2019-08-15
Come ti convinco la figlia a dichiararsi transgender
La angosciante testimonianza di un padre americano: «È autistica ma, appena ha detto di sentirsi maschio, scuola e istituzioni l'hanno spinta verso la transizione».Jay Keck si è sentito in dovere di informare tutto il popolo degli Stati Uniti d'America. Ha voluto raccontare che cosa è accaduto a sua figlia, la sua bambina, a causa dell'ideologia Lgbt portata alle estreme conseguenze. Lo ha fatto con un lungo articolo uscito su Usa Today. Quando si ha finito di leggerlo, viene da pensare che, in un futuro lontano, se mai la società occidentale recupererà un poco di sanità mentale, si faranno film su storie come la sua. Film di denuncia, che raccontino quanto folli fossero gli esperimenti sociali condotti nella nostra epoca. Ora, invece, chi ha il coraggio di rendere pubbliche storie simili a quella di Jay viene trattato come un oscurantista, un bigotto da sanzionare. Il signor Keck vive in un sobborgo di Chicago: nel 2016 aveva una figlia di 15 anni, oggi invece si ritrova un figlio di 18. Tutto è iniziato nell'aprile di tre anni fa. La figlia di Jay frequentava una scuola superiore pubblica. «Per tutta l'infanzia», racconta l'uomo, «non ha mai dato segni di voler essere un ragazzo. Non mi viene in mente un suo solo interesse particolarmente mascolino o una prova che non si sentisse a suo agio a essere una ragazza». Piuttosto, i problemi della giovane erano altri. Aveva difficoltà a farsi degli amici, e a mantenere rapporti con i coetanei. I suoi genitori avrebbero scoperto la ragione solo qualche tempo dopo: la ragazza era nello spettro autistico, da cui i suoi problemi relazionali. In ogni caso, a scuola non andava affatto male, anche grazie a un programma di aiuto chiamato Iep, che le scuole pubbliche americane forniscono agli studenti bisognosi di sostegno speciale. A un certo punto, la figlia di Jay un'amica è riuscita a farsela: ha stretto rapporti con una ragazzina che da poco aveva fatto sapere a tutta la scuola di essere transgender, cioè di essere intenzionata a diventare maschio a breve. «Poco dopo averla incontrata», racconta Keck, «anche mia figlia ha dichiarato di essere un ragazzo intrappolato nel corpo di una ragazza, e ha scelto un nome da maschio». Riassumendo: la figlia di Jay, che non aveva mai mostrato segni della cosiddetta «disforia di genere», ha iniziato a frequentare una ragazza intenzionata a cambiare sesso e un bel giorno ha iniziato a dichiararsi trans pure lei. Il problema è che non ha annunciato la decisione direttamente ai genitori. No, per prima cosa si è esposta con il personale della scuola. «I professori e lo staff», racconta Keck, «conoscevano le sue condizioni di salute». Sapevano che era autistica, ma hanno comunque scelto di utilizzare «l'approccio affermativo». Questa è la moda, del resto. Se un ragazzino dichiara di voler cambiare sesso, ideologia vuole che si debba assecondarlo, altrimenti si ledono i diritti Lgbt. «Senza dire nulla a me o a mia moglie», prosegue Jay Keck, «hanno cominciato a chiamare mia figlia con il suo nuovo nome. Hanno iniziato a trattarla come se fosse un ragazzo, utilizzando pronomi maschili e le hanno fatto utilizzare gli spogliatoi gender neutral». Durante un incontro con i vertici scolastici, Jay chiese che la ragazzina venisse chiamata con il suo nome femminile, ma non ci fu nulla da fare: «La mia richiesta fu ignorata e il personale della scuola continuò a riferirsi a lei con un nome maschile». Quando Jay chiese spiegazioni, gli fu risposto che la legge prevedeva il rispetto delle «diversità di genere». In verità, dice Keck, «non c'era nessuna legge, ma soltanto la lettera dell'amministrazione Obama del maggio 2016 che diceva che la scuola deve seguire un approccio affermativo con gli studenti transgender» (queste linee guida sono state in seguito cancellate dall'amministrazione Trump, ndr). Il peggio, tuttavia, doveva ancora arrivare. La figlia di Jay, parlando con l'assistente sociale presente a scuola, disse che il padre non supportava il suo desiderio di cambiare sesso. Risultato: l'assistente sociale la informò che avrebbe potuto trasferirsi in una comunità per sfuggire alla famiglia poco collaborativa. «Mi è sembrato un orrendo tentativo di convincere mia figlia a scappare di casa», racconta Keck. La situazione continuava a peggiorare, e la tensione tra la scuola e la famiglia di Jay aumentavano. Così, l'uomo decise di far parlare la sua bambina con uno psicologo riconosciuto dal distretto scolastico. «Ci ha detto che era molto chiaro che l'improvvisa identità transgender di nostra figlia era dovuta alle sue condizioni di salute mentale. Ma ci disse anche che questa sua opinione era del tutto confidenziale: non l'avrebbbe confermata pubblicamente perché temeva le conseguenze che avrebbe potuto subire. Nella relazione che ha presentato a noi e alla scuola, infatti, non ha incluso queste valutazioni».Tutto chiaro: per timore di essere giudicato omofobo, anche lo psicologo ha preferito assecondare la ragazzina che si dichiarava trans. Jay, nel frattempo, si è documentato, e ha scoperto cose inquietanti. «La National Education Association collabora con la Human Rights Campaign e con altri gruppi per produrre materiale che sostiene l'affermazione automatica delle identità, il cambio di nomi e pronomi, anche senza il consenso dei genitori. In 18 Stati americani, tra cui l'Illinois in cui vivo, sono proibite le terapie di conversione, cosa che impedisce ai terapeuti i mettere in discussione l'identità di genere dei ragazzini. Non mi stupisce che lo psicologo di mia figlia abbia voluto parlare con me solo in via confidenziale», dice Keck.Insomma, le istituzioni americane, o comunque molte di esse, «rispettano i diritti Lgbt». Motivo per cui invitano studenti, insegnanti, psicologi e medici a non opporsi ai desideri dei minorenni. «Quando i genitori sono disposti ad andare avanti con la transizione del loro bambino», racconta Keck, «il processo può muoversi a un ritmo spaventoso. I medici della Endocrine Society hanno riscritto le linee guida per il trattamento di giovani pazienti che dicono di essere transgender al fine di dare trattamenti ormonali a bambini di età inferiore ai 16 anni. E, cosa ancora più preoccupante, interventi chirurgici come mastectomie e orchiectomie (la rimozione dei testicoli) vengono eseguiti sugli adolescenti».Potete immaginare come sia finita la storia di Jay e di sua figlia. Lui ha chiesto ancora a una volta alla scuola di chiamare la ragazza con il suo nome femminile, ma il preside ha rifiutato di farlo. A giugno, la figlia di Jay è divenuta maggiorenne, e se decidesse di iniziare la transizione fisica verso il sesso maschile, potrebbe farlo semplicemente firmando un modulo di consenso, senza ulteriore assistenza psicologica. «Le basterebbe rivolgersi a una delle 17 cliniche di Planned Parenthood presenti in Illinois per ottenere assistenza a basso prezzo», racconta Jay.Secondo i progressisti illuminati, Jay Keck è solo un padre bigotto che si rifiuta di accettare la vera identità di sua figlia. Ma la sua vicenda deve metterci in allarme. Questa storia parla di contagio sociale, di ideologia imposta senza tenere conto delle conseguenze, di condizionamento psicologico. Questo è ciò che succede quanto la lobby Lgbt domina. Forse è il caso di tenerne conto prima che, anche per noi, sia troppo tardi.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
Continua a leggereRiduci
Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)