2022-02-07
Caro Amadeus, ora metta sul palco una culla
Caro Amadeus, lo so che lei è abituato a valanghe di complimenti e alle telefonate di Sergio Mattarella, e perciò la mia povera cartolina forse non le arriverà nemmeno. Ma avrei una piccola richiesta da farle a nome di una minoranza di italiani ormai dimenticata da tutti. Ho assistito in questi giorni al suo trionfo personale, ai suoi grandi ascolti e alla sua capacità di far girare al meglio il gran carrozzone popolare del festival. Lei è bravissimo nel riuscirci senza far mai nulla di straordinario, quasi scomparendo (in fondo Checco Zalone le ha fatto il complimento più bello: lei ci fa sentire tutti dei geni, è una specie di ricostituente naturale dell’autostima). E per tutto ciò si merita gli applausi che le sono stati tributati. Ma c’è una cosa che mi è andata un po di traverso: più che al festival di Sanremo infatti mi è sembrato di assistere al festival di SanZan, nel senso della legge, ovviamente. Così cambiano i tempi: una volta cantavamo Azzurro. Ora cantiamo arcobaleno. È stato un tripudio di smalti rosa, parrucche, amori saffici, baci gay, tensione omoerotica alle stelle, come ha scritto il Messaggero, definendo la settantaduesima edizione della rassegna canora con l’etichetta più adeguata: festival fluido. Ma sì, siamo tutti fluidi, abbiamo abbattuto il genere: in attesa di farlo definitivamente nella nostra società abbiamo cominciato a farlo in quella solenne rappresentazione della nostra società che è l’Ariston. Così sono arrivati Checco Zalone con la canzone sui trans (però un po contestata: era troppo ironica e poco militante), Drusilla Foer, la prima conduttrice en travesti, celebrata e venerata come se fosse la Madonna delle Querce; Michele Bravi memore del suo outing; la Rappresentante di lista memore delle sue battaglie gender; Emma paladina dei diritti Lgbtq+, Sangiovanni total pink, ovviamente i brividi dell’amore omosessuale cantati da Blanco e Mahmood e tutto il resto. Persino la povera Orietta Berti, che pure da una vita è sposata alla vecchia maniera con Osvaldo, si è accaparrata il titolo di icona gay. Un’etichetta che fa comodo a tutti, di questi tempi. Ora, caro Amadeus, io mi rendo conto che ciò genera consenso e ascolti. Però, ecco, non so come dirglielo: non genera bambini. Lei mi dirà che il compito di Sanremo non è quello di generare bambini, e ha ragione. Però vede, l’altra notte, dopo aver fatto il pieno di icone gay e indigestioni arcobaleno, ho pensato al drammatico problema delle nascite nel nostro Paese. Al fatto che non si fanno più figli. Che stiamo scomparendo. E mi è venuto in mente che, dopo tutta quest’orgia Lgbtq+, la cosa davvero trasgressiva sarebbe provare a spiegare una cosa rivoluzionaria. E cioè che uno può amare chi vuole, anche un cactus, se crede. Ma che per far nascere i bambini ci vuole l’amore di un uomo e di una donna. Perché la natura esiste e non la può cancellare nemmeno una canzone di Mahmood. E allora ho pensato che sarebbe bellissimo, e davvero trasgressivo, se su quel palco una volta, una volta sola, arrivasse una culla vuota e qualcuno che dicesse che la procreazione, nell’amore, non è un dettaglio. Se le affidano la quarta edizione del Festival, caro Amadeus, mi promette che almeno ci pensa?
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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