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2024-03-28
Biden provoca lo zar: «Macellaio». E su Kharkiv piovono missili russi
Joe Biden (Ansa)
Livello della tensione alle stelle tra Russia e Occidente e il premier, Giorgia Meloni, torna a parlare di Ucraina. Lo fa con Mario Giordano a Fuori dal coro, in onda ieri sera su Rete 4. «Vladimir Putin aveva in testa una guerra lampo e oggi chi cerca di aiutare l’Ucraina allontana la guerra rispetto alla possibilità che arrivi nel cuore d’Europa», ha spiegato Meloni, che si dice convinta che «se non molliamo lo costringiamo anche a sedersi a un tavolo delle trattative per cercare una pace giusta». E ricorda: «Ovviamente è l’obiettivo che abbiamo».
Ma è sui toni delle ultime settimane che si concentra il premier, riferendosi alle parole del presidente francese, Emmanuel Macron, circa la possibilità di inviare truppe in Ucraina: «Non ho condiviso le sue parole, l’ho detto anche a lui. Si deve fare attenzione ai toni», spiega. Anche se «non vuol dire che non si debba fare ciò che è giusto». Infine chiarisce: «Arrivo da un Consiglio Ue dove si parlava di Protezione civile e mi ritrovo su diversi quotidiani che noi staremmo preparando l’Europa alla guerra, perché c’era un passaggio che diceva che bisogna mettere in cooperazione la risposta alla crisi, ma si parlava di Protezione civile». Segue la linea il vicepremier, Antonio Tajani: «Non invieremo mai soldati italiani a combattere in guerra contro la Russia».
E mentre in Europa si cerca di abbassare i toni, le parole del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, non aiutano allo scopo. Durante un incontro in Carolina del Nord, Biden è tornato a definire il presidente russo «macellaio». Non è la prima volta, accadeva già nel marzo del 2022 con i rifugiati ucraini a Varsavia, ma ora l’escalation è ancora più preoccupante. Il Pentagono ha infatti affermato che gli Usa sono pronti ad adempiere ai propri obblighi di protezione dei Paesi Nato, compresi quelli relativi agli attacchi missilistici russi che potrebbero minacciare la Polonia. «Difenderemo ogni centimetro della Nato», le parole della vice portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, intervenuta dopo che il viceministro degli Esteri polacco, Andrzej Szejna, ha ammesso che «si sta considerando la possibilità di abbattere i missili quando sono già molto vicini al confine».
Allo stesso tempo, risulta quantomeno ambigua la posizione americana circa i bombardamenti ucraini in territorio russo. «La nostra posizione dall’inizio della guerra è sempre stata quella di non incoraggiare né sostenere l’Ucraina a colpire al di fuori del proprio territorio», ha ribadito ancora una volta il portavoce per il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Matthew Miller. Ambiguità che però potrebbe essere parte di una strategia. Lo suggeriscono le dichiarazioni del ministro degli Esteri svedese, Tobias Billström, che si è mostrato molto chiaro nel dire che per fermare l’aggressione contro l’Ucraina, «l’Occidente dovrebbe mirare a creare maggiori difficoltà strategiche nel tentativo di controllare il comportamento della Russia». Secondo Billström, la Nato non starebbe facendo abbastanza in Ucraina perché le forze armate di Kiev hanno bisogno «di quasi tutto». «Fornire più attrezzature militari all’Ucraina non è una questione di capacità industriale», ha chiarito, «è una questione di volontà politica». E mentre Kiev conta le munizioni, Mosca colpisce duro a Kharkiv - dove i missili sono caduti, facendo un morto e diversi feriti - e continua a perfezionare il lancio di quelli ipersonici. La loro particolarità è quella di viaggiare ad altissima velocità: ci vogliono due minuti per raggiungere Odessa e poco meno di sei per colpire Kiev e la popolazione non avrebbe il tempo di fuggire. Come se non bastasse, secondo l’intelligence britannica, Mosca starebbe preparando una flotta fluviale per contrastare le forze ucraine sul Dnipro. «La Russia vuole probabilmente impedire e negare le operazioni fluviali ucraine, come l’operazione per stabilire e mantenere la testa di ponte di Krynky».
Nelle stesse ore la tensione continua a essere alimentata a causa del dibattito circa la matrice dell’attacco alla Crocus City Hall, la sala concerti di Mosca colpita da un attentato lo scorso venerdì. Putin ha ammesso che potrebbero essere stati i jihadisti, (che hanno più volte rivendicato l’attacco), ma non rinuncia all’idea che Kiev abbia partecipato in qualche modo all’operazione. Secondo la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, «è difficile credere» che l’Isis possa avere avuto la capacità di realizzare un attacco del genere». Mentre il capo dei servizi di sicurezza russi (Fsb), Alexander Bortnikov, è tornato sul tema ribadendo che «l’azione sarebbe stata preparata sia dagli islamici radicali che, ovviamente, facilitata dai servizi segreti occidentali e ucraini». Ma non solo, perché Bortnikov, che si dice certo che l’Ucraina addestri miliziani islamisti in Medio Oriente, avverte: «Il capo dei servizi segreti militari ucraini, Kirylo Budanov, è un obiettivo legittimo per le forze militari russe».
Anche il premier Meloni a Giordano ha confessato: «Immaginare in una città blindata, in uno Stato che è coinvolto in un conflitto, quattro attentatori che entrano e uccidono decine di persone e si allontanano praticamente indisturbati, obiettivamente colpisce».
Intanto risultano esserci ancora 95 persone disperse dopo l’attentato alla sala concerti e si conta ancora una vittima: 140 morti il bilancio attuale.
Allarme spie turche nelle Procure
Repubblica ha riferito in questi giorni che l’agenzia d’intelligence turca, il Milli Istihbarat Teskilati (Mit), dispone di una vasta rete di informatori in Italia. A differenza di quanto gli uomini del Mit fanno in altri Paesi Ue, dove operano illegalmente protetti dallo status di «diplomatici», in Italia si servirebbero di traduttori che secondo il quotidiano «collaborano con le Procure su inchieste rilevanti». La sensibilità sul tema è elevatissima dato che coinvolge un Paese alleato della Nato, con il quale non sono mancati gli scontri nel recente passato, vedi quando l’allora premier, Mario Draghi, parlando del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, disse: «Con i dittatori bisogna essere franchi, ma cooperare». Che non tutti i cittadini turchi che fanno i traduttori o che lavorano per le Procure siano coinvolti in questa storia è evidente, tuttavia, secondo Repubblica «è stato emesso un avviso all’interno delle nostre forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza».
Ma perché proprio l’Italia e soprattutto le Procure? Secondo un alto funzionario di un servizio segreto del Nord Europa che parla alla Verità protetto dall’anonimato, nel nostro Paese «sono attualmente in corso importanti inchieste a proposito di finanziamento al terrorismo, che toccano direttamente importanti personalità turche. Lo stesso vale per alcune vicende relative al traffico d’armi ed è evidente come al deep State turco tutto questo interessi e molto. Ma non accade solo da voi perché è un fenomeno diffuso in tutto il Vecchio continente».
Ma com’è organizzato il Mit? Il numero esatto di uomini che lo compongono non è pubblicamente noto, tuttavia, le stime variano a seconda della fonte, con alcuni che ipotizzano un organico di circa 6.000 persone, mentre altri arrivano fino a 15.000. Il budget annuale è stimato in circa 2 miliardi di dollari, che servono a mantenere una macchina complessa (nella quale ci sono almeno due altre agenzie segretissime), operativa tra la raccolta d’intelligence, il controspionaggio, la lotta al terrorismo e la sicurezza informatica. Il Mit, oggi diretto da Ibrahim Kalin, ha uffici in tutto il mondo, con una forte concentrazione in Medio Oriente, Africa ed Europa, dove si occupa in prevalenza di spiare i connazionali, non di rado rapiti e condotti in patria se sgraditi al regime islamista di Ankara. In aggiunta ai circa 6.000-15.000 agenti stipendiati, il Mit si avvale anche di una impressionante rete di informatori, tra i quali spiccano molti imam inviati e stipendiati in Europa dal Diyanet (presidenza degli Affari religiosi), un’importante istituzione statale turca che svolge un ruolo primario nella promozione dell’islam in patria e all’estero. Come scrive Repubblica, che ha visionato gli atti, gli investigatori italiani «hanno già individuato due collaboratori del Mit che, poche settimane fa, sono stati contattati dalla questura di Milano proprio per fornire servizi di interpretariato turco-italiano nell’ambito di un’indagine verosimilmente della Procura». Inoltre, ai due «sono stati offerti altri incarichi anche da parte di altre Procure del Sud». Ora è fondamentale sapere da quanto tempo è attiva questa rete e quante persone ne facciano parte.
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Il premier a «Fuori dal coro»: «Non condivido le parole dell’Eliseo. Se non molliamo, Putin tratterà». Tajani: «Non invieremo mai soldati italiani». Mosca: «Difficile credere che l’attentato sia dell’Isis».Spie turche, allertati gli apparati di sicurezza italiani: le talpe avrebbero partecipato a indagini rilevanti spacciandosi per traduttori. Due sarebbero già state identificate a Milano.Lo speciale contiene due articoli.Livello della tensione alle stelle tra Russia e Occidente e il premier, Giorgia Meloni, torna a parlare di Ucraina. Lo fa con Mario Giordano a Fuori dal coro, in onda ieri sera su Rete 4. «Vladimir Putin aveva in testa una guerra lampo e oggi chi cerca di aiutare l’Ucraina allontana la guerra rispetto alla possibilità che arrivi nel cuore d’Europa», ha spiegato Meloni, che si dice convinta che «se non molliamo lo costringiamo anche a sedersi a un tavolo delle trattative per cercare una pace giusta». E ricorda: «Ovviamente è l’obiettivo che abbiamo». Ma è sui toni delle ultime settimane che si concentra il premier, riferendosi alle parole del presidente francese, Emmanuel Macron, circa la possibilità di inviare truppe in Ucraina: «Non ho condiviso le sue parole, l’ho detto anche a lui. Si deve fare attenzione ai toni», spiega. Anche se «non vuol dire che non si debba fare ciò che è giusto». Infine chiarisce: «Arrivo da un Consiglio Ue dove si parlava di Protezione civile e mi ritrovo su diversi quotidiani che noi staremmo preparando l’Europa alla guerra, perché c’era un passaggio che diceva che bisogna mettere in cooperazione la risposta alla crisi, ma si parlava di Protezione civile». Segue la linea il vicepremier, Antonio Tajani: «Non invieremo mai soldati italiani a combattere in guerra contro la Russia». E mentre in Europa si cerca di abbassare i toni, le parole del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, non aiutano allo scopo. Durante un incontro in Carolina del Nord, Biden è tornato a definire il presidente russo «macellaio». Non è la prima volta, accadeva già nel marzo del 2022 con i rifugiati ucraini a Varsavia, ma ora l’escalation è ancora più preoccupante. Il Pentagono ha infatti affermato che gli Usa sono pronti ad adempiere ai propri obblighi di protezione dei Paesi Nato, compresi quelli relativi agli attacchi missilistici russi che potrebbero minacciare la Polonia. «Difenderemo ogni centimetro della Nato», le parole della vice portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, intervenuta dopo che il viceministro degli Esteri polacco, Andrzej Szejna, ha ammesso che «si sta considerando la possibilità di abbattere i missili quando sono già molto vicini al confine». Allo stesso tempo, risulta quantomeno ambigua la posizione americana circa i bombardamenti ucraini in territorio russo. «La nostra posizione dall’inizio della guerra è sempre stata quella di non incoraggiare né sostenere l’Ucraina a colpire al di fuori del proprio territorio», ha ribadito ancora una volta il portavoce per il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Matthew Miller. Ambiguità che però potrebbe essere parte di una strategia. Lo suggeriscono le dichiarazioni del ministro degli Esteri svedese, Tobias Billström, che si è mostrato molto chiaro nel dire che per fermare l’aggressione contro l’Ucraina, «l’Occidente dovrebbe mirare a creare maggiori difficoltà strategiche nel tentativo di controllare il comportamento della Russia». Secondo Billström, la Nato non starebbe facendo abbastanza in Ucraina perché le forze armate di Kiev hanno bisogno «di quasi tutto». «Fornire più attrezzature militari all’Ucraina non è una questione di capacità industriale», ha chiarito, «è una questione di volontà politica». E mentre Kiev conta le munizioni, Mosca colpisce duro a Kharkiv - dove i missili sono caduti, facendo un morto e diversi feriti - e continua a perfezionare il lancio di quelli ipersonici. La loro particolarità è quella di viaggiare ad altissima velocità: ci vogliono due minuti per raggiungere Odessa e poco meno di sei per colpire Kiev e la popolazione non avrebbe il tempo di fuggire. Come se non bastasse, secondo l’intelligence britannica, Mosca starebbe preparando una flotta fluviale per contrastare le forze ucraine sul Dnipro. «La Russia vuole probabilmente impedire e negare le operazioni fluviali ucraine, come l’operazione per stabilire e mantenere la testa di ponte di Krynky». Nelle stesse ore la tensione continua a essere alimentata a causa del dibattito circa la matrice dell’attacco alla Crocus City Hall, la sala concerti di Mosca colpita da un attentato lo scorso venerdì. Putin ha ammesso che potrebbero essere stati i jihadisti, (che hanno più volte rivendicato l’attacco), ma non rinuncia all’idea che Kiev abbia partecipato in qualche modo all’operazione. Secondo la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, «è difficile credere» che l’Isis possa avere avuto la capacità di realizzare un attacco del genere». Mentre il capo dei servizi di sicurezza russi (Fsb), Alexander Bortnikov, è tornato sul tema ribadendo che «l’azione sarebbe stata preparata sia dagli islamici radicali che, ovviamente, facilitata dai servizi segreti occidentali e ucraini». Ma non solo, perché Bortnikov, che si dice certo che l’Ucraina addestri miliziani islamisti in Medio Oriente, avverte: «Il capo dei servizi segreti militari ucraini, Kirylo Budanov, è un obiettivo legittimo per le forze militari russe». Anche il premier Meloni a Giordano ha confessato: «Immaginare in una città blindata, in uno Stato che è coinvolto in un conflitto, quattro attentatori che entrano e uccidono decine di persone e si allontanano praticamente indisturbati, obiettivamente colpisce».Intanto risultano esserci ancora 95 persone disperse dopo l’attentato alla sala concerti e si conta ancora una vittima: 140 morti il bilancio attuale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/biden-putin-2667622739.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="allarme-spie-turche-nelle-procure" data-post-id="2667622739" data-published-at="1711620586" data-use-pagination="False"> Allarme spie turche nelle Procure Repubblica ha riferito in questi giorni che l’agenzia d’intelligence turca, il Milli Istihbarat Teskilati (Mit), dispone di una vasta rete di informatori in Italia. A differenza di quanto gli uomini del Mit fanno in altri Paesi Ue, dove operano illegalmente protetti dallo status di «diplomatici», in Italia si servirebbero di traduttori che secondo il quotidiano «collaborano con le Procure su inchieste rilevanti». La sensibilità sul tema è elevatissima dato che coinvolge un Paese alleato della Nato, con il quale non sono mancati gli scontri nel recente passato, vedi quando l’allora premier, Mario Draghi, parlando del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, disse: «Con i dittatori bisogna essere franchi, ma cooperare». Che non tutti i cittadini turchi che fanno i traduttori o che lavorano per le Procure siano coinvolti in questa storia è evidente, tuttavia, secondo Repubblica «è stato emesso un avviso all’interno delle nostre forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza». Ma perché proprio l’Italia e soprattutto le Procure? Secondo un alto funzionario di un servizio segreto del Nord Europa che parla alla Verità protetto dall’anonimato, nel nostro Paese «sono attualmente in corso importanti inchieste a proposito di finanziamento al terrorismo, che toccano direttamente importanti personalità turche. Lo stesso vale per alcune vicende relative al traffico d’armi ed è evidente come al deep State turco tutto questo interessi e molto. Ma non accade solo da voi perché è un fenomeno diffuso in tutto il Vecchio continente». Ma com’è organizzato il Mit? Il numero esatto di uomini che lo compongono non è pubblicamente noto, tuttavia, le stime variano a seconda della fonte, con alcuni che ipotizzano un organico di circa 6.000 persone, mentre altri arrivano fino a 15.000. Il budget annuale è stimato in circa 2 miliardi di dollari, che servono a mantenere una macchina complessa (nella quale ci sono almeno due altre agenzie segretissime), operativa tra la raccolta d’intelligence, il controspionaggio, la lotta al terrorismo e la sicurezza informatica. Il Mit, oggi diretto da Ibrahim Kalin, ha uffici in tutto il mondo, con una forte concentrazione in Medio Oriente, Africa ed Europa, dove si occupa in prevalenza di spiare i connazionali, non di rado rapiti e condotti in patria se sgraditi al regime islamista di Ankara. In aggiunta ai circa 6.000-15.000 agenti stipendiati, il Mit si avvale anche di una impressionante rete di informatori, tra i quali spiccano molti imam inviati e stipendiati in Europa dal Diyanet (presidenza degli Affari religiosi), un’importante istituzione statale turca che svolge un ruolo primario nella promozione dell’islam in patria e all’estero. Come scrive Repubblica, che ha visionato gli atti, gli investigatori italiani «hanno già individuato due collaboratori del Mit che, poche settimane fa, sono stati contattati dalla questura di Milano proprio per fornire servizi di interpretariato turco-italiano nell’ambito di un’indagine verosimilmente della Procura». Inoltre, ai due «sono stati offerti altri incarichi anche da parte di altre Procure del Sud». Ora è fondamentale sapere da quanto tempo è attiva questa rete e quante persone ne facciano parte.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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