2022-08-20
Al gala della fondazione dei Clinton tappeto rosso per gli amici di Pechino
Bill e Hillary Clinton (Ansa)
Tra gli ospiti dell’evento di settembre dell’associazione di Hillary e Bill, anche Ghebreyesus (Oms), Larry Fink, ceo di Blackrock e Iweala (Wto). Figure con rapporti solidi, e talvolta poco trasparenti, con la Cina.Beffa a Trump: come ha richiesto, il documento con le motivazioni del blitz in Florida sarà desecretato. Tuttavia, il dipartimento di Giustizia potrà censurarne intere sezioni.Lo speciale contiene due articoli.Ricordate la Fondazione Clinton? Ultimamente era un po’ sparita dai radar. Eppure adesso sembrerebbe pronta a riprendersi il centro della scena. Il 19 e il 20 settembre, l’organizzazione terrà infatti a New York un evento con numerosi ospiti internazionali. «Per la prima volta dal 2016, stiamo riunendo leader globali ed emergenti per agire e affrontare le sfide più urgenti del mondo», si legge nel sito della fondazione. Quest’ultima era d’altronde finita nell’occhio del ciclone proprio durante la campagna presidenziale del 2016 per accuse di conflitto di interessi a causa di alcune donazioni controverse. Ora, questo ritorno sulle scene sembra lanciare alcuni segnali. In primis è di recente riemersa l’ipotesi di una nuova candidatura presidenziale della Clinton in vista del 2024: ne hanno parlato Cnn a giugno e Newsweek a luglio. È pur vero che, almeno per ora, una discesa in campo dell’ex first lady non sembra probabilissima. L’ipotesi comunque circola. Ed è significativo che il rilancio pubblico della Fondazione Clinton avverrà in un periodo politicamente caldo: circa un mese e mezzo prima delle prossime elezioni di metà mandato. Tuttavia, al di là delle eventuali ambizioni presidenziali dell’ex first lady, l’evento settembrino offre spunti interessanti anche sul piano delle relazioni internazionali. Eh sì, perché alcuni degli importanti ospiti che vi prenderanno parte intrattengono dei rapporti non irrilevanti con la Repubblica popolare cinese. Il caso forse più eclatante è quello del direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus. Ricordiamo tutti l’atteggiamento morbido che costui ebbe nei confronti di Pechino, quando scoppiò la pandemia. Una benevolenza che si spiega guardando ai solidi legami che Tedros intrattiene con il Dragone. A marzo 2020, il National Interest riportò che «costui ha lavorato a stretto contatto con la Cina durante il suo mandato come ministro della salute dell’Etiopia e la Cina ha sostenuto la candidatura di Tedros del 2017 per diventare direttore generale dell’Oms». Un’altra ospite dell’evento clintoniano non esattamente lontana da Pechino è la direttrice generale del Wto, Ngozi Okonjo-Iweala. A ottobre 2020, il South China Morning Post rivelò che Donald Trump si era opposto alla sua nomina a quell’incarico: nomina che aveva invece ricevuto il sostegno della Repubblica popolare. Il veto americano sarebbe stato infine ritirato a febbraio 2021 dall’amministrazione Biden (al cui interno si registrano voci soft verso Pechino, a partire da quella di John Kerry: figura non certo estranea alla galassia dei Clinton). Un ulteriore nome eccellente con ramificazioni cinesi è quello del Ceo dell’International rescue committee: l’ex ministro degli Esteri britannico, David Miliband. Recensendo un libro a giugno sulla rivista Prospect, costui ha di fatto auspicato una cooperazione tra Occidente e Cina. Era invece ottobre 2019, quando incontrò l’allora ambasciatore cinese nel Regno Unito, Liu Xiaoming: in quell’occasione, secondo un comunicato di Pechino, Miliband «parlò molto bene dell’enorme contributo della Cina nell’affrontare il cambiamento climatico e nel promuovere lo sviluppo in Africa». Ulteriore ospite in odore di simpatie cinesi è la premier delle Barbados, Mia Mottley: fu lei ad annunciare nel settembre 2020 che il suo Paese avrebbe instaurato la repubblica, sganciandosi dalla monarchia britannica. Un passaggio, questo, completatosi lo scorso novembre. Secondo il presidente della commissione esteri della Camera dei comuni britannica, Tom Tugendhat, tale svolta istituzionale sarebbe avvenuta su pressione di Pechino. Tra l’altro, durante un’intervista alla Bbc dell’agosto 2021, la Mottley difese a spada tratta le relazioni delle Barbados con la Cina. Ma non è finita qui. Tra gli ospiti dell’evento clintoniano figura anche uno storico sostenitore del Partito democratico statunitense, come il Ceo di Blackrock Larry Fink. Ebbene, l’altro ieri il sito Axios ha riferito che i procuratori generali di 19 Stati americani hanno chiesto formalmente alla Sec di esaminare i legami della stessa Blackrock con la Cina. Compare tra gli ospiti infine anche l’attore Matt Damon come cofondatore della non profit Water.org. Sarà un caso, ma Damon nel 2016 fu protagonista del kolossal cinematografico The Great Wall: una coproduzione sino-americana, che fu accusata di essere uno strumento della propaganda di Pechino. Insomma, per quanto indirettamente, si scorge una certa influenza cinese sull’evento clintoniano di settembre: un fattore che stupisce fino a un certo punto. Fu proprio Bill Clinton, da presidente, a favorire l’ingresso di Pechino nel Wto, dicendo, nel marzo 2000, che tale coinvolgimento avrebbe portato il regime comunista cinese verso un’evoluzione liberale. Oggi sappiamo che le cose sono andate ben diversamente: non solo il Dragone si è fatto più autoritario (si pensi a Hong Kong o allo Xinjiang) ma, con le sue pratiche commerciali scorrette, ha anche messo in ginocchio la working class americana. Un elemento, questo poco interessante per le alte sfere liberal di Wall Street e della Silicon Valley, che con la Cina vogliono fare affari. Evidentemente i Clinton continuano ad essere piuttosto sensibili a questi mondi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/clinton-cina-usa-2657890597.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="trump-carte-pubbliche-ma-oscurate" data-post-id="2657890597" data-published-at="1660982639" data-use-pagination="False"> Trump, carte pubbliche ma oscurate Prosegue l’intricata vicenda legata al blitz dell’Fbi nella villa di Donald Trump. Giovedì sera, il giudice Bruce Reinhart ha stabilito che l’affidavit potrà essere reso pubblico: parliamo, cioè, dell’incartamento con cui il Bureau ha chiesto e ottenuto dallo stesso Reinhart il mandato di perquisizione. Si tratta di un documento della massima importanza, perché in esso è specificamente presente l’ipotesi accusatoria dei federali nei confronti dell’ex presidente americano. Nei giorni scorsi, Trump e i repubblicani avevano chiesto che l’affidavit fosse desecretato per una questione di trasparenza: una richiesta, questa, che era stata tuttavia respinta dal dipartimento di Giustizia. Ora, è pur vero che generalmente l’affidavit non viene pubblicato a indagine in corso. Ma è altrettanto vero che il caso in questione è senza precedenti: nessun ex presidente è infatti mai stato oggetto di indagini o perquisizioni nella storia americana. Richard Nixon ricevette il perdono da Gerald Ford sul Watergate nel 1974, mentre Bill Clinton raggiunse un accordo nel 2001 con l’Office of the Independent Counsel per non essere incriminato sul caso Lewinsky. Alla luce di questo, una maggior trasparenza non guasterebbe, anche per fugare i sospetti che il procuratore generale, Merrick Garland, e l’Fbi stiano conducendo un’indagine politicizzata. Ebbene, la decisione presa da Reinhart a favore della pubblicazione dell’affidavit è una doccia fredda per il dipartimento di Giustizia. Ma fino a un certo punto. Il giudice ha infatti dato al dipartimento tempo fino al 25 agosto per oscurare quelle sezioni dell’affidavit che ritiene opportune. Reinhart si è poi riservato il diritto di valutare tali segretazioni: deciderà, in altre parole, se accettarle o inserirne delle proprie. Il risultato sarà che il documento verrà, sì, pubblicato, ma solo parzialmente. È quindi probabile che le sezioni più interessanti saranno oscurate. Uno scenario, questo, che non viene gradito né dalla stampa né dallo stesso ex inquilino della Casa Bianca. «Il presidente Trump ha chiarito la sua opinione, secondo cui al popolo americano dovrebbe essere consentito di vedere l’affidavit non oscurato relativo al raid e all’irruzione nella sua casa», ha affermato un portavoce dell’ex presidente dopo la decisione di Reinhart. Senza contare che potrebbero esserci ricorsi legali da parte del dipartimento di Giustizia. Sempre giovedì, è stato pubblicato un documento in cui viene genericamente indicata come «base per la perquisizione» la «prova di un crimine», oltre a «contrabbando, frutti del crimine o altri oggetti posseduti illegalmente». Nessuna svolta eclatante: dalla pubblicazione del mandato la settimana scorsa, sapevamo infatti già che Trump sarebbe sospettato di aver violato le sezioni 793, 2071 e 1519 del titolo 18 del codice degli Stati Uniti (tutti dispositivi che riguardano principalmente il possesso indebito di materiale). E qui emergono varie questioni. Al di là della diatriba in corso se Trump avesse o meno il potere per declassificare i documenti sequestrati, va rilevato che il mandato conferiva ai federali l’autorità di requisire non solo i documenti classificati, ma ogni incartamento governativo prodotto nell’intero arco della presidenza Trump. Un’ampiezza che sembra suggerire un impianto accusatorio un po’ vago. Inoltre, il contenzioso sui documenti tra le autorità e l’ex presidente va avanti da febbraio, mentre l’ultimo incontro ufficiale tra le parti prima del blitz era avvenuto a inizio giugno. Se l’urgenza era così pressante, perché attendere agosto - in piena campagna elettorale - per la perquisizione?
Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri (Ansa)
Federico Marchetti, fondatore di Yoox (Ansa)
Pier Silvio Berlusconi (Ansa)