2024-07-27
La ciuìga, la Cenerentola diventa principessa
L’insaccato tipico di San Lorenzo in Banale nasce con poco maiale (le parti meno nobili) e tante rape tritate. Serviva per sfamare le famiglie più povere. Oggi è un prodotto di nicchia e di successo, fatto soltanto con tagli scelti. Si sposa a meraviglia con la polenta.C’è un salume in Trentino, la ciuìga, che racconta (quasi) meglio di un libro di storia il passato di estrema povertà della comunità di San Lorenzo in Banale, paesotto a pochi chilometri dal lago di Molveno, ai piedi delle Dolomiti di Brenta. Iniziamo col mettere l’accento sulla giusta «i» del nome, cioè sulla seconda: si scrive e si dice ciuìga. Nata Cenerentola da un pugnello di carne ricavata dagli scarti del maiale e affogata in un budello gentile con un rosso impasto di rape triturate, la ciuìga è riuscita a cambiare nel corso di un secolo e mezzo la miserrima condizione sociale, arricchendo di sapore fino a diventare ai nostri giorni un gustoso prodotto tipico, talmente caratteristico e assolutamente non banale che si trova solo a San Lorenzo in Banale (scusate il gioco di parole ma quando scappa, scappa), in qualche paese vicino, nei ristoranti della vallata che la usano come ingrediente di piatti particolari e in qualche negozio di nicchia. La ciuìga è diventato un prodotto di nicchia perché se ne fanno pochi di questi salumi, dall’inizio di ottobre fin verso aprile, nel periodo delle rape.Meriterebbe la medaglia d’oro al valore civile per aver salvato dalla fame generazioni di montanari. Un premio lo ha avuto e non da poco: Slow food ha inserito la ciuìga nell’elenco dei suoi presidi, quei prodotti italiani tipici da difendere e valorizzare. Il salume di San Lorenzo in Banale correva il rischio di essere dimenticato come tanti altri prodotti agroalimentari quando gli italiani, con il boom economico, hanno messo da parte tutto quello che «puzzava» di povero o che era legato all’atavica fame dei loro vecchi. Grazie al progetto dei presidi promosso dall’associazione fondata da Carlin Petrini per la salvaguardia della biodiversità, la ciuìga e altri poveri ma buoni sono stati salvati.Il salame di San Lorenzo ha una carta d’identità precisa. Oltre al luogo di nascita, si conosce l’anno in cui è stato «inventato» e il nome del babbo. Si sa anche da chi prende quel nome stridulo: dalla pigna, lo strobilo del pino alla cui forma somiglia e che nel dialetto trentino è chiamata ciuìga.La storia indica in un macellaio di San Lorenzo in Banale, Palmo Donati, l’inventore del salume. Correva l’anno 1875 quando Donati, utilizzando le carni meno pregiate del maiale (testa, cuore, polmone, frattaglie) e il suo sangue, mescolava il tutto alle rape, umilissimo ortaggio ma largamente disponibile, producendo la prima ciuìga. Un salame quasi vegetariano quello d’allora, con più rape che carne. La brassica rapa occupava il budello per tre quarti. Questo è quello che raccontano le biografie ufficiali della ciuìga in base alle quali il prossimo anno compirà 150 anni. Probabilmente, come molti altri salumi italiani (finocchiona, nduja, mortadella di Prato, la cicciolata di Giovannino Guareschi…) nati dall’arte della civiltà contadina di cavarsela con quello che si trovava in natura, la ciuìga ha una vicenda più antica, una tradizione lunga come la secolare fame delle popolazioni contadine montane. Non è azzardato supporre che Palmo Donati tradusse in industria quello che nelle povere famiglie montanare già si faceva: allungare la carne con le rosse radici carnose, gonfiando i budelli e moltiplicando i salumi appesi al baldacchino domestico per dare qualcosa di solido in pasto alla malnutrizione e sopravvivere fino alla fine dell’inverno. Che fine facevano le carni nobili del maiale allevato in famiglia? Si vendevano per raggranellare un po’ di soldi, per rimpolpare la scheletrica economia famigliare e pagare i debiti.Comunque fu grazie a Donati che la ciuìga crebbe come fama e «smorzafame». Altri macellai della zona lo imitarono e, di mano in mano, di maiale in maiale, di rapa in rapa, il tradizionale salume trentino arrivò fino a noi. Solo che le ciuìghe d’oggi sono ricche. Così va la storia d’Italia: dopo la generazione dei nonni, poveri e sgobboni, dopo quella dei genitori, divenuti benestanti, ecco la generazione dei nipoti, che campano di rendita. La ciuìga d’oggidì è un bel prodotto, un ghiotto e ricercato salume che non si confeziona più con gli scarti del suino ma con i tagli ricchi, quelli che una volta erano venduti per sostenere la misera rendita famigliare: spalla, coppa, pancetta, gola. E se una volta c’erano nella ciuìga più rape (dal 60 al 70%) che carne (dal 30 al 40%), adesso la percentuale è rovesciata. Ma la preparazione comincia sempre dalle rape: tagliate a fette, vengono cotte e pressate per togliere l’acqua che danneggerebbe sia il gusto sia la conservazione. Si mescola poi l’impasto unendo le rape con la carne di porco e si aromatizza il tutto con aglio tritato, sale e pepe. Quando il salume veniva fatto in famiglia, la salatura la decideva la madrivìda, la mamma: era lei che conosceva il gusto della famiglia e che dettava la quantità di sale da usare nell’amalgama che si insaccava nel budello naturale e si legava secondo tradizione a forma di pigna. Si passavano i salumi così ottenuti all’affumicatura: una settimana o poco più in un locale con la cucina economica e con fuoco di pino e rami di ginepro per dare più aroma. Dopo l’affumicatura, la stagionatura: tre o quattro settimane nel locale di conservazione, non di più perché la ciuìga è un salume da consumare fresco con la polenta o con le patate. Oppure cotto, bollito in acqua come un cotechino per una ventina di minuti e servito in tavola con i crauti, le patate bollite o con il purè.Il metodo, più o meno, è rimasto lo stesso. Il gastronauta Davide Paolini, nell’atlante dei Prodotti tipici d’Italia, puntualizza che «le rape vengono macinate e poste per un paio di giorni in una cassa forata dove vengono pressate per far uscire l’acqua», che si usa un budello di manzo e che la permanenza nel locale di stagionatura non deve protrarsi per più di un mese. Dove acquistare la ciuìga? Alla Famiglia cooperativa Brenta Paganella di San Lorenzo in Banale. «La nostra è una cooperativa di consumo», spiega Fabio Armanini, il direttore. «La Famiglia è fatta da un gruppo di soci che versano una quota per avere, in cambio, un tot di ciuìghe. Il resto lo comperano i turisti che affollano in estate e inverno le nostre montagne. La ciuìga è di moda, è un prodotto di nicchia che piace a tutti, italiani, olandesi, rumeni e russi. La produzione della ciuìga va da ottobre-novembre fino a marzo. San Lorenzo celebra ogni anno la sagra della ciuìga. Quest’anno i giorni della festa organizzata dalla Pro loco sono dal 31 ottobre al 3 novembre. Oltre alla sagra, ci sono molti buoni ristoranti del territorio che la propongono nei loro menu».Sulla polenta da servire per gustare la ciuìga fresca tagliata a fette, nessuna discussione: il salume di San Lorenzo si sposa alla perfezione con la polenta di Storo, l’oro giallo della valle del Chiese. Per Giuseppe Casagrande, decano dei giornalisti enogastronomici trentini, che ha cantato le lodi alla ciuìga su quotidiani e riviste, non ci sono dubbi: «La ciuìga si accompagna magnificamente con la polenta di farina integrale di Storo. Sono figlie della stessa terra. Suggerisco di aggiungere un sughetto particolare a base di funghi oppure di insaporire il salume con una senape per bilanciarne il gusto. La ciuìga ha un gusto forte, degna di buongustai con appetiti robusti che amano e sanno capire questi piatti dell’aria, del clima freddo. Oltre che con la polenta di Storo la ciuìga va provata con i crauti della Valle di Gresta, chiamata la Valle degli Orti per i suoi splendidi ortaggi, e con le patate, bianche, gialle e viola, del vicino altopiano di Lomaso. Ultimo consiglio: provate la ciuìga con la spressa delle giudicarie, un formaggio, fresco o stagionato, che la completa. Romeo e Giulietta del gusto.