2022-07-23
Campo largo in soffitta? È già rissa al centro
Enrico Letta e Carlo Calenda (Massimo Di Vita/Archivio Massimo Di Vita/Mondadori Portfolio via Getty Images)
Mentre Dario Franceschini dà l’addio a Giuseppe Conte, sui dem si riversano i veti dei partitini. Carlo Calenda: «Mai con Di Maio e l’estrema sinistra». Poi accoglie Andrea Cangini e si azzuffa con Andrea Orlando. Al Nazareno intanto lavorano a un’accozzaglia senza Matteo Renzi, da Pier Luigi Bersani a Giuseppe Sala.«Io sono più draghiano di te». Anzi: «Io sono l’arbitro che stabilisce chi è draghiano e chi no». E infine, in un crescendo surreale: «Caro Partito democratico, io con te ci sto, ma a patto che non ci stia pure lui». Se non parlassimo di cose serie, ci sarebbe perfino da divertirsi per questa nuova gara di conformismo nazionale, con tutte le anime in pena del nascituro centrino impegnate a diramare convocazioni e a decretare espulsioni. Tutti ct della Nazionale «competente», tutti giudici dell’X Factor elettorale, tutti impegnati a proclamare pragmatismo e a praticare settarismo. Che Mario Draghi lo voglia o no (per decoro, gli basterebbe una battuta per mettere definitivamente a tacere i venditori di merci più o meno contraffatte), il suo nome servirà a due cose. A Enrico Letta e a tutto il caravanserraglio del centrosinistra, come corpo contundente da scagliare contro Fdi-Lega-Fi, autori - secondo la narrazione dem - del «draghicidio» (ieri Letta ha twittato: «L’Italia è stata tradita, il Pd la difende, tu sei con noi?»); ai piccolini del centro, più modestamente, come «logo» per darsi un’identità e ritagliarsi un microdividendo elettorale. Già ieri, sulla Verità, abbiamo fatto i nomi (delle sigle, dei capi e dei capetti). Nelle 24 ore successive, il quadro si è ulteriormente attorcigliato e complicato, nonostante che ormai manchi pochissimo alla presentazione di liste e candidature. Come spesso capita, quello che parla a voce più alta e con tono più aggressivo è Carlo Calenda, che ieri ha recapitato al Pd l’ennesimo aut aut: «Non c’è alcuna intenzione da parte di Azione di entrare in cartelli elettorali che vanno dall’estrema sinistra a Luigi Di Maio. Questi cartelli sono garanzia di ingovernabilità e sconfitta. Agenda Draghi e agenda Landini/Verdi non stanno insieme».A seguire, un grande classico, quello delle «porte aperte» a chi voglia aggregarsi: «Porte aperte», ha infatti proseguito Calenda, «a chi vuol venire a lavorare con noi su un’agenda repubblicana che dettaglieremo nei prossimi giorni. Il Pd deve scegliere, non sostituire i populisti con altri populisti. È il tempo della serietà». In altre parole, a Calenda - almeno in questa fase - non basta che il Pd molli il M5s contiano: Letta deve lasciare a piedi pure Di Maio e la sinistra rossoverde. Il concetto è rafforzato da Calenda con un paio di dita violentemente conficcate negli occhi di Andrea Orlando. Scrive infatti il capo di Azione: «Ricordatevi Orlando che va a complimentarsi con i 5 stelle dopo il loro intervento contro Draghi o che difende le ragioni di Conte a crisi aperta. Caro Enrico Letta, fai chiarezza in casa tua».A stretto giro di posta, sempre via social, è arrivata la replica piccata di Orlando, poco convincente nel merito («Non mi sono congratulato. Avevamo chiesto, tutto il Pd, di non annunciare il voto contrario e tenere uno spiraglio aperto. Ho detto al senatore M5s che speravo ci fosse ancora lo spazio per recuperare»), ma abbastanza efficace nel descrivere l’attitudine di Calenda al litigio («Se tutti avessero svolto il tuo ruolo, il governo Draghi sarebbe durato una settimana»). Bisticci social a parte, il quadro dei veti e delle idiosincrasie è presto fatto. Matteo Renzi e Calenda concordano (al momento) nel dire no a Di Maio e nel dire sì a Giovanni Toti. Ma tra di loro come va? Difficile capirlo. In settimana Renzi, parlando ai suoi parlamentari, ha descritto l’intesa con Calenda come opzione principale da perseguire, ma ha pure descritto un piano B (una misteriosa lista «R»: lettera che evocherebbe Renzi stesso, i riformisti, e il gruppo euromacronista Renew Europe). Il sospetto di molti è che Calenda punti a trattare per sé con il Pd, ingolosito da qualche sondaggio favorevole ad Azione, e anche dai possibili ingressi di Mariastella Gelmini e Renato Brunetta (e da quello certo di Andrea Cangini). Secondo questa versione, Calenda userebbe in proprio il suo potere negoziale. E il Pd? Secondo un retroscena di Repubblica (velenoso per i renziani), il partito guida della coalizione sarebbe intenzionato a scaricare il senatore di Rignano. Vecchi regolamenti di conti tra Letta e Renzi, si dirà (probabilmente non sbagliando la spiegazione). Ma la scusa impapocchiata al Nazareno è quella di un certo numero di elettori che sarebbero respinti dalla presenza di Renzi. In realtà - dietro anonimato - i critici dem della strategia di Letta fanno osservare tutt’altro. Certo, Letta spera di scatenare il solito armamentario antifascista contro Meloni e alleati. Ma se, com’è al momento probabile, l’operazione non riuscisse, allora scatterebbe il vero progetto del segretario del Pd: «Perdere bene», scegliendo uno per uno sia i suoi parlamentari (tutti a lui leali) e delineando un campo di alleanze che non gli creino problemi dopo il voto. Al momento il Pd, che è e resta padrone dei collegi uninominali nelle regioni rosse (merce con cui può salvare i capetti delle micro sigle), ha in mente una coalizione di quattro liste: ovviamente Pd (eventualmente recuperando anche Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza), poi una lista rossoverde, poi una lista civica nazionale (da affidare a Beppe Sala, imbarcando anche Di Maio), e poi la lista calendiana (in cui intruppare anche i ministri ex Fi, oltre alla zattera di + Europa). Starebbero fuori (ad oggi) i grillini: l’alleanza con un Giuseppe Conte ormai radioattivo sembra esclusa anche da Dario Franceschini, da sempre uno dei più dialoganti con il M5s. Resta invece da capire (ma pochi ci scommettono) se le formazioni centriste - o almeno qualcuna di esse - avranno il coraggio di correre da sole, senza elemosinare nulla dal Pd. Piaccia o no, Emmanuel Macron, il loro idolo, ha fatto così.
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Dario Franceschini (Imagoeconomica)
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