2025-04-12
Claudio Marenzi: «Bisogna esaltare la qualità made in Italy»
Claudio Marenzi (Imagoeconomica)
Il presidente di Herno: «I prodotti del nostro Paese sono costosi, non cari: ci vuole un protocollo per certificarne il valore. Però i prezzi sono cresciuti troppo, così si perdono anche i clienti più facoltosi. La mia passione è l’arte: la porto in azienda».Alla base la passione per il bello. «Per un manufatto, per un orologio, un’auto d’epoca, per la moda, per la cucina di un certo livello». Non ha dubbi Claudio Marenzi, presidente di Herno, azienda nata nel 1948 a Lesa, sul Lago Maggiore, oggi tra i brand del lusso made in Italy più noti nel mondo. Che ci apre le porte del suo nuovo showroom milanese, 6.500 metri quadri di atmosfera cittadina. «Piace l’estetica del ben fatto, il progetto produttivo di un capo d’abbigliamento, di un gioiello. In tutto questo c’è arte». Non è un caso che Marenzi abbia saputo trarre ispirazione dall’arte e dalla cultura, utilizzando questi mondi per guidare le scelte stilistiche e produttive dell’azienda famosa per capispalla di alta qualità ma ormai onnicomprensiva di tutte le categorie merceologiche.«Sono innamorato dell’arte perché fin da giovane ero incapace di disegnare e amavo chi aveva questo dono. Primo quadro acquistato a 15 anni con le paghette, opera di Nicolino Pankoff, famoso pittore di Arona. Poi le scelte sono andate sempre più verso l’arte contemporanea, pittura, video, installazioni, fotografia. Ma in tutto devo vedere qualcosa di pittorico, oltre l’idea di una realizzazione ci deve essere una capacità vera altrimenti diventa marketing».Marenzi ha saputo portare in azienda una vera e propria filosofia che va ben oltre la semplice creazione di capi d’abbigliamento. Cosa le dà l’arte che poi trasmette nel suo lavoro?«Un senso estetico disgiunto dalla quotidianità. L’arte, quella vera, è atemporale, eterna. Mi è servita per comunicare con il mio staff, per fare capi il meno datati possibile. Nella moda vendiamo stracci contemporanei, è un’attività commerciale come tante altre. A me piace che ciò che esce da Herno sia utilizzato per più tempo possibile. Anche alcuni stilisti di haute couture sono eterni. Cerco di fare questo».Herno, in effetti, non è solo un marchio di moda; è anche un’espressione culturale, che ha collaborato con artisti e designer per sviluppare collezioni in grado di esprimere emozioni e concetti attraverso la materia e il design.«Ho portato l’arte in azienda facendola diventare così patrimonio di tutti in uno scambio di sensazioni e sentimenti: ne fruiscono i collaboratori. È iniziato tutto spontaneamente nel 2005 quando ho preso in mano da solo l’azienda, la mia fonte di vita».Come sceglie le opere?«Non compro pensando alle pareti, compro perché mi piace un’opera, sono un accumulatore, ci sono quadri che non ho mai appeso, che a volte rimangono nelle gallerie. Da subito ho visto che i quadri messi in azienda scatenavano le reazioni dei dipendenti che esprimevano i loro commenti, anche negativi. Allora ho cominciato a metterli cercando di dare un senso come per la tela inserita nel reparto maglieria, un filo che segue un percorso fatto con chiodini di Vik Muniz. Nel reparto di prototipia, dove sono al 100% donne, c’è un’opera dell’attivista femminista californiana Andrea Bowers. Di Alessandro Pessoli sono i 50 disegni rock nella sala taglio perché il nostro responsabile del taglio mi ha sempre fatto pensare a un rockettaro. Nicolas Party, svizzero che nasce come graffittaro, iper quotato, ha realizzato un murales esterno all’azienda che riflette la collina, molto stilizzata, in colori sgargianti. Oggi quel tipo di wall painting li fa solo nei musei. Lo ospitai tre giorni in azienda e chiunque arriva può vedere la sua opera».Non mancano opere nello showroom.«All’entrata c’è un quadro dell’artista Pae, White Fair Winds & Following Seas, l’augurio di andare sempre nella direzione giusta con il giusto sentimento, l’ha disegnato per noi, apprezza il nostro lavoro e i nostri prodotti. E poi l’installazione di Latifa Echakhch, pennoni senza bandiera, il senso di un mondo senza divisioni».Se l’arte può essere considerata eterna, come vede il futuro della moda?«Partiamo dal fatto che ci vestiremo sempre, e attraverso il nostro vestire lanciamo dei messaggi, comunichiamo. Non pensiamo a divise che andrebbero verso un mondo che non ci piace. La divisa è solo dei sistemi totalitari. Vogliamo un modo di vestirci libero. Preferisco un eccesso di democrazia, mai potrei vivere in un Paese diverso dall’Italia».E il made in Italy?«Ci sono delle nuvole, il cielo non è blu. Il manufatto italiano subisce il costo del lavoro altissimo con stipendi non così alti. E non puoi abbassare il cuneo fiscale di tanto. Dobbiamo certificare che il made in Italy è costoso, mai caro, la differenza è importante. Dobbiamo far capire al mondo i contenuti anche di regole istituzionali e che il made in Italy ha una qualità superiore. Non è una giustificazione ai prezzi. Dobbiamo avere un protocollo certificato da terzi che garantisca il prodotto. In questi ultimi anni, ed è ormai sotto gli occhi di tutti, i grandi marchi della moda hanno esagerato con i prezzi, lo dissi più di un anno fa. Anche il consumatore alto spendente ha iniziato ad avere dei dubbi etici su questi acquisti. Se dall’etica si passa al costume è un problema perché poi non è più di moda comperare certi marchi e si diventa subito old fashion. Dobbiamo fare un atto di educazione nei confronti dei nostri consumatori facendo capire la differenza vera. I mega eventi li paga il consumatore, meglio evitare».Herno come va?«I nostri capi piacciono esteticamente, uno dei valori che ci riconoscono è il bilanciamento tra qualità e prezzo, costosi ma mai cari. Siamo mediamente in crescita su tutti i mercati, primo mercato in Europa, a parte l’Italia, è la Germania seguita dai Paesi di lingua tedesca, molto bene anche Francia e Spagna. Ci reputano un marchio serio e coerente. Cinquanta negozi diretti tra Europa, Asia, Nord America; 18 in Giappone».
Jose Mourinho (Getty Images)