Padre ha ribadito la necessità di continuare il dialogo e rinnovato il pressante auspicio che le iniziative diplomatiche in corso possano portare ad una pace giusta e duratura», recita una nota della Santa Sede. «Inoltre, non è mancato il riferimento alla questione dei prigionieri di guerra e alla necessità di assicurare il ritorno dei bambini ucraini alle loro famiglie», si legge ancora. «L’Ucraina apprezza profondamente tutto il sostegno di Sua Santità Leone XIV e della Santa Sede», ha affermato, dal canto suo, Zelensky. «Durante l’udienza di oggi con Sua Santità, l’ho ringraziato per le sue costanti preghiere a favore dell’Ucraina e del popolo ucraino, nonché per i suoi appelli a favore di una pace giusta. Ho informato il papa degli sforzi diplomatici con gli Stati Uniti per raggiungere la pace. Abbiamo discusso di ulteriori azioni e della mediazione del Vaticano volta a restituire i nostri figli rapiti dalla Russia», ha aggiunto. «Ho invitato il papa a visitare l’Ucraina. Questo sarebbe un forte segnale di sostegno al nostro popolo», ha concluso il presidente ucraino.
Ricordiamo che, lunedì, Zelensky aveva incontrato a Londra Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. Sempre lunedì, il presidente ucraino si era inoltre visto a Bruxelles con il segretario generale della Nato, Mark Rutte, in un meeting a cui avevano partecipato anche il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa.
Il tour europeo del presidente ucraino è avvenuto in un momento particolarmente delicato per lui. Innanzitutto, il diretto interessato è indebolito dallo scandalo che ha recentemente investito Andrii Yermak: proprio ieri, secondo il Kyiv Independent, Zelensky avrebbe individuato la rosa di nomi da cui sceglierà il suo successore come capo dell’Ufficio presidenziale di Kiev (dal direttore dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, al ministro della Difesa, Denys Shmyhal). La caduta di Yermak ha fiaccato il potere negoziale del leader ucraino, mentre da Washington continuano ad arrivare pressioni affinché si tengano presto delle elezioni presidenziali in Ucraina. «Sono sempre pronto alle elezioni», ha detto ieri Zelensky, rispondendo indirettamente a Donald Trump che, parlando con Politico, era tornato a chiedere una nuova consultazione elettorale.
E qui arriviamo al secondo nodo. I rapporti tra Zelensky e la Casa Bianca sono tornati a farsi tesi. Nei giorni scorsi, il presidente americano si è infatti detto «deluso» dall’omologo ucraino. «Devo dire che sono un po’ deluso dal fatto che il presidente Zelensky non abbia ancora letto la proposta di pace, era solo poche ore fa», aveva detto Trump. A questo si aggiunga che, sempre negli ultimi giorni, l’inquilino della Casa Bianca ha criticato notevolmente l’Europa. «L’Europa non sta facendo un buon lavoro sotto molti aspetti», ha per esempio affermato nella sua recente intervista a Politico. Se da una parte cerca la sponda europea come copertura politica davanti alle tensioni tra Kiev e Washington, Zelensky non può però al contempo ignorare le fibrillazioni che si registrano tra gli Stati Uniti e il Vecchio Continente. È quindi probabilmente anche in questo senso che va letta la visita romana del presidente ucraino. In altre parole, non si può escludere che Zelensky punti a far leva sui solidi rapporti che intercorrono tra Trump e la Meloni per cercare di riportare (almeno in parte) il sereno nelle sue relazioni con la Casa Bianca. In tal senso, non va trascurato l’impegno profuso dall’inquilina di Palazzo Chigi volto a preservare la stabilità dei legami transatlantici: un impegno che la Meloni ha sempre portato avanti in netto contrasto con la linea di Macron.
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Giancarlo Giorgetti e Christine Lagarde (Ansa)
La Banca centrale europea riconosce «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del Trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi, ma restano i dubbi sulla finalità della norma». Secondo indiscrezioni, Giorgetti intenderebbe segnalare al presidente dell’istituto centrale europeo, Christine Lagarde, che l’emendamento non è volto a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori dal bilancio di Bankitalia escludendo una massa che aggirerebbe il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il senatore della Lega, Claudio Borghi, uno dei relatori della manovra, intanto incalza: «Vediamo chi si stufa prima. Basterebbe domandarsi a che titolo la Bce si mette a sindacare su cose che non sono conferite alla Banca centrale». Poi ribadisce che «non esiste la possibilità e nessuno ha mai detto che vuole utilizzare le riserve auree, anzi io avrei comprato altro oro».
Questo intoppo rischia di complicare l’iter della manovra, proprio mentre i lavori in Senato si apprestano a entrare nel vivo, con il pacchetto di emendamenti del governo atteso per domani. «Saranno pochissimi, verranno prediletti quelli parlamentari», ha spiegato il senatore di Fdi, Guido Liris, uno dei relatori della legge di bilancio, e ha previsto che la votazione in commissione Bilancio del Senato potrebbe essere fissata per il prossimo fine settimana con l’auspicio di far approvare il testo in Aula da martedì 16 dicembre.
La formulazione definitiva delle modifiche è strettamente legata all’esito del lavoro sulle coperture. Il primo dossier sul tavolo del Mef è quello delle banche e assicurazioni: va messo nero su bianco l’accordo raggiunto nei giorni scorsi per un contributo di 600 milioni in due anni, che dovrebbe tradursi in un’ulteriore riduzione della deducibilità delle perdite pregresse. A impattare sulle assicurazioni c’è anche l’incremento - previsto da un emendamento di Fdi - dell’aliquota sulla polizza Rc auto per infortunio del conducente. Altre risorse sono attese dall’aumento graduale della Tobin tax, dalla tassa sui pacchi e dalla rivalutazione dei terreni. Ancora incerto il destino della tassazione agevolata dell’oro da investimento. Sono attese correzioni alla misura sulla cedolare secca per gli affitti brevi a uso turistico. C’è un accordo ampio sul ritorno all’aliquota del 21% per il primo immobile locato e la riduzione da 5 a 3 del numero di immobili da cui scatta l’attività di impresa che prevede un diverso trattamento fiscale.
Si lavora anche sulla norma sui dividendi (la stretta verrebbe limitata alle partecipazioni sotto il 5%), sull’esclusione delle holding industriali dall’aumento dell’Irap, sullo stop al divieto di portare in compensazione i crediti e sull’allargamento dell’esenzione Isee sulla prima casa.
Si stanno valutando le detrazioni per i libri e la stabilizzazione triennale dell’iperammortamento. «Sulle banche mi pare si sia arrivati a un accordo. L’orientamento è quello di arrivare finalmente a un punto di incontro. Il governo decide ovviamente, ma stavolta c’è anche il consenso delle banche», ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
In arrivo la conferma delle risorse aggiuntive per le forze dell’ordine stanziate negli anni scorsi. È quanto emerso nel corso dell’incontro tra il governo e le organizzazioni sindacali delle forze armate e del comparto sicurezza e soccorso pubblico. È stato ribadito anche che «nuovi spazi potranno liberarsi se si chiuderà positivamente la procedura europea sugli squilibri di bilancio».
Inoltre, per quanto riguarda il rinnovo dei contratti per il triennio 2025-2027, il governo ha ribadito l’impegno a una convocazione immediata dei sindacati. Durante l’incontro sono stati affrontati i temi della valorizzazione delle carriere, dell’età pensionabile e delle misure di previdenza dedicata, dei tempi di liquidazione del trattamento di fine servizio, del turn over e degli interventi volti a rafforzare ulteriormente la tutela e la sicurezza del personale.
Per fare il punto sui tempi e sull’iter della manovra, non è escluso un nuovo giro di riunioni con il governo. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo, ha ribadito che «le risorse sono quelle che abbiamo stanziato, la manovra deve chiudersi a 18,7 miliardi».
Continua a far discutere il raddoppio del tetto al contante, attualmente a 5.000 euro, con l’introduzione di una imposta di bollo di 500 euro ogni pagamento cash per importi tra 5.001 e 10.000 euro.
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Xi Jinping ed Emmanuel Macron (Ansa)
Il rinvio della discussione si è reso necessario per l’ostilità di un gruppo di Paesi. Nove Stati membri (Svezia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Irlanda, Malta, Portogallo e Slovacchia, capitanati dalla Repubblica Ceca) si sono, infatti, opposti alla deliberazione, esortando Bruxelles a procedere con la «massima cautela possibile», avvertendo che norme fuori misura rischierebbero di «soffocare l’innovazione» e di «violare accordi commerciali». Un documento ceco condiviso dai nove ministri dell’Industria ha avvertito che una tale politica dovrebbe essere considerata solo «l’ultima risorsa». Il costo di questa politica per le aziende Ue è stato stimato, nel non paper, in oltre 10 miliardi di euro all’anno a causa dell’obbligo di acquistare componenti europei più costosi. La norma non considererebbe «fatto in Europa» un prodotto solo assemblato nella regione ed è questo il problema soprattutto per Slovacchia e Cechia (ma sospettiamo anche per l’Ungheria). Da notare che il tentativo di frenare e indebolire la proposta non è venuto solo da alcuni Stati, ma anche dall’interno della Commissione, dove le direzioni generali Commercio ed Economia hanno espresso timori per l’impatto di queste misure sulla competitività e sull’utilizzo di fondi pubblici per acquisti interni.
La Germania, fino a poco tempo fa contrarissima all’iniziativa, nelle ultime settimane è apparsa più morbida, tanto che non figura tra i Paesi scettici. Ma una regia di Berlino, in casi come questo, è praticamente una certezza. Non sempre la Germania ha necessità di comparire esplicitamente. Il blocco temporaneo al «Made in Europe» è un vero e proprio sgambetto ai danni della Francia, che cerca di proteggere la propria manifattura dall’assalto delle merci cinesi. Proprio qui si innesta l’enorme spaccatura tra Francia e Germania, un contrasto stridente che nessuna conferenza stampa con i sorrisi tirati può dissimulare. Lo stallo unionale è frutto del divario tra la retorica allarmata della Francia e il contorto approccio della Germania alla questione cinese.
Il presidente francese Emmanuel Macron, appena sbarcato dall’aereo dopo tre giorni di visita a Xi Jinping in Cina, ha usato toni estremamente preoccupati per descrivere il ruolo marginale dell’Europa nel panorama globale, dove è «intrappolata tra Stati Uniti e Cina». Egli ha definito lo stato attuale come «lo scenario peggiore», in cui l’Europa è diventata il «mercato dell’aggiustamento» per la produzione cinese, in buona parte deviata dai dazi americani. Considerazione ovvia e assai tardiva. Dall’entourage di Xi Jinping, però, è filtrata una certa sorpresa dato che, durante i tre giorni di visita, i toni di Macron erano stati tutt’altro che bellicosi. Tornato all’Eliseo, Macron ha avvertito Pechino che, se non interverrà per correggere lo squilibrio commerciale giudicato «insostenibile», l’Ue potrebbe adottare «misure forti», inclusa l’imposizione di dazi. Per Parigi, la protezione dell’industria è una «questione di vita o di morte per l’industria europea».
Dall’altra parte, però, la Germania dà prova di profonde ambiguità. Nonostante si stia confrontando con una drammatica crisi industriale (con 23.900 fallimenti aziendali, il picco degli ultimi undici anni, e la perdita acquisita quest’anno di oltre 165.000 posti di lavoro nel solo settore manifatturiero), Berlino continua a privilegiare i rapporti bilaterali con Pechino. Mentre l’Unione è bloccata, il ministro degli Esteri, Johann Wadephul, e quello alle Finanze, Lars Klingbeil, si recano in Cina a poche settimane l’uno dall’altro per chiedere condizioni di favore, in particolare per le terre rare, essenziali per l’industria.
Probabilmente a Pechino non credono ai loro occhi, con questo via vai di ministri e presidenti europei che arrivano a chiedere questo e quello. Ma l’orientamento dei tedeschi è mantenere ed espandere le relazioni commerciali con la Cina, il loro «partner commerciale più importante», come ha detto Wadepuhl. Questa condotta confligge con gli obiettivi di riduzione del rischio di cui si parlava fino a qualche tempo fa a Bruxelles e di cui, come è facile notare, non si parla praticamente più. L’impegno, ora, è tutto rivolto a mostrare indignazione per la nuova strategia di Donald Trump verso l’Europa, a quanto sembra.
Certamente la spinta tedesca contrasta con le idee della Francia sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’enorme surplus cinese, che nei primi undici mesi dell’anno ha superato i mille miliardi di dollari. Il ripiegamento delle merci cinesi dagli Stati Uniti verso l’Europa era un effetto atteso, dopo l’aumento dei dazi americani verso Pechino. In otto mesi, l’Unione non ha fatto nulla per proteggersi e ora Parigi grida «Al fuoco!», mentre Berlino, ispiratrice dell’immobilismo di Commissione e Consiglio, punta ancora a ritagliare per sé uno status privilegiato.
Di fronte all’aggressiva politica commerciale cinese, l’Unione europea si ritrova in pezzi, congelata da Berlino che, intanto, fa affari e cerca accordi con Pechino.
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