2024-03-05
Cacciata per il vaccino, ora le chiedono i soldi
Yvonne ottenne una borsa di studio per la scuola di specializzazione medica a Trieste, con l’impegno di lavorare in Italia per 4 anni. Ma fu sospesa per aver rifiutato il booster e si trasferì in Germania. Adesso la Provincia di Bolzano le intima di restituire 27.000 euro. L’azienda produttrice incitava a mangiare lo snack per sfida, senza informare dei rischi. Lo speciale contiene due articoli.L’avevano cancellata dalla scuola di specializzazione in neurologia perché non voleva fare il booster, oggi le chiedono di restituire i 25.000 euro della borsa di studio. Capita a una dottoressa, privata dei suoi diritti in epoca Covid e ancora perseguitata. L’accanimento, che si coglie in vicende come quelle che riguardano Yvonne Aprea dovrebbe chiudere la bocca a quanti strepitano perché, «senza motivo», sarebbe stata istituita la commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia. Il medico, che risiede a Roma, nel 2020 aveva partecipato a un concorso nazionale per la concessione di posti di formazione specialistica e si era aggiudicata un posto finanziato dalla Provincia autonoma di Bolzano, sempre alla ricerca di laureati in medicina considerata la penuria di professionisti sul territorio. Ottiene una borsa di studio con la quale, il 21 gennaio 2021, si iscrive alla Scuola di specializzazione in neurologia dell’Università degli studi di Trieste. «Frequentavo con regolarità, era mio interesse portare a termine la formazione per poi andare a lavorare nel servizio sanitario pubblico della provincia di Bolzano», racconta la dottoressa, bilingue essendo nata in Germania, cittadina italiana. Secondo la legge provinciale del 2008, infatti, i beneficiari del sostegno agli studi si impegnano a lavorare per l’azienda sanitaria dell’Alto Adige nei quattro anni successivi alla specializzazione. C’era l’emergenza Covid e Yvonne Aprea si vaccina, convinta. Due dosi, poi da buon medico che approfondisce, che valuta i contributi di scienziati internazionali, matura la decisione di non fare il richiamo. Scelta perfettamente legittima, adottata da molti che iniziarono a comprendere quanto stonato fosse il coro pro vaccinazioni ripetute, e che il vaccino anti Covid non era poi tanto sicuro. Impossibile denigrarla come medico «no vax», eppure anche la Aprea ha sperimentato sulla sua pelle la discriminazione in nome del green pass. Il primo febbraio 2022, il rettore dell’Università di Trieste, Roberto Di Lenarda, decide «di sospendere la formazione specialistica» della dottoressa, «fino alla presentazione della certificazione verde Covid-19 e comunque non oltre il 15 giugno 2022 e, per conseguenza, di sospendere l’erogazione del trattamento economico per il periodo corrispondente». Il rettore era quello che nell’agosto del 2021 dichiarava sul Corriere della Sera: «Noi non possiamo far finta che non esista l’obbligo per gli studenti universitari di avere il green pass: l’obbligo serve per spingere gli studenti a vaccinarsi, non per garantire ai no vax di stare a casa e fare gli esami a distanza». Difendeva la scelta imposta dal suo ateneo: «In tutti i casi, sia che gli esami siano svolti in presenza o da remoto, gli studenti sono tenuti al possesso della certificazione o di analogo documento previsto dal presente protocollo». L’anno dopo, inasprisce le regole e la dottoressa non può più seguire la formazione in neurologia. Rimane senza borsa di studio, però non cede al ricatto e rifiuta di fare il richiamo. Così, implacabile, arriva il decreto del rettore che in data 23 luglio 2022 cancella l’iscrizione della dottoressa Aprea dalla scuola di specializzazione. Privata del diritto di seguire il percorso formativo post laurea, senza possibilità di lavorare in Italia senza certificato verde, il medico decide di andare a svolgere la professione in Germania, dove nel frattempo si iscrive a un’altra scuola di specializzazione seguendo psichiatria. «Continuavo a scrivere alla Provincia autonoma di Bolzano, mettendomi a disposizione per lavorare anche come medico di famiglia. Non mi hanno mai risposto», precisa la dottoressa. Eppure, l’Alto Adige continua a lamentare la mancanza di medici. Nell’aprile del 2022 il presidente della Provincia, Arno Kompatscher, decise di assumere a tempo determinato e a part time giovani medici che frequentano il terzo anno di specialità presso le Università di Verona o di Padova «per contrastare la carenza di medici specialisti». E quasi due medici di medicina generale su tre (63,7%) di Bolzano ha più di 1.500 assistiti. L’epilogo di questa brutta storia è a dir poco vergognoso. L’11 gennaio scorso, dall’ufficio salute dell’Alto Adige è stata inviata a Yvonne Aprea l’intimazione a restituire «entro 30 giorni» i 25.347,14 euro della borsa di studio che le erano stati accordati, più gli interessi legali maturati di euro 1.600,24. La motivazione? Perché non ha rispettato l’impegno di lavorare per quattro anni nel servizio sanitario pubblico della Provincia autonoma, una volta terminata la specializzazione. Cioè, prima le viene impedito di frequentare la scuola di formazione e di concludere la specialità solo perché seguiva la scienza e non il dio vaccino, poi le dicono di rendere un anno di finanziamento che se è andato «a perdere», non è certo per colpa del medico. In caso di inadempimento entro il termine previsto, «l’Ufficio Entrate avvierà la procedura di riscossione coattiva», avverte minacciosa la Provincia a guida Kompatscher. Nessuna possibilità di rateizzare l’importo (si tratta di 27.000 euro), «nessun ricorso ammesso». Insomma, doppio danno, doppia beffa.«La mia assistita è vittima di un eclatante falso ideologico e di violenza privata», dichiara l’avvocato Renate Holzeisen, legale della dottoressa. Considerato che «a interrompere e recedere dal rapporto di formazione professionale era l’Università di Trieste in persona del suo rettore», l’avvocato ritiene che la Provincia autonoma dovrebbe esigere il pagamento da quell’ateneo. In ogni caso, conclude, «un trattamento come quello riservato alla mia mandante certo non aumenta l’attrattività del Sudtirolo per nuovi medici».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cacciata-per-vaccino-chiedono-soldi-2667434197.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lantitrust-blocca-spot-e-vendita-delle-patatine-piu-piccanti-al-mondo" data-post-id="2667434197" data-published-at="1709657919" data-use-pagination="False"> L’Antitrust blocca spot e vendita delle patatine più piccanti al mondo La «Hot Chip Challenge» finisce nella sua stessa bara. L’Antitrust ha infatti bloccato pubblicità e vendita delle patatine più piccanti del mondo, dall’insolita confezione a forma di cassa funebre. Dopo la segnalazione dell’Unione nazionale dei consumatori, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha così concluso il procedimento avviato nei confronti della società Dave’s, con sede legale nella Repubblica Ceca, distributrice della chip piccante molto popolare tra i giovani su Tik Tok e che si poteva acquistare su Amazon per 15 dollari.Lo scorso settembre un quattordicenne del Massachusetts sarebbe morto nella sfida lanciata dal tam tam sui social, legata proprio al consumo dello snack il cui livello di piccantezza è di 2,2 milioni di gradi nella scala Scoville (come riportato dal sito del produttore). Per rendersi conto, basti pensare che il nostro peperoncino «diavolicchio calabrese» raggiunge appena i 150.000 gradi. Secondo l’Authority, la società produttrice distribuiva delle chip a base di patate ma arricchite di ingredienti per renderle particolarmente piccanti, incitando già con il nome «Hot Chip challenge» soprattutto i giovani, a sfidarsi, consumandole senza bere e resistendo alla piccantezza, come sollecitava il claim: «Quanto riuscirai a resistere senza correre a bere qualcosa che spenga questo incendio?». E infatti l’Antitrust ha individuato «profili di illegittimità» della pratica commerciale proprio nell’induzione a «una sfida rivolta perlopiù a consumatori adolescenti senza un’adeguata comunicazione delle informazioni sui rischi per la salute connessi all’uso del prodotto trascurando quindi le normali regole di prudenza e vigilanza. L’azienda avrebbe seguito una condotta connotata da profili di particolare pericolosità in considerazione della giovane età dei potenziali acquirenti, ovvero in considerazione della risonanza che la stessa sfida è in grado di avere attraverso la massiccia diffusione sui social», che «potrebbe integrare una fattispecie di pratica commerciale scorretta in violazione del Codice del consumo». Inoltre l’Antitrust ha contestato «la mancanza di informazioni rilevanti su un prodotto alimentare che poteva mettere in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, specie se bambini o adolescenti» e nella nota a conclusione del procedimento precisa di essere «intervenuta con successo per tutelare i consumatori più giovani e più influenzabili da messaggi che li inducono a mangiare prodotti anche pericolosi, facendo leva sulla loro propensione ad accogliere le sfide».Queste dunque le motivazioni con cui l’Antitrust ha deliberato la sospensione provvisoria della vendita posta in essere dal distributore del prodotto in Italia, dato che le condotte «caratterizzate da rilevanti profili di aggressività e ingannevolezza sono ancora in atto e sono caratterizzate da un elevato grado di offensività e suscettibili di produrre effetti gravi e irreparabili in quanto idonee, a porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, in particolare, consumatori più fragili e vulnerabili».
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