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2024-09-27
«Chemsex», il docufilm Sky sul mondo della droga dello stupro
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«Chemsex - La droga dello stupro» (Sky)
Alberto Genovese è il primo motore della narrazione. La sua ostentata magnificenza, le feste opulente, organizzate su quella che sarebbe stata ribattezzata «Terrazza Sentimento», lo stuolo di ragazzine, stordito e poi violato. Il modus operandi dell’imprenditore, condannato a sei anni e undici mesi di carcere, è ricostruito con dovizia di dettagli. Ma Chemsex, per quel che lo riguarda, finisce lì.
Lo scopo sotteso al documentario non è quello di ricostruire la vicenda Genovese, di far da cassa di risonanza al suo pentimento presunto, alle richieste che il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha rigettato. Non c’è alcun approfondimento particolare del caso, che, anzi, è universalizzato: primo fra i tanti che hanno come fulcro l’uso di queste nuove droghe.Chemsex – La droga dello stupro è un’analisi del mercato relativo alle sostanze stupefacenti. È il tentativo di capire come questo sia mutato, come il web lo abbia reso immenso e dinamico, accessibile e pure facilmente. Il Gbl, gamma-butirrolattone, che diventa Ghb a contatto con la saliva, è la più usata fra le sostanze che rientrano nella categoria di «Chemsex», principi chimici in grado di facilitare la prestazione sessuale. Reperirla è cosa che qualsivoglia individuo dotato di computer o smartphone può fare in pochi minuti. La si compra su Internet, comodamente racchiusa all’interno di un flaconcino. Non la si deve tagliare né preparare. Così com’è, la si versa in un bicchiere. Non ha odore, meno che mai sapore. Accorgersi di assumerla è impossibile. Ricordare come, quasi. Una volta bevuta, la droga dello stupro agisce in fretta. Dieci, quindici minuti, e si perde conoscenza, perdendo parimenti la capacità mnemonica. Il ritorno alla consapevolezza richiede ore, cinque all’incirca.«In venticinque anni di mestiere, ho raccolto molte testimonianze: è il modo che preferisco di fare inchieste, perché nessuna carta giudiziaria lascia emergere esperienze ed emozioni quanto i racconti delle persone coinvolte», ha spiegato Romina Marceca, cronista di Repubblica e autrice, insieme a Daniele Autieri, del documentario. «Non c’è un’età più colpita di altre, tra le vittime. Ho parlato con donne dai 18 ai 50 anni, che stavano attraversando periodi particolari della loro vita quando hanno incontrato lo stupratore. Stefania, per esempio, è una persona matura, ma era in un momento di fragilità dopo il lutto della madre.
Bianca, violentata a Capodanno del 2020, è figlia di un diplomatico ed è cresciuta cambiando spesso città. Maria, 20enne drogata da un ex calciatore e filmata durante la violenza, era arrivata dal Perù cercando una vita migliore in Italia. In Chemsex, appare anche una 32enne che ha scelto di studiare Psicologia e, oggi, è una terapeuta, forse proprio per il trauma subito a 16 anni, quando le sostanze usate erano diverse da quelle che circolano oggi. Uscita da scuola, un ragazzo della Roma bene le aveva proposto di bere qualcosa al bar. Era stata la madre, vedendola rientrare tardi con i leggings a rovescio, a portarla in ospedale, dove sono emerse le tracce di una violenza che la figlia non ricordava». Di queste donne, alcune parlano nel documentario, rievocando casi di cronaca su cui, poi, esperti di diversa natura sono chiamati a pronunciarsi. «Con Chemsex, Sky Crime rinnova la sua attenzione alle tematiche sociali. Questo nuovo speciale cercherà di far luce su un fenomeno che sta diventando sempre più pericoloso, specialmente tra le nuove generazioni. Siamo orgogliosi di portare avanti con Sky un impegno comune contro tutte le forme di violenza, sensibilizzando il pubblico e promuovendo consapevolezza», ha aggiunto Daniele Giuliani, Senior Director Programming and Acquisition A+E Networks Italia.
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La cronaca, nel caso dell’ultimo documentario Sky Original, non è il fine, ma il mezzo: il pretesto attraverso il quale raccontare cosa sia la droga dello stupro, a quale diffusione capillare sia andata incontro, quanto difficile sia riconoscerla e, con ciò, evitarla. Chemsex – La droga dello stupro, in onda alle 22.55 di martedì 24 e mercoledì 25 settembre su Sky Crime (e disponibile poi su Now Tv), è un lavoro d’inchiesta, in cui il Ghb, il Gbl e il Bd sono contestualizzati all’interno della cronaca più recente.Alberto Genovese è il primo motore della narrazione. La sua ostentata magnificenza, le feste opulente, organizzate su quella che sarebbe stata ribattezzata «Terrazza Sentimento», lo stuolo di ragazzine, stordito e poi violato. Il modus operandi dell’imprenditore, condannato a sei anni e undici mesi di carcere, è ricostruito con dovizia di dettagli. Ma Chemsex, per quel che lo riguarda, finisce lì. Lo scopo sotteso al documentario non è quello di ricostruire la vicenda Genovese, di far da cassa di risonanza al suo pentimento presunto, alle richieste che il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha rigettato. Non c’è alcun approfondimento particolare del caso, che, anzi, è universalizzato: primo fra i tanti che hanno come fulcro l’uso di queste nuove droghe.Chemsex – La droga dello stupro è un’analisi del mercato relativo alle sostanze stupefacenti. È il tentativo di capire come questo sia mutato, come il web lo abbia reso immenso e dinamico, accessibile e pure facilmente. Il Gbl, gamma-butirrolattone, che diventa Ghb a contatto con la saliva, è la più usata fra le sostanze che rientrano nella categoria di «Chemsex», principi chimici in grado di facilitare la prestazione sessuale. Reperirla è cosa che qualsivoglia individuo dotato di computer o smartphone può fare in pochi minuti. La si compra su Internet, comodamente racchiusa all’interno di un flaconcino. Non la si deve tagliare né preparare. Così com’è, la si versa in un bicchiere. Non ha odore, meno che mai sapore. Accorgersi di assumerla è impossibile. Ricordare come, quasi. Una volta bevuta, la droga dello stupro agisce in fretta. Dieci, quindici minuti, e si perde conoscenza, perdendo parimenti la capacità mnemonica. Il ritorno alla consapevolezza richiede ore, cinque all’incirca.«In venticinque anni di mestiere, ho raccolto molte testimonianze: è il modo che preferisco di fare inchieste, perché nessuna carta giudiziaria lascia emergere esperienze ed emozioni quanto i racconti delle persone coinvolte», ha spiegato Romina Marceca, cronista di Repubblica e autrice, insieme a Daniele Autieri, del documentario. «Non c’è un’età più colpita di altre, tra le vittime. Ho parlato con donne dai 18 ai 50 anni, che stavano attraversando periodi particolari della loro vita quando hanno incontrato lo stupratore. Stefania, per esempio, è una persona matura, ma era in un momento di fragilità dopo il lutto della madre.Bianca, violentata a Capodanno del 2020, è figlia di un diplomatico ed è cresciuta cambiando spesso città. Maria, 20enne drogata da un ex calciatore e filmata durante la violenza, era arrivata dal Perù cercando una vita migliore in Italia. In Chemsex, appare anche una 32enne che ha scelto di studiare Psicologia e, oggi, è una terapeuta, forse proprio per il trauma subito a 16 anni, quando le sostanze usate erano diverse da quelle che circolano oggi. Uscita da scuola, un ragazzo della Roma bene le aveva proposto di bere qualcosa al bar. Era stata la madre, vedendola rientrare tardi con i leggings a rovescio, a portarla in ospedale, dove sono emerse le tracce di una violenza che la figlia non ricordava». Di queste donne, alcune parlano nel documentario, rievocando casi di cronaca su cui, poi, esperti di diversa natura sono chiamati a pronunciarsi. «Con Chemsex, Sky Crime rinnova la sua attenzione alle tematiche sociali. Questo nuovo speciale cercherà di far luce su un fenomeno che sta diventando sempre più pericoloso, specialmente tra le nuove generazioni. Siamo orgogliosi di portare avanti con Sky un impegno comune contro tutte le forme di violenza, sensibilizzando il pubblico e promuovendo consapevolezza», ha aggiunto Daniele Giuliani, Senior Director Programming and Acquisition A+E Networks Italia.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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