
Ogni provincia custodisce - talvolta con saggezza, talvolta a malincuore - lembi di foresta in cui inoltrarsi per provare a riconciliarsi con il mondo. Consiglio da esperto: per farvi compagnia scegliete la musica dello straordinario Max Richter.In questo nostro viaggio fra i grandi alberi d'Italia non abbiamo ancora toccato i boschi. Abbiamo cercato la compagnia di esemplari singoli, straordinari, spesso di città. Abbiamo avvicinato i platani vulcano dei giardini che circondano Villa Litta a Milano, ad esempio, il grande cedro di Villa Mirabello nel cuore verde di Varese, ad esempio, il platano re di Villa Sartirana, a Torino, ad esempio, la splendida magnolia di Villa Grismondi Finardi nella mia città natale, Bergamo o la quercia rossa di Monza, ammirata a ritratta su china, un quarto di secolo fa, da Federica Galli. Alberi umanizzati, addomesticati, che conoscono spesso la lingua mista della terra e del cemento, esemplari recentemente sondati e con quale magnificenza dallo scrittore mantovano Antonio Moresco, nel suo romanzo Canto degli alberi (Aboca), alberi-messaggeri parlano un canto muto ma denso.Ogni provincia custodisce - talvolta con saggezza, talvolta a malincuore, talora con cura, talora passivamente - boschi e lembi di foresta. Meno in pianura, poiché il territorio viene sfruttato al meglio: i boschi residui costeggiano spesso i corsi dei fiumi, se le ruspe delle cave non li hanno estirpati, o le inondazioni non li hanno travolti e sradicati. Le formazioni arboree regolari sono più che altro finti boschi di pioppi, coltivati per la qualità del legno, con tempi di maturazione che procedono fra i quindici e i vent'anni anni; ai nostri occhi paiono formazioni boschive, in realtà sono illusioni temporanee che saranno presto sostituite da altro. Bisogna dunque risalire le colline, affrontare le Prealpi o l'Appennino o giungere in territori di confine, laddove il bosco ricomincia a parlare. Certo, abbiamo ancora grandi foreste di faggio e di abete, pinete antiche e leccete forse primarie, ma sono francobolli, eccezioni ad un lento ma inesorabile occupare, conquistare, modificare e sfruttare. Abbarbicati sulle rocce alpine abbiamo in Piemonte il Gran Bosco del Salbertrand e la Serva o Selva di Chambons, mentre in Valle d'Aosta i lariceti monumentali decisi dalle comunità umane come paravalanghe naturali, all'interno della geografia del Parco Nazionale del Gran Paradiso, o ancora la straordinaria pineta del Mont Avic. In Lombardia abbiamo le selve castanili del Canto Alto in Val Brembana, i boschi dell'Adamello in Val Saviore, il bosco di Santa Maria a Livigno. Nelle regioni del nord-est la sella di Lerosa sopra Cortina d'Ampezzo, la foresta del Cansiglio, le fiamme primigenee sulla cima dell'Alpe di Tramin in Valsarentino, la foresta di Tarvisio, i lariceti del Cadore o la celebra Scalinata dei Larici Monumentali in Val di Saènt. E questi non sono che piccoli segnali di un popolo arboreo ben più ampio, purtroppo colpito duramente dalla tempesta Vaia, a fine ottobre di due anni fa che, ricordiamo, ha abbattuto circa quattordici milioni di alberi, con venti che hanno toccato i duecento chilometri orari. Per noi i boschi sono ovviamente ben più che semplici giacimenti di carbonio, come dicono i tecnici, o metri cubi di legna che possono essere raccolti e venduti, sebbene resti una delle finalità stesse della loro conservazione, se guardiamo il mondo dal nostro punto di vista. Allungando lo sguardo al resto d'Italia abbiamo ci inoltreremo nelle faggete immense dell'aretino, nel territorio delle Foreste Casentinesi, il Parco Nazionale della Majella e l'Abruzzo, Molise e Lazio; le tre grandi macchie scure che costituiscono una sorta di esoscheletro legnoso nelle Calabrie, ovvero il Pollino, Le Serre e la Sila. I boschi siciliani - messi spesso a dura prova da vasti incendi dolori - e le foreste interne sarde. Ufficialmente un terzo del Paese è ricoperto di boschi e aree boscate, con le querce a farla da padrone, e una stima di circa un miliardo di faggi. Numeri di tutto rispetto anche se può impressionare fare un paragone con un paese come il Giappone, che su una superficie di poco superiore alla nostra presenta una copertura boscosa che raggiunge il 67%, e una popolazione che doppia l'italiana. Abbandonarci nel ventre foliare di un bosco ci riporta ad un respiro elementare, mai come in questo nostro magistero del disordine quotidiano, compressi e compromessi come siamo dalla paura da covid, povertà, economia indebolita, guerre che si minacciano in tanti luoghi del pianeta, un futuro sempre meno roseo, estinzione di massa, crisi climatica, innalzamento dei mari, scioglimento dei ghiacciai, aver l'opportunità di sanare mente e cuore non è poi cosa da poco. Camminare nel bosco, corrervi, passeggiarvi, meditarvi, non risolverà le grandi tragedie del mondo ma almeno può donarci qualcosa di sano, e non avendo mai riposto particolare fiducia nelle rivoluzioni inattese, una maturazione lenta ma costante può rappresentare un toccasana per molti di noi. Quando chiediamo il permesso di entrare in un bosco ci accorgiamo di non essere niente. Siamo convinti che la ragione ultima di questo grande teatro di istinti e ragione che è l'esistenza sia un progresso, un miglioramento, delle condizioni nostre, individuali, quanto di quelle sociali, generali. Eppure bastano due passi nel bosco più ridotto e prossimo alla nostra comoda abitazione per intendere tutto quel che c'è da intendere nella vita che ci circonda. Cos'è dunque tutto questo disordine al qual continuamente tentiamo di porre un freno, un limite, una regola? Perché tutto nasce e poi muore? La morte è il compimento della vita o ne è parte? Domande a cui l'uomo tenta di dare una risposta da quando il suo cervello ha iniziato a operare.Scelta musicale: compositore minimalista e dalle atmosfere drammatiche e sentimentali, Max Richter ci ha regalato colonne sonore per molti film. Fra i suoi album segnalo Three Worlds: Music from Woolfs Works (2017), con componimenti tratti da tre film ispirati all'opera letteraria di Virginia Woolf, quali Mrs Dalloway, Orlando e Le onde. E The Blue Notebooks, recentemente rieditato, il quale abbraccia due «notebooks» usciti nel 2003 e nel 2014, ospitando diversi brani divenuti celebri e amati, come On the Nature of Daylight, colonna sonora dello straordinario fantascientifico film di Denis Villeneuve, Arrival, Written on the sky e il travolgente e malinconico The Trees, a noi cara di default. Ed è proprio fra i nostri amati alberi, e su questa natura della luce del giorno che ci lasciamo vivere, trapassare, respirare. La musica di Richter è perfetta per farci compagnia nel bosco, come accompagnamento ma anche come suggello, magari assaporandola nella fioca luce di una lampada, prima di addormentarci, la sera, nella nostra tenda, in un sacco a pelo, sotto le stelle scintillanti, avvolti dal buio sospettoso, immaginando denti che digrignano e insetti che banchettano senza pubblico.
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?
Federica Picchi (Ansa)
Il sottosegretario di Fratelli d’Italia è stato sfiduciato per aver condiviso un post della Casa Bianca sull’eccesso di vaccinazioni nei bimbi. Più che la reazione dei compagni, stupiscono i 20 voti a favore tra azzurri e leghisti.
Al Pirellone martedì pomeriggio è andata in scena una vergognosa farsa. Per aver condiviso a settembre, nelle storie di Instagram (che dopo 24 ore spariscono), un video della Casa Bianca di pochi minuti, è stata sfiduciata la sottosegretaria allo Sport Federica Picchi, in quota Fratelli d’Italia. A far sobbalzare lorsignori consiglieri non è stato il proclama terroristico di un lupo solitario o una sequela di insulti al governo della Lombardia, bensì una riflessione del presidente americano Donald Trump sull’eccessiva somministrazione di vaccini ai bambini piccoli. Nessuno, peraltro, ha visto quel video ripostato da Picchi, come hanno confermato gli stessi eletti al Pirellone, eppure è stata montata ad arte la storia grottesca di un Consiglio regionale vilipeso e infangato.
Jannik Sinner (Ansa)
Alle Atp Finals di Torino, in programma dal 9 al 16 novembre, il campione in carica Jannik Sinner trova Zverev, Shelton e uno tra Musetti e Auger-Aliassime. Nel gruppo opposto Alcaraz e Djokovic: il duello per il numero 1 mondiale passa dall'Inalpi Arena.
Il 24enne di Sesto Pusteria, campione in carica e in corsa per chiudere l’anno da numero 1 al mondo, è stato inserito nel gruppo Bjorn Borg insieme ad Alexander Zverev, Ben Shelton e uno tra Felix Auger-Aliassime e Lorenzo Musetti. Il toscano, infatti, saprà soltanto dopo l’Atp 250 di Atene - in corso in questi giorni in Grecia - se riuscirà a strappare l’ultimo pass utile per entrare nel tabellone principale o se resterà la prima riserva.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Negli anni Dieci del secolo XX il fisiologo triestino Amedeo Herlitzka sperimentò a Torino le prime apparecchiature per l'addestramento dei piloti, simulando da terra le condizioni del volo.
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Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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