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2022-06-30
«We own this city», la serie da vedere per chi ha amato «The Wire»
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(HBO/Warner Media)
«We own this city», «La possediamo noi, questa città», dove «noi» non sono i criminali, le bande solite rivendicare la proprietà anarchica di strade e piazze, ma i poliziotti, coloro che più di tutti dovrebbero avere a cuore la legge. We own this city, adattamento televisivo dell’inchiesta omonima condotta da Justin Fenton, giornalista del Baltimora Sun, è stato venduto come il seguito ideale di The Wire. Una sua continuazione contemporanea. Ma, diversamente dalla serie che ha fatto epoca, We own this city non ha l’ambizione di mantenersi entro i confini accoglienti della verosimiglianza. Non vuole, cioè, raccontare qualcosa che possa essere credibile senza però essere vero. Non vuole alludere. Vuole concludere. We own this city, su Sky Atlantic dalla prima serata di martedì 28 giugno, è la trasposizione in immagini di quello che il New York Times ha definito «uno dei più scioccanti scandali di corruzione della polizia in una generazione». Si è a Baltimora. È il 2017, nella serie tv. Ma i piani temporali si affastellano, e la narrazione procede avanti e indietro, a fissare i limiti cronologici di un evento che ha determinato lo strappo definitivo fra la polizia di Baltimora e gli abitanti della città. Baltimora, maestosa protagonista di The Wire, è la stessa città che si è imparato a conoscere con la prima serie di David Simon. Ma il campo, in We own this city, anch’essa scritta da Simon, è diverso, ristretto. Quel che in The Wire, nelle sue cinque stagioni, si è articolato così da coprire il racconto di istituzioni e quartieri, delle strade, dei suoi abitanti, dei traffici criminali e di quelli politici, in We own this city si è ridotto fino a restituire un quadro specifico della società urbana di Baltimora: quello dipinto dalle forze dell’ordine, dal comparto che avrebbe dovuto costituirne l’eccellenza.
È il 2017, e due anni sono passati dalla morte in custodia di Freddie Gray, venticinquenne afroamericano. Colpevoli, però, non se ne sono individuati. Le accuse contro sei poliziotti sono state fatte cadere, e più nessuno si è preoccupato di far luce su un delitto che ha esasperato brutalmente i rapporti fra il corpo di polizia e gli abitanti di Baltimora. Ha creato paura, tensione. Ha portato diversi agenti a chiedere di essere tolti dalle strade per evitare ripercussioni, per scappare ad atti violenti di giustizia individuale. Baltimora è diventata terreno di una guerra silenziosa, ed è qui, entro i limiti geografici di una città in tumulto, che Simon presenta ai propri spettatori la Gun Trace Task Force, un corpo interno al Dipartimento di Polizia locale. Dovrebbe essere il fiore all’occhiello delle forze dell’ordine, il braccio armato e giusto della legge. Invece, la Gun Trace Task Force, responsabile dello scandalo di cui ha detto (anche) il New York Times, è un coacervo di brutalità, egoismi, porcherie. Il Sergente Wayne Jenkins, il volto di Jon Bernthal, e Daniel Hersl, interpretato da Josh Charles, di questo coacervo sono fra i protagonisti più attivi. E li si vede rubare, nella miniserie. Li si vede cercare un capro espiatorio, così da avere qualcosa, qualcuno da dare in pasto a chi chiede più sicurezza, più arresti. Li si vede spartirsi quel che c’è da spartirsi, droga, soldi, giri di contrabbando. Li si vede picchiare e brutalizzare le proprie vittime, abusare del distintivo e dei poteri che ne sono figli. Soprattutto, li si vede muoversi a Baltimora con la prosopopea strafottente di chi non conosce se stesso, non ha contezza della propria vera natura, di quanto intimamente sbagliati siano i propri mezzi e i propri fini.
We own this city, formalmente studiata per riproporre al mondo lo scandalo che ha travolto la Gun Trace Task Force di Baltimora e raccontarne quindi l’ascesa e la caduta, è, in realtà, molto di più: una storia di orrori protetta dalla legge, uno studio umano sul male nella sua forma più misera, la testimonianza di istinti ed individualismi che non hanno un’origine geografica. Non sono di Baltimora o a Baltimora. Sono dell’uomo, ed è in questa consapevolezza, banale forse, che Simon ha trovato la forza della propria narrazione, portando la sua miniserie ad essere specchio universale di quel che a volte, spesso siamo, creature abiette, egoiste e presuntuose.
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A vent’anni dal suo capolavoro, David Simon è tornato a Baltimora. E, questa volta, ha deciso di raccontare una storia vera.«We own this city», «La possediamo noi, questa città», dove «noi» non sono i criminali, le bande solite rivendicare la proprietà anarchica di strade e piazze, ma i poliziotti, coloro che più di tutti dovrebbero avere a cuore la legge. We own this city, adattamento televisivo dell’inchiesta omonima condotta da Justin Fenton, giornalista del Baltimora Sun, è stato venduto come il seguito ideale di The Wire. Una sua continuazione contemporanea. Ma, diversamente dalla serie che ha fatto epoca, We own this city non ha l’ambizione di mantenersi entro i confini accoglienti della verosimiglianza. Non vuole, cioè, raccontare qualcosa che possa essere credibile senza però essere vero. Non vuole alludere. Vuole concludere. We own this city, su Sky Atlantic dalla prima serata di martedì 28 giugno, è la trasposizione in immagini di quello che il New York Times ha definito «uno dei più scioccanti scandali di corruzione della polizia in una generazione». Si è a Baltimora. È il 2017, nella serie tv. Ma i piani temporali si affastellano, e la narrazione procede avanti e indietro, a fissare i limiti cronologici di un evento che ha determinato lo strappo definitivo fra la polizia di Baltimora e gli abitanti della città. Baltimora, maestosa protagonista di The Wire, è la stessa città che si è imparato a conoscere con la prima serie di David Simon. Ma il campo, in We own this city, anch’essa scritta da Simon, è diverso, ristretto. Quel che in The Wire, nelle sue cinque stagioni, si è articolato così da coprire il racconto di istituzioni e quartieri, delle strade, dei suoi abitanti, dei traffici criminali e di quelli politici, in We own this city si è ridotto fino a restituire un quadro specifico della società urbana di Baltimora: quello dipinto dalle forze dell’ordine, dal comparto che avrebbe dovuto costituirne l’eccellenza. È il 2017, e due anni sono passati dalla morte in custodia di Freddie Gray, venticinquenne afroamericano. Colpevoli, però, non se ne sono individuati. Le accuse contro sei poliziotti sono state fatte cadere, e più nessuno si è preoccupato di far luce su un delitto che ha esasperato brutalmente i rapporti fra il corpo di polizia e gli abitanti di Baltimora. Ha creato paura, tensione. Ha portato diversi agenti a chiedere di essere tolti dalle strade per evitare ripercussioni, per scappare ad atti violenti di giustizia individuale. Baltimora è diventata terreno di una guerra silenziosa, ed è qui, entro i limiti geografici di una città in tumulto, che Simon presenta ai propri spettatori la Gun Trace Task Force, un corpo interno al Dipartimento di Polizia locale. Dovrebbe essere il fiore all’occhiello delle forze dell’ordine, il braccio armato e giusto della legge. Invece, la Gun Trace Task Force, responsabile dello scandalo di cui ha detto (anche) il New York Times, è un coacervo di brutalità, egoismi, porcherie. Il Sergente Wayne Jenkins, il volto di Jon Bernthal, e Daniel Hersl, interpretato da Josh Charles, di questo coacervo sono fra i protagonisti più attivi. E li si vede rubare, nella miniserie. Li si vede cercare un capro espiatorio, così da avere qualcosa, qualcuno da dare in pasto a chi chiede più sicurezza, più arresti. Li si vede spartirsi quel che c’è da spartirsi, droga, soldi, giri di contrabbando. Li si vede picchiare e brutalizzare le proprie vittime, abusare del distintivo e dei poteri che ne sono figli. Soprattutto, li si vede muoversi a Baltimora con la prosopopea strafottente di chi non conosce se stesso, non ha contezza della propria vera natura, di quanto intimamente sbagliati siano i propri mezzi e i propri fini. We own this city, formalmente studiata per riproporre al mondo lo scandalo che ha travolto la Gun Trace Task Force di Baltimora e raccontarne quindi l’ascesa e la caduta, è, in realtà, molto di più: una storia di orrori protetta dalla legge, uno studio umano sul male nella sua forma più misera, la testimonianza di istinti ed individualismi che non hanno un’origine geografica. Non sono di Baltimora o a Baltimora. Sono dell’uomo, ed è in questa consapevolezza, banale forse, che Simon ha trovato la forza della propria narrazione, portando la sua miniserie ad essere specchio universale di quel che a volte, spesso siamo, creature abiette, egoiste e presuntuose.
Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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