2024-11-08
Chi non ha capito nulla ora ci spiega che è successo
Che meraviglia gli articoli di quelli che ti spiegano le cose che non hanno capito. Il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris e il trionfo di Donald Trump è tutto un fiorire di analisi che raccontano gli errori della candidata democratica e descrivono i cambiamenti dell’America profonda. Peccato che le stesse persone che oggi ci illustrano che cosa non ha funzionato nella campagna della vicepresidente degli Stati Uniti siano quelle che fino all'altro ieri assicuravano la sua rimonta e davano per quasi certa la débâcle di colui che era descritto come un pagliaccio sul viale del tramonto. Fino all’ultimo ci hanno assicurato che la Harris era in testa e aveva scavalcato Trump. Da Gianni Riotta a Maurizio Molinari, da David Parenzo a Massimo Giannini: tutti i nostri disinformati speciali si dimostravano certi che la «ragazzaccia di Oakland» (copyright Giannini) ce l’avrebbe fatta perché, come a metà agosto scrisse Massimo Gaggi, editorialista dagli States per il Corriere della Sera, «Donald annaspa, disorientato dal cambiamento radicale della corsa… incapace di prendere le misure e contenere il tandem Harris-Walz. Da leone ferito a leone in gabbia… Furibondo per il successo della sua avversaria… finisce per cadere nel ridicolo». Così, senza accorgersi che erano proprio loro, gli «esperti» di cose americane, a ripetere pari pari gli stessi errori fatti nel 2016, quando davano per spacciato il tycoon, descrivendolo come un fenomeno da baraccone. Non contenti di aver toppato, il giorno dopo la sconfitta di Kamala Harris, e dell’establishment democratico dei clan Obama, Clinton e Pelosi, hanno preso carta e penna e hanno cominciato a spiegare le ragioni della sconfitta. «Per comprendere da dove viene l’onda popolare che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca bisogna entrare dentro le ferite dell’America: dai centri per senzatetto alle drogherie, dai campus universitari ai quartieri più insicuri delle aree urbane», era l’incipit di un reportage da New York dell’ex direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. E vai con qualche centinaio di righe per spiegare i disagi degli Stati Uniti d’America. L’inflazione che flagella gli stipendi e fa salire i prezzi di uova, carne, pollo, frutta, verdura e snack. La criminalità che rende le città insicure dopo che il movimento Black lives matter ha indotto sindaci e governatori a tagliare i fondi alla polizia. L’immigrazione fuori controllo che nel solo 2020 ha portato a dover accogliere, a spese dell’amministrazione di New York, 120.000 persone. Le università invase dalle manifestazioni pro Palestina e dalla cultura «woke». Tutto vero, certo. Queste sono alcune delle ragioni che hanno spinto gli americani a votare Trump. Ma forse sarebbe stato interessante leggere queste argomentazioni prima e non dopo. E invece, fino al 5 novembre la stampa italiana e anche quella internazionale le motivazioni alla base del consenso di Trump le hanno ignorate, facendo finta di credere che gli elettori del tycoon fossero persone rozze, che credevano alle balle di un imbroglione, di un pallone gonfiato dai milioni accumulati evadendo le tasse. Molti fra coloro che oggi ci spiegano che cosa è accaduto, fino a qualche settimana fa ridevano dei discorsi di Trump, dei suoi riferimenti al prezzo delle uova. E nessuno di loro ha dichiarato apertamente guerra, con editoriali o inchieste, alle stupidaggini della cultura che ritiene ogni uomo bianco eterosessuale colpevole di discriminazioni contro le minoranze nere e contro i gay. Neppure mi pare di aver letto inchieste per smontare le accuse di razzismo nei confronti di coloro che si lamentano dell’aumento della criminalità come conseguenza di un incremento dell’immigrazione illegale. Anzi, fino a ieri proprio gli stessi giornali che ora scoprono le ferite d’America «che hanno spinto un popolo impaurito fra le braccia di Trump», lamentavano l’aggressività di quel popolo e accusavano l’ex presidente di fomentare l’odio, e anzi, quando è finito nel mirino di un fucile semiautomatico, quasi hanno scritto che la colpa era sua, per aver creato un clima infuocato.Leggere i commenti al voto di quelli che hanno capito tutto, ma il giorno dopo, è in effetti uno spasso. Soprattutto perché gli autori delle profonde analisi sono gli stessi che poi, in Patria, non riescono a comprendere perché Giorgia Meloni abbia tanto credito. Anni di governi della sinistra hanno impoverito i salari, ma loro se ne sono accorti solo ora. Decenni di politiche dell’accoglienza favorite dai compagni hanno creato una situazione di insicurezza nelle città che secondo loro è solo figlia della percezione e della propaganda delle destre. Fosse per loro la cultura woke, quella che vede razzisti e fascisti in ogni dove, sarebbe pure legge, grazie al famoso ddl Zan. E però continuano a pensare che la vittoria «dell’underdog della Garbatella» (copyright Giannini) sia un incidente della storia a cui presto, loro e i loro compagni, porranno rimedio. Magari con l’aiuto di qualche amico giudice. Infatti, mentre a sorpresa si sono accorti delle ferite dell’America, ancora non hanno aperto gli occhi su quelle dell’Italia (e dell’Europa).
Massimo Doris (Imagoeconomica)
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