2021-12-28
Nei boschi polacchi le Rackete non ci vanno
La crisi dei profughi al confine con la Bielorussia non ha attirato i big del soccorso, da Msf a Save The Children.Nella Polonia orientale, a pochi chilometri dal confine con la Bielorussia, ci sono solo loro. Volontari e attivisti di una rete di Ong polacche coordinate dall’organizzazione capofila Grupa Granica. Setacciano i boschi armati di tè caldo, coperte termiche e abiti di ricambio, alla ricerca di migranti da strappare dalla morsa del freddo. Si muovono sul bordo del corridoio «off limits» ad attivisti e giornalisti e dove quello che succede, con precisione nessuno lo sa.Secondo le loro stime, mentre i migranti accampati in Bielorussia sarebbero ancora 2.000, quelli intrappolati nel limbo della foresta sarebbero almeno 300. Siriani, yemeniti, iracheni, famiglie con donne e bambini che ogni giorno tentano la fortuna cercando di sfuggire alle guardie di frontiera che in un continuo ping pong tra stati li respingono dall’altro lato del confine. Una terra di mezzo lunga 408 chilometri e punteggiata da una trentina di checkpoint solo in Polonia.Gli attivisti polacchi dicono di mantenersi principalmente grazie a donazioni private, alla generosità dei residenti e della società civile ma dal recupero dei beni di prima necessità agli strumenti di primo soccorso, hanno dovuto fare tutto da soli. «Dov’è la comunità internazionale? Dove sono le grandi organizzazioni umanitarie?» chiede Karol Wilczynski della piccola onlus Salam Lab. Nonostante solitamente si trovino in prima linea nei principali luoghi di crisi, qui non ce n’è praticamente traccia. Assente Medici Senza Frontiere. Assente anche Save the Children: il presidio più vicino è in Lituania ma promette battaglie a Bruxelles. Nessuna presenza operativa in loco neanche da parte della Croce Rossa la cui sezione polacca, per quanto offra aiuto a distanza, è stata molto criticata nel Paese proprio per la decisione di assecondare la linea del governo e restare a Varsavia. Critiche anche verso organizzazioni polacche internazionali accusate di presentarsi al confine il tempo necessario a raccogliere fondi e poi sparire, tra queste anche Polish Humanitarian Action che ha iniziato una piccola attività sul campo solo poco prima di Natale. Assenti anche Iom e Unhcr motivo per cui anche il supporto base in materia di diritto a tentare la via dell’asilo o della protezione umanitaria, è a carico degli operatori locali. Da Roma, l’agenzia Onu ci spiega che non può essere presente in loco perché il governo polacco non ha concesso l’autorizzazione ad entrare nelle zone lungo il confine. «Capiamo che per le grandi organizzazioni, laddove non siano invitate ufficialmente, non è facile agire», commenta Karol, ma sono abituate a operare in contesti ben più complicati come Siria e Afghanistan. Possibile non riescano ad essere operative in un Paese europeo? Anche noi non possiamo entrare nella zona di confine ma comunque siamo qui». Dalla sua, Unhcr assicura di monitorare la situazione a distanza, di aver inviato coperte e vestiti dall’altra parte del confine tramite la Croce Rossa Bielorussa, di effettuare visite saltuarie e soprattutto di puntare sulla via diplomatica, quella con cui da mesi chiede alle autorità polacche di garantire un accesso illimitato in nome peraltro di un accordo firmato nel 1991 proprio con il ministero degli Affari esteri della Polonia.Linea che ad oggi però non ha avuto molto successo. Dopo aver tenuto lontano dai boschi anche la Commissaria Europea per i diritti umani Dunja Mijatović, è della settimana scorsa la notizia che il governo polacco ha chiuso le porte anche a una delegazione Onu.In effetti stupisce che in questo angolo di Europa gli operatori umanitari abituati a lavorare sulla scena internazionale, siano assenti o stiano mantenendo un profilo piuttosto basso. Una situazione ben diversa da quella nel Mediterraneo dove non si sono mai fatti remore a fronteggiare le politiche europee e la sovranità degli Stati anche a costo di sfidare la Guardia costiera libica o speronare motovedette della Guardia di finanza, Carola Rackete «docet». E mentre davanti alle coste libiche ci sono ben quattro Ong attive, con la Sea Watch che ripete che «non c’è pausa invernale per la solidarietà» e la Sea Eye che ha battezzato la quarta operazione a Sud «Christmas Mission», difficile non notare come i migranti bloccati in questa parte di Europa, dimenticati anche dalle Ong in mare, rappresentino una sorta di rotta di serie B. «Il problema noi ce lo siamo posti», spiega Natalia Gerbert della Ong polacca Dom Otwarty, «Purtroppo siamo pochi e non possiamo permetterci di perdere risorse. Però è dura perché l’Europa sta facendo fare alla Polonia il gioco sporco mentre porta avanti indisturbata la sua partita geopolitica con Russia e Bielorussia. Al contempo Bruxelles può anche dire di salvaguardare i confini europei anche se, visto che da settembre 11.000 migranti sono riusciti a raggiungere la Germania, non mi sembra siano così sicuri come dicono». Forse non è un caso che al confine manchino anche l’agenzia europea Easo e persino Frontex, la cui sede peraltro è a Varsavia. E suona quasi lunare a questo punto, la dichiarazione della Commissaria per gli Affari interni Ilva Johansson secondo la quale l’Unione Europea sta comunque garantendo l’assistenza umanitaria sul posto tramite i finanziamenti forniti a Unhcr, Iom e Croce Rossa che però, sul posto, praticamente non ci sono. «È assurdo che questa situazione sembri ormai non interessare a nessuno», sospira Gerbert, nonostante più che una crisi migratoria (il flusso verso la Bielorussia si è ormai interrotto da tempo) sia ormai puramente umanitaria». Insomma, una crisi evidentemente poco mediatica e troppo lontana dai riflettori. Che sia proprio per questo?