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2022-07-18
C'era una casa tanto carina. L'Italia dei palazzi che cadono a pezzi
Il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, striglia gli industriali sollecitandoli ad investire di più in cultura ma il ministero che dirige non può certo ergersi ad arbitro e dispensare bocciature. Gran parte del patrimonio storico artistico è in stato di totale abbandono e soffre un degrado quasi irreversibile. A questo si aggiunge il patrimonio immobiliare lasciato deperire per incuria o perché non più funzionale. È uno scenario fatiscente ed è difficile risalire la filiera delle responsabilità.
La Carta del Rischio della Direzione generale Sicurezza del Patrimonio culturale presso il ministero dei Beni Culturali, ha schedato oltre 200.000 beni immobili di valore architettonico e archeologico e in base agli esami finora effettuati, è stato rilevato che il 3% è in una condizione accertata di vulnerabilità e di degrado.
Una ricerca del Cescat-Centro Studi Casa Ambiente e Territorio di Assoedilizia, indica che ci sono oltre 2 milioni di edifici abbandonati e diroccati, prevalentemente ubicati nelle campagne, molti in posizioni panoramiche privilegiate, come casolari, baite, ville rustiche, antiche magioni, rocche, case cantoniere ma anche ex aree industriali.
La lista dei siti Unesco dichiarati Patrimonio mondiale dell’umanità, conta oltre 1.000 luoghi d’interesse distribuiti in tutti i continenti, e l’Italia è il Paese più rappresentato con 53 eccellenze (alle quali vanno aggiunte le 39 che hanno chiesto il riconoscimento senza riuscire, per ora, a ottenerlo).
Il patrimonio culturale appartiene a diversi soggetti giuridici, come lo Stato, le Regioni, i comuni, i privati, gli enti ecclesiastici, le fondazioni. Facile quindi fare lo scarica barile delle responsabilità.
Secondo i dati Eurostat, l’Italia è penultima in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (peggio di noi fa solo la Grecia): 1,4% a fronte di una media Ue superiore al 2%. Quella che viene definita la «Penisola dei tesori» investe nella cura di queste ricchezze, meno di quanto fanno altri.
Numerosi siti archeologici, musei, chiese, palazzi e persino interi centri storici cadono a pezzi.
Italia Nostra ha elaborato una Lista Rossa, una mappa molto accurata del patrimonio abbandonato, in stato di degrado, su segnalazioni di privati. La lista comprende attualmente 450 beni tra castelli diroccati, chiese chiuse, piazze, borghi perfino grotte ed è in continuo aggiornamento. La finalità è di segnalare questo patrimonio a rischio al ministero dei Beni Culturali e alle Soprintendenze.
Tra i gioielli che compaiono nella Lista Rossa, c’è l’Abbazia di Santa Maria di Calena a Peschici, in provincia di Foggia, un insediamento monastico che risale all’XI secolo passato al Demanio e poi a privati che ne hanno fatto un’azienda agricola, ora un rudere. Eppure continua ad essere un punto di riferimento per la comunità locale. In totale abbandono e senza un piano di recupero, è l’acquedotto Pontificio di Loreto, unica opera idraulica con arcate ancora integre nelle Marche. In questa Regione, Italia Nostra segnala anche il Castello di Monte Varmine, in provincia di Ascoli che risale all’epoca longobarda, diroccato. A Reggio Calabria c’è il Convento dei Cappuccini del XVI secolo che contiene altari intarsiati in avorio e madreperla. È crollato in più parti, compreso il tetto. Al momento non si conoscono piani di recupero. Segnalato sempre da Italia Nostra il Canale Navile di Bologna, opera del Vignola del XVI secolo che rappresentava una delle più importanti vie di comunicazioni dell’Italia Settentrionale per lo scambio delle merci. Le strutture lungo il canale sono molto danneggiate con tetti crollati e azioni di vandalismo.
Un altro volto dell’Italia che cade a pezzi tra incuria, disattenzione e abbandono, è quello dei teatri. La patria di Goldoni e di Pirandello non riesce a tutelare i gioielli architettonici tramandati da una storia illustre. Il Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, Francesco Giambrone, ha guidato la realizzazione di un censimento ad opera di TeatriAperti, sui teatri dimenticati. La ricerca risale al 2008, ma da allora nulla è cambiato. Nel nostro Paese ci sono ben 428 teatri chiusi. Della maggior parte di essi, però, nessuno parla. Se è vero che in Italia ci sono circa 2.000 teatri, il censimento rivela che per ogni tre aperti ve ne è uno chiuso. Il 50% dei sipari abbassati sono in edifici storici di un qualche pregio architettonico. Sono concentrati soprattutto in Sicilia e Lombardia (rispettivamente 59 e 57). Oltre il 50% ha cessato la propria attività a partire dal 1980 e solo 12 (ossia poco meno del 3% circa) sono stati chiusi prima del 1940.
Tra le cause di chiusura, l’inagibilità è quella più ricorrente: il 31,7% dei teatri è stato infatti bloccato perché dichiarato inagibile mentre solo 47 (pari all’11% circa del totale) si sono fermati per lavori di restauro che usualmente si protraggono anche per decenni. Alcune strutture, dopo la chiusura, sono state destinate ad altri usi.
Report nell’inchiesta «Gli incompiuti» andata in onda ad aprile scorso, ha acceso i riflettori su alcune realtà di Venezia. Nel centro storico un gioiello architettonico di inizio Novecento, il Cinema Teatro Italia, oggi è un supermercato Despar.
Quanto costa alla comunità il degrado del Paese, culturale e artistico? Una domanda a cui nessuno si preoccupa di dare una risposta.
Giulio Pane: «La situazione del centro di Napoli è grave»
A Napoli è stata creata due mesi fa, la figura del Garante per i beni culturali ed il paesaggio, per la conservazione e valorizzazione di quello che è il centro storico più grande e importante d’Europa. Giulio Pane, già ordinario di Storia dell’Architettura all’Università Federico II, avrà il compito di raccogliere le segnalazioni dei cittadini sulle eventuali criticità e sollecitare le amministrazioni competenti per una soluzione «in tempi ragionevoli». Questo è quanto sta scritto ma come stanno realmente le cose? «In ballo ci sono fondi europei per 100 milioni stanziati per il Progetto Unesco di valorizzazione del Centro storico di cui sono stati spesi al momento solo circa 20 milioni» afferma Pane. Non avrà vita facile. Sulla sua nomina è già scoppiata la polemica di chi lo accusa di «essere un doppione». Ma per Pane si profila anche la nomina a Garante per i Beni Culturali a livello nazionale. «La situazione del centro storico di Napoli è di estremo degrado. Sono più di duecento le chiese chiuse, abbandonate e spesso depredate delle loro opere d’arte. Alcune in rovina e pericolanti».
Ci fa qualche esempio?
«La Chiesa della Scorziata, una volta splendida e ricca di capolavori, ora è un cumulo di immondizia. Fu depredata dai ladri nel 1993 quando era chiusa già da molti anni a causa dei danni subiti con il sisma del 1980. Sparirono opere preziose. Molte chiese sono state riadattate, altre occupate trasformate in depositi di detersivi, fabbriche di infissi, abitazioni con tanto di citofoni o adibite a negozi e autofficine. A Marina di Ascea, un ex immobile religioso è stato trasformato in un residence di lusso contravvenendo alle norme paesaggistiche. Fabbricati religiosi sono stati trasformati in ristoranti e le aule delle chiese in luoghi di eventi e ricevimenti. Lo Sferisterio di Fuorigrotta è un simbolo del degrado della città. Nato nel 1950 come mega centro sportivo e poi per eventi, spettacoli e concerti, fu distrutto nella notte tra il 30 e il 31 dicembre del 1986 da uno spaventoso incendio. Da allora numerosi i progetti di recupero mai andati in porto. C’è la situazione dei padiglioni dell’antica mostra di oltremare che stanno andando in malora. La cupola del Padiglione della Civiltà cristiana in Africa è crollata. Il Monastero delle Trentatré è in abbandono totale. Palazzo D’Avalos stava andando in malora perché il nuovo proprietario voleva suddividerlo in mini appartamenti. Poi è intervenuto il vincolo per il restauro».
C’è una mappatura del patrimonio degradato?
«Ci sono oltre 200 chiese inutilizzate in abbandono, oggetto di furti e vandalismi. Innumerevoli edifici privati di pregio storico che non riescono ad attingere i contributi pubblici per incapienza finanziaria dei proprietari».
Incapacità di spendere i fondi europei?
«Alcuni progetti presentati sono privi della rispondenza alle norme dei lavori pubblici. Talvolta manca la relazione geologica, e quando vanno a gara si bloccano».
Come può accadere una cosa del genere?
«Accade per superficialità, perché non c’è una formazione adeguata; e perché l’attuale normativa è complessa e onerosa. Talvolta però, anche se la documentazione non è accurata - e se le fosse evidenzierebbe un danno artistico o ambientale - passa lo stesso. È il caso dell’ascensore di monte Echia. L’altura di Pizzofalcone è stata l’antica sede di Partenope, e lì Lucio Lucullo aveva costruito una lussuosa villa in vista del mare, di cui sopravvivono alcuni ruderi. Bene, davanti ad essi sorge ora il volume tecnico di un ascensore pubblico che toglie la vista del paesaggio per una lunghezza di undici metri e un’altezza di quattro. La relazione paesaggistica del progetto se la sbrigava così: “L’ascensore sorge nel centro storico di Napoli”».
Francesco Giambrone: «Le politiche culturali per troppi anni sono state marginali»
«La causa principale in molti casi è diventata un alibi. Molti teatri chiudono quando vengono inasprite le norme sulla sicurezza, perché la cosa più facile è chiudere. Ed è quello che è accaduto al Teatro Massimo di Palermo. La realizzazione di una scala di uscita per il pubblico si doveva concludere in sei mesi ma il sipario del maggiore teatro in Europa, rimase calato per 23 anni». Perché, è una domanda ingenua e la risposta scontata. «Le politiche culturali nel nostro Paese sono state per troppi anni marginali e l’investimento nella cultura mai considerato pagante». C’è una nota di commozione nella voce del Sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma Francesco Giambrone, che ha lasciato il cuore nella sua Palermo dove, come Sovrintendente del Massimo, ne seguì le vicende della chiusura, poi della mobilitazione cittadina e della riapertura. «In Italia negli ultimi trent’anni, è stato costruito un solo teatro, a Firenze, il Teatro del Maggio Musicale fiorentino alle Cascine, mentre in Grecia e Spagna ne sono stati inaugurati a decine. Lasciamo andare in rovina i gioielli del passato e con essi distruggiamo gli unici luoghi di aggregazione laica. Il nostro Paese nella seconda metà dell’Ottocento aveva costruito l’Italia unita anche attraverso un investimento forte nella infastrutturazione culturale del territorio costruendo luoghi di spettacolo. Non c’era borgo in cui non ci fosse un teatro. Siamo andati verso un grande impoverimento».
Quali casi l’hanno più colpita in questa ricerca?
«Il censimento dei teatri chiusi realizzato nel 2008 con l’associazione TeatriAperti e Arcus, andrebbe aggiornato ma non penso che ci troveremmo di fronte a sorprese positive. Abbiamo individuato 428 teatri chiusi e il 25,5% è all’interno di edifici di valore storico e architettonico, sottoposti a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali. Circa il 40% risalgono a prima del 1900. Tra questi c’è il Teatro Laluna del 1600 nel comune di Mineo a Catanzaro chiuso nel 1983 dopo essere stato trasformato in cine-teatro. La causa più frequente per il fermo dell’attività, nel 31,7% dei casi, è l’inagibilità, ma solo l’11% è stato chiuso per i lavori di restauro. Ci siamo trovati davanti realtà di pregio trasformate in palestre, magazzini, autorimesse. A Palermo la proprietà del teatro Bellini uno dei più antichi della città, voleva trasformalo in una pizzeria, ma la sovrintendenza bloccò il progetto. A Sciacca l’incredibile storia del teatro Samonà. Nato sulle macerie dello storico Teatro Politeama Mariano Rossi, i lavori iniziarono nel 1979 ma rimasero incompiuti per diversi anni. Nel 2015 è stato inaugurato ancora incompleto, poi di nuovo chiuso e adesso ancora si discute del suo futuro. Il Teatro Ernesto Rossi di Pisa, della seconda metà del Settecento, ha avuto una vita travagliata; nel 1977 è stato anche utilizzato come magazzino di oggetti smarriti. Quando dopo alcuni interventi di recupero, nel settembre 2004, sembrava che si potesse riavviare l’attività, la polizia giudiziaria bloccò tutto per notificare un sequestro conservativo. Pare ci fosse un cavillo burocratico legato alla sicurezza. Il sipario cala definitivamente, nonostante i successivi restauri della Soprintendenza. Un altro caso è il teatrino all’interno di Villa Raggio di Pontenure, in provincia di Piacenza, della seconda metà dell’Ottocento. Il parco è stato recuperato dopo anni di abbandono ma la villa e il teatrino, per gli alti costi di restauro, sono in degrado».
Quali sono le Regioni con il più alto numero di teatri chiusi?
«Le chiusure sono concentrate in Sicilia (59) e Lombardia (57). Dall’inizio del nuovo secolo l’offerta culturale nazionale ha perso 54 strutture tra teatri e cine-teatri di cui 17 solo nel 2006. Solo il 12% dei teatri chiusi censiti, nel 2008 era in possesso di un regolare certificato di agibilità e tra questi poco più del 40% è in fase di restauro. Nonostante la chiusura, alcune strutture, circa il 16% hanno continuato ad ospitare eventi culturali».
C’è speranza che i teatri chiusi vengano riaperti?
«È un obiettivo che dovrebbe rappresentare la priorità per qualsiasi politica culturale. Ma le riaperture devono essere vere, i lavori devono rispettare le scadenze programmate».
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La Penisola si sgretola: si contano 2 milioni di edifici abbandonati. Dei 200.000 immobili di valore architettonico oltre 6.000 presentano uno stato di degrado; ci sono 428 teatri chiusi e 450 tra chiese in rovina e castelli diroccati.Il Garante per i beni culturali di Napoli: «Più di duecento edifici ecclesiastici desolati».Il Sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma: «Dall’inizio del secolo l’offerta intellettuale nazionale ha perso 54 arene».Lo speciale contiene tre articoli.Il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, striglia gli industriali sollecitandoli ad investire di più in cultura ma il ministero che dirige non può certo ergersi ad arbitro e dispensare bocciature. Gran parte del patrimonio storico artistico è in stato di totale abbandono e soffre un degrado quasi irreversibile. A questo si aggiunge il patrimonio immobiliare lasciato deperire per incuria o perché non più funzionale. È uno scenario fatiscente ed è difficile risalire la filiera delle responsabilità. La Carta del Rischio della Direzione generale Sicurezza del Patrimonio culturale presso il ministero dei Beni Culturali, ha schedato oltre 200.000 beni immobili di valore architettonico e archeologico e in base agli esami finora effettuati, è stato rilevato che il 3% è in una condizione accertata di vulnerabilità e di degrado. Una ricerca del Cescat-Centro Studi Casa Ambiente e Territorio di Assoedilizia, indica che ci sono oltre 2 milioni di edifici abbandonati e diroccati, prevalentemente ubicati nelle campagne, molti in posizioni panoramiche privilegiate, come casolari, baite, ville rustiche, antiche magioni, rocche, case cantoniere ma anche ex aree industriali. La lista dei siti Unesco dichiarati Patrimonio mondiale dell’umanità, conta oltre 1.000 luoghi d’interesse distribuiti in tutti i continenti, e l’Italia è il Paese più rappresentato con 53 eccellenze (alle quali vanno aggiunte le 39 che hanno chiesto il riconoscimento senza riuscire, per ora, a ottenerlo).Il patrimonio culturale appartiene a diversi soggetti giuridici, come lo Stato, le Regioni, i comuni, i privati, gli enti ecclesiastici, le fondazioni. Facile quindi fare lo scarica barile delle responsabilità. Secondo i dati Eurostat, l’Italia è penultima in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (peggio di noi fa solo la Grecia): 1,4% a fronte di una media Ue superiore al 2%. Quella che viene definita la «Penisola dei tesori» investe nella cura di queste ricchezze, meno di quanto fanno altri. Numerosi siti archeologici, musei, chiese, palazzi e persino interi centri storici cadono a pezzi. Italia Nostra ha elaborato una Lista Rossa, una mappa molto accurata del patrimonio abbandonato, in stato di degrado, su segnalazioni di privati. La lista comprende attualmente 450 beni tra castelli diroccati, chiese chiuse, piazze, borghi perfino grotte ed è in continuo aggiornamento. La finalità è di segnalare questo patrimonio a rischio al ministero dei Beni Culturali e alle Soprintendenze. Tra i gioielli che compaiono nella Lista Rossa, c’è l’Abbazia di Santa Maria di Calena a Peschici, in provincia di Foggia, un insediamento monastico che risale all’XI secolo passato al Demanio e poi a privati che ne hanno fatto un’azienda agricola, ora un rudere. Eppure continua ad essere un punto di riferimento per la comunità locale. In totale abbandono e senza un piano di recupero, è l’acquedotto Pontificio di Loreto, unica opera idraulica con arcate ancora integre nelle Marche. In questa Regione, Italia Nostra segnala anche il Castello di Monte Varmine, in provincia di Ascoli che risale all’epoca longobarda, diroccato. A Reggio Calabria c’è il Convento dei Cappuccini del XVI secolo che contiene altari intarsiati in avorio e madreperla. È crollato in più parti, compreso il tetto. Al momento non si conoscono piani di recupero. Segnalato sempre da Italia Nostra il Canale Navile di Bologna, opera del Vignola del XVI secolo che rappresentava una delle più importanti vie di comunicazioni dell’Italia Settentrionale per lo scambio delle merci. Le strutture lungo il canale sono molto danneggiate con tetti crollati e azioni di vandalismo.Un altro volto dell’Italia che cade a pezzi tra incuria, disattenzione e abbandono, è quello dei teatri. La patria di Goldoni e di Pirandello non riesce a tutelare i gioielli architettonici tramandati da una storia illustre. Il Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, Francesco Giambrone, ha guidato la realizzazione di un censimento ad opera di TeatriAperti, sui teatri dimenticati. La ricerca risale al 2008, ma da allora nulla è cambiato. Nel nostro Paese ci sono ben 428 teatri chiusi. Della maggior parte di essi, però, nessuno parla. Se è vero che in Italia ci sono circa 2.000 teatri, il censimento rivela che per ogni tre aperti ve ne è uno chiuso. Il 50% dei sipari abbassati sono in edifici storici di un qualche pregio architettonico. Sono concentrati soprattutto in Sicilia e Lombardia (rispettivamente 59 e 57). Oltre il 50% ha cessato la propria attività a partire dal 1980 e solo 12 (ossia poco meno del 3% circa) sono stati chiusi prima del 1940. Tra le cause di chiusura, l’inagibilità è quella più ricorrente: il 31,7% dei teatri è stato infatti bloccato perché dichiarato inagibile mentre solo 47 (pari all’11% circa del totale) si sono fermati per lavori di restauro che usualmente si protraggono anche per decenni. Alcune strutture, dopo la chiusura, sono state destinate ad altri usi. Report nell’inchiesta «Gli incompiuti» andata in onda ad aprile scorso, ha acceso i riflettori su alcune realtà di Venezia. Nel centro storico un gioiello architettonico di inizio Novecento, il Cinema Teatro Italia, oggi è un supermercato Despar. Quanto costa alla comunità il degrado del Paese, culturale e artistico? Una domanda a cui nessuno si preoccupa di dare una risposta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-casa-tanto-carina-l-italia-dei-palazzi-che-cadono-a-pezzi-2657686904.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="giulio-pane-la-situazione-del-centro-di-napoli-e-grave" data-post-id="2657686904" data-published-at="1658142034" data-use-pagination="False"> Giulio Pane: «La situazione del centro di Napoli è grave» A Napoli è stata creata due mesi fa, la figura del Garante per i beni culturali ed il paesaggio, per la conservazione e valorizzazione di quello che è il centro storico più grande e importante d’Europa. Giulio Pane, già ordinario di Storia dell’Architettura all’Università Federico II, avrà il compito di raccogliere le segnalazioni dei cittadini sulle eventuali criticità e sollecitare le amministrazioni competenti per una soluzione «in tempi ragionevoli». Questo è quanto sta scritto ma come stanno realmente le cose? «In ballo ci sono fondi europei per 100 milioni stanziati per il Progetto Unesco di valorizzazione del Centro storico di cui sono stati spesi al momento solo circa 20 milioni» afferma Pane. Non avrà vita facile. Sulla sua nomina è già scoppiata la polemica di chi lo accusa di «essere un doppione». Ma per Pane si profila anche la nomina a Garante per i Beni Culturali a livello nazionale. «La situazione del centro storico di Napoli è di estremo degrado. Sono più di duecento le chiese chiuse, abbandonate e spesso depredate delle loro opere d’arte. Alcune in rovina e pericolanti». Ci fa qualche esempio? «La Chiesa della Scorziata, una volta splendida e ricca di capolavori, ora è un cumulo di immondizia. Fu depredata dai ladri nel 1993 quando era chiusa già da molti anni a causa dei danni subiti con il sisma del 1980. Sparirono opere preziose. Molte chiese sono state riadattate, altre occupate trasformate in depositi di detersivi, fabbriche di infissi, abitazioni con tanto di citofoni o adibite a negozi e autofficine. A Marina di Ascea, un ex immobile religioso è stato trasformato in un residence di lusso contravvenendo alle norme paesaggistiche. Fabbricati religiosi sono stati trasformati in ristoranti e le aule delle chiese in luoghi di eventi e ricevimenti. Lo Sferisterio di Fuorigrotta è un simbolo del degrado della città. Nato nel 1950 come mega centro sportivo e poi per eventi, spettacoli e concerti, fu distrutto nella notte tra il 30 e il 31 dicembre del 1986 da uno spaventoso incendio. Da allora numerosi i progetti di recupero mai andati in porto. C’è la situazione dei padiglioni dell’antica mostra di oltremare che stanno andando in malora. La cupola del Padiglione della Civiltà cristiana in Africa è crollata. Il Monastero delle Trentatré è in abbandono totale. Palazzo D’Avalos stava andando in malora perché il nuovo proprietario voleva suddividerlo in mini appartamenti. Poi è intervenuto il vincolo per il restauro». C’è una mappatura del patrimonio degradato? «Ci sono oltre 200 chiese inutilizzate in abbandono, oggetto di furti e vandalismi. Innumerevoli edifici privati di pregio storico che non riescono ad attingere i contributi pubblici per incapienza finanziaria dei proprietari». Incapacità di spendere i fondi europei? «Alcuni progetti presentati sono privi della rispondenza alle norme dei lavori pubblici. Talvolta manca la relazione geologica, e quando vanno a gara si bloccano». Come può accadere una cosa del genere? «Accade per superficialità, perché non c’è una formazione adeguata; e perché l’attuale normativa è complessa e onerosa. Talvolta però, anche se la documentazione non è accurata - e se le fosse evidenzierebbe un danno artistico o ambientale - passa lo stesso. È il caso dell’ascensore di monte Echia. L’altura di Pizzofalcone è stata l’antica sede di Partenope, e lì Lucio Lucullo aveva costruito una lussuosa villa in vista del mare, di cui sopravvivono alcuni ruderi. Bene, davanti ad essi sorge ora il volume tecnico di un ascensore pubblico che toglie la vista del paesaggio per una lunghezza di undici metri e un’altezza di quattro. La relazione paesaggistica del progetto se la sbrigava così: “L’ascensore sorge nel centro storico di Napoli”». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-casa-tanto-carina-l-italia-dei-palazzi-che-cadono-a-pezzi-2657686904.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="francesco-giambrone-le-politiche-culturali-per-troppi-anni-sono-state-marginali" data-post-id="2657686904" data-published-at="1658142034" data-use-pagination="False"> Francesco Giambrone: «Le politiche culturali per troppi anni sono state marginali» «La causa principale in molti casi è diventata un alibi. Molti teatri chiudono quando vengono inasprite le norme sulla sicurezza, perché la cosa più facile è chiudere. Ed è quello che è accaduto al Teatro Massimo di Palermo. La realizzazione di una scala di uscita per il pubblico si doveva concludere in sei mesi ma il sipario del maggiore teatro in Europa, rimase calato per 23 anni». Perché, è una domanda ingenua e la risposta scontata. «Le politiche culturali nel nostro Paese sono state per troppi anni marginali e l’investimento nella cultura mai considerato pagante». C’è una nota di commozione nella voce del Sovrintendente al Teatro dell’Opera di Roma Francesco Giambrone, che ha lasciato il cuore nella sua Palermo dove, come Sovrintendente del Massimo, ne seguì le vicende della chiusura, poi della mobilitazione cittadina e della riapertura. «In Italia negli ultimi trent’anni, è stato costruito un solo teatro, a Firenze, il Teatro del Maggio Musicale fiorentino alle Cascine, mentre in Grecia e Spagna ne sono stati inaugurati a decine. Lasciamo andare in rovina i gioielli del passato e con essi distruggiamo gli unici luoghi di aggregazione laica. Il nostro Paese nella seconda metà dell’Ottocento aveva costruito l’Italia unita anche attraverso un investimento forte nella infastrutturazione culturale del territorio costruendo luoghi di spettacolo. Non c’era borgo in cui non ci fosse un teatro. Siamo andati verso un grande impoverimento». Quali casi l’hanno più colpita in questa ricerca? «Il censimento dei teatri chiusi realizzato nel 2008 con l’associazione TeatriAperti e Arcus, andrebbe aggiornato ma non penso che ci troveremmo di fronte a sorprese positive. Abbiamo individuato 428 teatri chiusi e il 25,5% è all’interno di edifici di valore storico e architettonico, sottoposti a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali. Circa il 40% risalgono a prima del 1900. Tra questi c’è il Teatro Laluna del 1600 nel comune di Mineo a Catanzaro chiuso nel 1983 dopo essere stato trasformato in cine-teatro. La causa più frequente per il fermo dell’attività, nel 31,7% dei casi, è l’inagibilità, ma solo l’11% è stato chiuso per i lavori di restauro. Ci siamo trovati davanti realtà di pregio trasformate in palestre, magazzini, autorimesse. A Palermo la proprietà del teatro Bellini uno dei più antichi della città, voleva trasformalo in una pizzeria, ma la sovrintendenza bloccò il progetto. A Sciacca l’incredibile storia del teatro Samonà. Nato sulle macerie dello storico Teatro Politeama Mariano Rossi, i lavori iniziarono nel 1979 ma rimasero incompiuti per diversi anni. Nel 2015 è stato inaugurato ancora incompleto, poi di nuovo chiuso e adesso ancora si discute del suo futuro. Il Teatro Ernesto Rossi di Pisa, della seconda metà del Settecento, ha avuto una vita travagliata; nel 1977 è stato anche utilizzato come magazzino di oggetti smarriti. Quando dopo alcuni interventi di recupero, nel settembre 2004, sembrava che si potesse riavviare l’attività, la polizia giudiziaria bloccò tutto per notificare un sequestro conservativo. Pare ci fosse un cavillo burocratico legato alla sicurezza. Il sipario cala definitivamente, nonostante i successivi restauri della Soprintendenza. Un altro caso è il teatrino all’interno di Villa Raggio di Pontenure, in provincia di Piacenza, della seconda metà dell’Ottocento. Il parco è stato recuperato dopo anni di abbandono ma la villa e il teatrino, per gli alti costi di restauro, sono in degrado». Quali sono le Regioni con il più alto numero di teatri chiusi? «Le chiusure sono concentrate in Sicilia (59) e Lombardia (57). Dall’inizio del nuovo secolo l’offerta culturale nazionale ha perso 54 strutture tra teatri e cine-teatri di cui 17 solo nel 2006. Solo il 12% dei teatri chiusi censiti, nel 2008 era in possesso di un regolare certificato di agibilità e tra questi poco più del 40% è in fase di restauro. Nonostante la chiusura, alcune strutture, circa il 16% hanno continuato ad ospitare eventi culturali». C’è speranza che i teatri chiusi vengano riaperti? «È un obiettivo che dovrebbe rappresentare la priorità per qualsiasi politica culturale. Ma le riaperture devono essere vere, i lavori devono rispettare le scadenze programmate».
La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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Orazio Schillaci (Ansa)
Stiamo parlando della Cceps, la commissione centrale esercenti professioni sanitarie che funziona come una sorta di Corte d’Appello. Due giorni fa doveva svolgersi a Roma l’udienza, fissata a ridosso del Natale per esaminare i ricorsi di almeno 25 medici radiati dall’Ordine. Nemmeno il tempo di aprire la seduta, e subito è stata rinviata con data da destinarsi.
Il 18 sera, infatti, l’indipendenza e imparzialità dei componenti della Cceps è stata messa in discussione dalle istanze di ricusazione di uno dei legali dei medici radiati, l’avvocato Mauro Sandri. La presidente e il suo vice, così pure diversi membri dell’organo del ministero della Salute che esercita il giudizio di secondo grado, si sono già espressi contro le critiche nei confronti del vaccino Covid. In alcuni casi, anche contro gli stessi dottori che hanno presentato ricorso, si legge nella memoria di ricusazione.
Una cosa inaudita, che vanificherebbe qualsiasi conclusione della commissione. Non attiva da anni, la Cceps era stata ricostituita lo scorso ottobre dal ministro Schillaci su pressione di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. A marzo, il capo dei medici si lamentava perché il ricorso «di fatto vanifica l’azione sanzionatoria degli Ordini, facendo sì che medici sospesi o addirittura radiati continuino a esercitare».
Così, per liquidare in fretta la questione, in un’udienza fissata per trattare i soli procedimenti dei medici radiati (in violazione del normale calendario), tutte le memorie scritte dei difensori dovevano essere presentate nella stessa mattinata del 19 e «date in pasto» a medici, a magistrati che il loro giudizio già l’hanno formulato.
Le istanze di ricusazione presentate dall’avvocato Sandri sono state nei confronti della presidente della Cceps, Giulia Ferrari, in quanto come componente del Consiglio di Stato ha partecipato alla stesura di numerose sentenze nelle quali ha «sempre respinto le domande di illegittimità delle sospensioni dal lavoro avanzate da pubblici dipendenti».
E nei confronti del vice presidente Oscar Marongiu «che ha partecipato a decisioni di contenuto analogo quale componente del Tar di Cagliari». Ma non è finita. La maggior parte dei componenti la Cceps per quanto riguarda i ricorsi dei medici sono professionisti che hanno fatto parte di Consigli dell'Ordine, che hanno emesso provvedimenti di radiazione e che hanno espresso, prima del processo, opinioni che fanno già chiaramente trasparire la posizione che avranno nel giudizio di secondo grado.
Tra questi c’è Giovanni Leoni, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Venezia e vice presidente nazionale Fnomceo. Il presidente a luglio 2022 si era opposto all’idea dell’allora governatore Luca Zaia di reintegrare i medici sospesi perché non vaccinati: «Sarebbe un pessimo messaggio», disse. E che aveva definito l’abolizione della sanzione ai no vax «un premio ai furbetti. Questa scelta non è un messaggio educativo alla popolazione sul rispetto delle regole». Qualcuno ha dei dubbi su come Leoni giudicherà il ricorso di medici quali Ennio Caggiano, Barbara Balanzoni, Fabio Milani, Riccardo Szumski? Sono solo alcuni dei dottori stimati, amati dai loro pazienti, però presi di mira dagli Ordini professionali perché osavano contrastare la non scienza imposta con i dpcm di Speranza e Conte.
Ennio Caggiano di Camponogara, nel Veneziano mandato a processo per aver compilato 16 certificati di esenzione dal vaccino ritenuti falsi dalla Procura di Venezia, è stato assolto da ogni accusa pochi mesi fa. Eppure il 20 maggio del 2022 il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia ne firmò la radiazione. Oggi il medico si dice sconcertato di sapere che lo stesso Leoni dovrebbe valutare il suo ricorso. «L’incompatibilità assoluta. Invece di chiudere una vicenda che si trascina da anni, analizzando oggettivamente i fatti, vogliono ribadire che avevano ragione. È una cosa ridicola e tragica nello stesso tempo».
Un periodo, quello della pandemia e dei diktat, segnato anche da brutte storie di delazioni. Fabio Milani, stimato professionista bolognese non vaccinato, nel dicembre del 2021 curò con antibiotico e cortisone una famiglia con polmonite da Covid abbandonata a Tachipirina e vigile attesa dal proprio medico di famiglia. Segnalato dal collega all'Ordine, aveva subìto un lungo processo per esercizio abusivo della professione, conclusosi nel gennaio 2025 perché «il fatto non sussiste». Ma non era finita. Il medico venne radiato nell’agosto 2022 con l’accusa di aver violato il codice deontologico. Con quale imparzialità sarà giudicato in secondo grado da una simile commissione?
«Nessun medico radiato può essere giudicato per avere espresso opinioni critiche sulla gestione dell'emergenza sanitaria», ribadisce l’avvocato Sandri. «Nessuno mi ha denunciato per aver maltrattato un paziente», osserva Riccardo Szumski, il consigliere di Resistere Veneto risultato tra i più eletti alle ultime Regionali, evidenziando l’assurdità di una sanzione così grave. «Mi sembra una commissione non a tutela dei medici e dei pazienti, ma dell’obbedienza a ogni costo. E Schillaci era un collaboratore dell’ex ministro Roberto Speranza. Nella mia radiazione venne citata la frase del presidente Sergio Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi all’obbligo vaccinale” ma la libertà, secondo me, è un bene assoluto».
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Antonio Filosa (Ansa)
La Commissione sta semplicemente «rinviando» l’obiettivo: l’impianto che aveva portato all’azzeramento delle emissioni allo scarico (e quindi alla fine dei motori termici) viene riformulato con un abbassamento delle emissioni del 90% rispetto al 2021. Il 10% residuo verrebbe coperto tramite strumenti di compensazione lungo la catena del valore: come, ad esempio, prodotti a minore intensità carbonica (acciaio low-carbon) e carburanti sostenibili. Quella voluta dell’Ue è una flessibilità «contabile» più che tecnologica, secondo il manager.
Filosa sostiene che questa architettura rischia di introdurre costi e complessità che i costruttori «di massa» assorbono peggio di quelli premium: «È una misura il cui costo potrebbe non essere alla portata dei costruttori di volume che servono la maggior parte dei cittadini». Tradotto: se la conformità dipende da risorse scarse (acciaio verde, e-fuels/biocarburanti certificati) con prezzi elevati e volatilità, il rischio è che tutti i problemi si scarichino proprio sui segmenti più sensibili al prezzo, comprimendo volumi e margini.
Stellantis segnala che non vede strumenti «ponte» sufficienti per rendere praticabile la transizione, in particolare nei veicoli commerciali, dove la competitività dell’elettrico dipende molto più che nelle auto da infrastrutture di ricarica, costo dell’energia, pianificazione flotte e disponibilità prodotto. Se l’adozione dei motori elettrici resta importante, il blocco al 2035 non genera crescita: può solo spostare i problemi su regole di compensazione e materiali verdi e costosi. La reazione dell’industria è dunque polarizzata: Renault valuta il pacchetto come un tentativo di gestire alcune criticità, mentre l’associazione industriale tedesca Vda lo bolla come «disastroso» per gli ostacoli pratici e di implementazione. La Commissione, invece, nega che si tratti di un arretramento: Stéphane Séjourné, commissario europeo per il mercato interno e i servizi, afferma che l’Europa non mette in discussione gli obiettivi climatici. Un altro funzionario Ue difende l’uso di questi meccanismi perché dovrebbero «creare un mercato di sbocco» per tecnologie e materiali necessari alla transizione.
Nel dibattito, inoltre, c’è anche l’asimmetria regolatoria transatlantica: negli Stati Uniti si osserva una traiettoria più favorevole per ibridi e termici, con revisione di incentivi e standard; non a caso Stellantis ha annunciato un piano di investimenti molto rilevante negli Usa. Il messaggio implicito è che, a parità di vincoli, la stabilità e l’economia della domanda influenzano dove si costruiscono capacità e catena del valore.
La verità è che la partita vera non è lo slogan «stop ai termici sì o no», ma la definizione dei dettagli che porteranno verso una transizione sostenibile: in particolare, si tratta della definizione di carburanti sostenibili e delle regole Mrv (monitoring, reporting, verification, un sistema obbligatorio dell'Unione Europea per il monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra) sulle norme industriali e, soprattutto, sulle misure lato domanda/infrastrutture che evitino che la compliance diventi un costo fisso.
Stellantis sostiene che, così com’è, la proposta non crea le sufficienti condizioni per crescere; la Commissione europea, dal canto suo, replica che serve una flessibilità che spinga filiere verdi europee senza abbandonare gli obiettivi industriali.
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