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2018-04-22
Berlusconi ci mette qualche pezza: «Mai detto di governare con il Pd»
ANSA
«Un colpo a Di Maio e uno alla botte; il Cavaliere deve decidere se mangiarla al burro o al sugo». La pancia della Lega evoca una metafora culinaria per fotografare la dialettica nel centrodestra nell'ultimo weekend di ricreazione concesso da Sergio Mattarella e commentare l'ennesima manovra di riavvicinamento alle posizioni care a Matteo Salvini.
Così ieri Silvio Berlusconi a Campobasso ha provato a rimettere l'alleanza al centro del villaggio: «Lo stato di salute del centrodestra? Tutto bene. Ho parlato con Giancarlo Giorgetti e siamo sempre assolutamente convinti che dobbiamo fare un governo: il centrodestra è unito e Salvini è la persona che deve esprimere il leader». Poi ha rassicurato i leghisti escludendo di avere un filo diretto con il Pd. «Non ho mai detto di voler fare un governo coi voti del Pd. Non c'è nessun contatto in atto con il Pd. Ho solo detto che avremmo dovuto presentarci in Parlamento con il nostro programma e raccogliere i voti di tutti coloro che non ritenessero cosa buona per l'Italia e per loro andare a nuove elezioni».
Il riposizionamento di Berlusconi, considerato molto positivo dalla Lega, è anche determinato dall'effetto dei numeri, che sempre sono tenuti in gran conto dal leader di Forza Italia. Dopo un mese di tira-e-molla, di appoggio esterno nei giorni dispari e di strizzatine d'occhio ai dem, ha notato che il consenso degli italiani sta calando (-1% nei sondaggi per il partito rispetto al 14% di partenza). Chi litiga è bocciato: così sintetizza Nando Pagnoncelli nell'ultima rilevazione Ipsos, accomunando al Cavaliere anche Luigi Di Maio, che con la sua muraglia cinese di veti ha perso cinque punti di gradimento (da 49 al 43) a vantaggio di Salvini, premiato per il ruolo di tessitore (da 43 a 44). Ma il numero uno del Carroccio non si gode il risultato. Guarda avanti e vede nuvole nere: la sabbia nella clessidra si sta esaurendo. Così ha detto ai suoi nell'ultima riunione al vertice: «Gli italiani hanno premiato alle elezioni noi e i 5 stelle perché rappresentiamo la novità e la diversità dagli altri, ma ancora una settimana di questa solfa e ci metteranno tutti nello stesso mazzo. Entreremo nella banda di quelli che non fanno».
Un'accelerazione nel formare il governo, a costo di andare in Parlamento a cercare i voti di chi si riconosce nel programma di centrodestra, è anche l'auspicio che arriva dal summit di Trieste, dove due governatori pesanti come Giovanni Toti (Liguria) e Luca Zaia (Veneto) dicono cose che si somigliano. Toti: «Al di là della giornata tesa di ieri credo che i veti li abbiano sempre posti i 5 stelle; non sono mai arrivati dal centrodestra, che è disponibile a dialogare apertamente. Mi auguro che per una volta vogliano scendere dalla torre in cui si sono chiusi e vogliano confrontarsi con i reali problemi del Paese». Zaia: «Salvini e la Lega hanno dimostrato una condotta ineccepibile. Non ci siamo prestati a polemiche, non ci siamo prestati a provocazioni perché noi abbiamo un solo obiettivo: rispettare i patti con i cittadini e fare in modo che si metta in piedi un governo che vada realmente a governare». Sulle possibili elezioni in fondo al turbolento orizzonte il leghista è lapidario: «Non incontro in giro gente che abbia voglia di andare a votare. Quindi si faccia un governo e lo si faccia rispettoso del risultato delle urne».
Sull'ipotesi voto anticipato sta calando il deterrente supremo: il primo cedolino dello stipendio in arrivo il 27 aprile a tutti i parlamentari. «Siamo umani e andare in Parlamento è come vincere al Superenalotto», sibila un vecchio deputato di Forza Italia. Conta sul fatto che il 65% dei neoparlamentari è alla prima esperienza e non ha mai visto 14.000 euro tutti insieme per 30 giorni di lavoro. È sicuro che dal 28 mattina nessuno, tantomeno i grillini, avrà voglia di tornare alle urne e rinunciare al bengodi (tutto o a metà, a seconda degli accordi interni).
Nel centrodestra il weekend è stato il benvenuto, le acque si stanno calmando (anche se forse solo in superficie) e tutti sembrano pronti ad ascoltare il capo dello Stato. Berlusconi si è messo il cuore in pace: dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l'accordo con i grillini non si farà. Di Maio aveva bisogno di una manina amica che lo aiutasse a tenere lontano il Cavaliere e l'ha ottenuta (come spesso è avvenuto in passato) dai giudici. In questo contesto in movimento, irromperanno i risultati delle elezioni regionali. In Molise, dove si vota oggi, centrodestra e 5 stelle vanno verso un testa a testa, con il Pd a picco. In Friuli Venezia Giulia si prevede invece una valanga della Lega, con il candidato Massimiliano Fedriga in grado perfino di far saltare il banco al primo turno.
Ma emergono le prime tensioni a livello locale. A Mantova la coordinatrice provinciale di Fi, Anna Lisa Baroni, è stata contestata da un gruppo di militanti vicini all'ex candidato alle regionali, Michele Falcone. Il tema era l'esito delle elezioni del 4 marzo.
L'avanzata leghista è una gran bella notizia per la Lega e pessima per Bruxelles, che sta spingendo nei confronti dell'establishment italiano per impedire un governo con Salvini in posizione preminente (premier o ministro-chiave). Le uscite a favore di Vladimir Putin e critiche alla politica di Washington in Siria hanno irrigidito gli euroburocrati. Il presidente della Repubblica sa tutto e potrebbe inventarsi un incarico di rottura, per esempio a Roberto Fico, che piace al Pd ma è inviso allo stesso Di Maio. Mangiarla al burro o al sugo? Sono in tanti ad essere travolti da angosce culinarie, non solo il Cavaliere elettrico.
Giorgio Gandola
Mattarella pronto a cogliere il Fico
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, salvo clamorosi imprevisti, domani archivierà definitivamente la possibilità di un governo tra il centrodestra e il Movimento 5 stelle, che è stato ampiamente esplorato sia nella prima fase delle consultazioni, quelle effettuate direttamente dal capo dello Stato, che con il mandato ad hoc conferito alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Lo scenario di un governo dei «ragazzi», vale a dire Luigi Di Maio e Matteo Salvini, finisce in freezer, salvo essere scongelato se e quando il leader della Lega romperà ufficialmente e formalmente l'alleanza con Forza Italia (sul rapporto con Fratelli d'Italia si attende la decisione che il partito di Giorgia Meloni non ha ancora preso circa il proprio destino all'interno della coalizione), aprendo uno scenario nuovo, e sempre che intanto M5s e Pd non trovino un'intesa.
L'addio di Matteo Salvini a Silvio Berlusconi, per il momento, è una ipotesi giornalistica, probabile quanto si vuole ma mai concretizzata in un documento. Così ora Mattarella può passare alla fase due: verificare le possibili convergenze tra M5s e Pd.
C'è un dettaglio da non trascurare: il presidente della Repubblica può procedere a cuor leggero a una esplorazione che metta da parte il centrodestra, la coalizione che ha vinto le elezioni, senza essere accusato di agire come un «nuovo Giorgio Napolitano». Mattarella ha concesso, sulla carta, al centrodestra tutte le chance immaginabili per mettere in piedi un'alleanza di governo; anche i due giorni di tempi supplementari concessi dal Quirinale a Matteo Salvini e Luigi Di Maio per trovare una quadra sono trascorsi invano. La ferrea logica quirinalizia, partita dalla esplorazione dell'ipotesi di alleanza di governo con il maggior consenso in Parlamento, ovvero quella tra centrodestra e M5s, procede a scalare: a questo punto, tocca a M5s e Pd, primo e secondo partito. Poi, se anche questo tentativo dovesse andare male, si passerebbe, sempre che il centrodestra si sia a quel punto «formalmente» diviso, a un tentativo che coinvolga primo e terzo partito: M5s e Lega.
Il Colle ha colto, attraverso i suoi stretti collaboratori, i segnali di apertura giunti dal Pd nei confronti del M5s. È il momento quindi, salvo clamorose iniziative dei due «ragazzi», che si proceda in questa direzione.
Domani, quindi, con ogni probabilità, Mattarella convocherà al Quirinale il presidente della Camera, Roberto Fico, e gli conferirà un incarico esplorativo speculare a quello della Casellati. A Fico toccherà verificare la possibilità di un accordo tra M5s e Pd, accordo che, dal punto di vista della politica estera, dopo il «signorsì signore» di Luigi Di Maio a Donald Trump e l'ok all'attacco alla Siria, e con la svolta ultraeuropeista del «capo politico» del M5s, agli occhi di Mattarella appare non solo possibile, ma meno complicato di un'intesa tra M5s e Salvini. Fico, giovedì scorso, mentre la Casellati esplorava le residue speranze di un accordo tra il centrodestra e il M5s, ha ricevuto a Montecitorio l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Armando Varricchio.
Tra il Movimento 5 stelle e Washington il rapporto è strettissimo, e l'incontro tra Fico e Varricchio non è stato certamente casuale: dalle parti del Dipartimento di Stato le notizie sulla politica italiana, mai come ora, vengono monitorate con estrema attenzione.
Mattarella, dunque, concederà a Fico tutto il tempo che l'esplorazione a sinistra richiederà: rispetto al tentativo della Casellati, la strada appare al Colle meno irta di ostacoli insormontabili. Fico non dovrà confrontarsi con diversi partiti, ma solo con due (uno dei quali è il suo), e il Pd, seppure diviso in numerose correnti interne, ha una direzione nazionale in grado di prendere decisioni che impegnano tutti.
Certo, al netto delle influenze esogene di Matteo Renzi. Luigi Di Maio ha sempre ripetuto che per lui Lega e Pd sono la stessa cosa, perché il M5s l'accordo lo stringerà sui programmi, e non è un caso che proprio ieri Giggino da Pomigliano d'Arco abbia fatto sapere che il lavoro del docente universitario Giovanni della Cananea, che sta verificando le compatibilità tra il programma del M5s da un lato e quelli di Lega e Pd dall'altro sia terminato, e che a breve il risultato di questa istruttoria sarò pubblicato.
Da Salvini a Renzi: Luigi Di Maio si prepara a cambiare «Matteo», ma il contratto alla tedesca permette, secondo i governisti a tutti i costi del M5s, di passare dall'uno all'altro con estrema disinvoltura. Della Cananea, del resto, è una figura gradita al Quirinale: allievo di Sabino Cassese, ottime entrature a Washington e Bruxelles, potrebbe essere il «nome terzo» che metta d'accordo M5s e Pd. Immaginare che Renzi, che ha ancora saldamente in pugno il Pd e che influenza in maniera decisiva le mosse del «reggente» Maurizio Martina dia l'ok a Di Maio a Palazzo Chigi è considerata pura fantascienza anche tra i consiglieri del presidente della Repubblica.
Carlo Tarallo
Duri e puri del M5s contro Di Maio. Lui vuole resistere e guarda al Pd

LaPresse
Il M5s vive ore di grandissimo tormento. Luigi Di Maio può contare sul sostegno incondizionato solo di una parte del partito, quella che non vede l'ora di avvitare le stellate terga sulle comode poltrone governative. I movimentisti, gli ortodossi, i seguaci di Roberto Fico e Alessandro Di Battista, però, non sopportano più di doversi sorbire gli insulti dei sempre effervescenti elettori, che iniziano a manifestare chiari segni di insofferenza nei confronti della linea «Di Maio a Palazzo Chigi o niente». Anche tra i parlamentari il clima è incandescente: il «capo politico» è sulla graticola, per la sua testardaggine a non voler accettare nessun altro nome come presidente del Consiglio.
Di Maio, ritenendo probabile un incarico da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Roberto Fico per una esplorazione delle possibilità di intesa tra M5s e Partito democratico, si prepara al salto da Matteo Salvini a Maurizio Martina rispolverando il famigerato «contratto alla tedesca», ovvero l'accordo su un programma dettagliatissimo che convinca gli elettori pentastellati della bontà di un'intesa con Matteo Renzi e Maria Elena Boschi. Ovvero, con i principali bersagli della propaganda elettorale grillina.
«Ho incontrato il professor Giacinto Della Cananea», ha detto ieri Di Maio, al salone del mobile di Milano, «che ha pronto il lavoro istruttorio per passare ai contratti di governo. Questo lavoro ha già individuato i punti di contatto tra le forze politiche: tra noi e la Lega e tra noi e il Pd. Al centro ci sono i grandi temi dei diritti sociali, della sicurezza, della disoccupazione. A breve renderemo pubblico questo lavoro istruttorio. Da diverse settimane siamo al lavoro per creare un governo fatto bene», ha aggiunto Di Maio, «il M5s vuole mettere in piedi un governo con al centro i cittadini e una maggioranza di governo in grado di cambiare tutto».
In realtà, se nelle prossime ore Sergio Mattarella affiderà a Roberto Fico l'incarico esplorativo, per Luigi Di Maio sarà notte fonda. Fico, infatti, una volta montato a cavallo, difficilmente verrebbe disarcionato, se l'esplorazione andasse a buon fine e si trovasse l'accordo tra M5s e Pd. Il premier potrebbe essere proprio Fico, ideologicamente schierato a sinistra e acerrimo avversario interno di Di Maio; il presidente della Camera, in ogni caso, avrebbe comunque gioco facile a spalancare a un «nome terzo» le porte di Palazzo Chigi.
«Aspettiamo il presidente della Repubblica», ha detto ieri Di Maio a proposito di Fico, «Roberto Fico è il nostro presidente della Camera, guardiamo a lui come una figura che è stata in grado in questo momento fondamentale di partenza dei lavori parlamentari di essere una figura di garanzia e ha saputo assicurare la sua imparzialità. Aspettiamo Mattarella, ma è chiaro che se mi chiedete di Roberto Fico ho solo cose buona da dirvi». Traduzione: «Fico sta bene dove sta». Questo, almeno, secondo Di Maio, che però continua a sperare in un accordo con Matteo Salvini, ben sapendo che il tramonto dell'ipotesi di governo Lega-M5s sancirebbe il suo addio a ogni speranza di premiership. Di Maio continua, tra l'altro, attraverso dichiarazioni pubbliche a raffica, a invitare Salvini a scaricare Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, mettendo in grande difficoltà il leader del Carroccio: più Di Maio insiste a entrare a gamba tesa sul centrodestra, più costringe Salvini a restare incollato, seppure controvoglia, a Berlusconi e alla Meloni.
«Credo fortemente», ha ripetuto anche ieri Di Maio, «che con la Lega di Salvini si possa fare un buon lavoro per questo Paese. Possiamo fare cose molto importanti. So bene il momento che sta vivendo Salvini, e so bene il momento politico che sta attraversando la Lega. Ho auto modo di testare la sua affidabilità», ha aggiunto Di Maio, «quando abbiamo eletto le cariche istituzionali in Parlamento: sono sicuro che se la Lega firma un contratto, tiene fede ai patti». Tutto molto bello, ma Fico incombe e Salvini non divorzia da Berlusconi. Dunque, a Di Maio non resta che prepararsi all'ipotesi Pd. «Il Partito democratico», ha sottolineato ieri Di Maio, «ha detto che le distanze con il M5s non sono incolmabili. A me fa piacere. Ho sempre detto che la nostra proposta per firmare un contratto di governo era rivolta a due forze politiche: la Lega e il Pd». Alessandro Di Battista ieri ha parlato di immigrazione, tanto per spargere altro sale sulle ferite dell'asse Di Maio-Salvini: «Non si può pensare», ha affermato Di Battista, «di gestire esclusivamente i flussi, quando si è continuato a fare guerre di invasione, spesso mascherate, che hanno poi causato danni incredibili, come in Libia. Per quanto concerne l'accoglienza», ha aggiunto Di Battista, «secondo noi quelli che hanno diritto ad essere accolti devono essere accolti, ma suddivisi equamente tra tutti i Paesi europei».
Carlo Tarallo
I dem si nascondono dietro al Colle ma Sala apre al M5s: «Dialoghiamo»
Tutti appesi alla decisioni del presidente della Repubblica e alle scelte di Matteo Renzi. Nel Pd sono giorni di riflessioni e attesa. Il dilemma è sempre il solito: il dogma renziano dell'opposizione a tutti e tutto è ancora valido?
Il segretario reggente, Maurizio Martina, lascia intendere che ogni decisione sarà presa dopo aver valutato le conclusioni cui giungerà il Colle: «Adesso noi dobbiamo fare una cosa: aspettare le indicazioni del presidente Sergio Mattarella e capire quale sarà lo scenario da lunedì. Noi vogliamo essere assolutamente rispettosi di questo passaggio che il presidente sta facendo». Se non è una vera e propria apertura, sicuramente non è un «no» a priori simile a quelli pronunciati nelle scorse settimane da altri big del partito. Martina, infatti, lascia aperto uno spiraglio a un'eventuale collaborazione con i pentastellati. Non senza risparmiare qualche accento polemico. Ieri il nuovo affondo: «Quello che abbiamo visto fino a qui da parte dei cosiddetti vincitori è sinceramente uno spettacolo sbagliato. Siamo al quarantottesimo giorno di stallo, di polemiche, veti e controveti. Diciamo che siamo passati da “prima gli italiani" a “prima i fatti loro" e questo è inaccettabile per un Paese che ha bisogno di certezze».
Tra i dem, in ogni caso, le distanze sono importanti. C'è chi vede come fumo negli occhi un'intesa con il M5s. Andrea Orlando, ministro della Giustizia e tra i principali rappresentanti della minoranza, è tranchant: «Mi sembra che oggi il Movimento 5 stelle stia alacremente lavorando per costruire un asse con la destra, ed è una cosa sulla quale è giusto che anche i molti elettori di centrosinistra che hanno votato per i 5 stelle riflettano. I loro voti, dati spesso anche come elemento di critica al centrosinistra e al Pd, oggi saranno utilizzati per costruire un rapporto con Matteo Salvini». Per Orlando, dunque, all'orizzonte c'è la saldatura tra Lega e M5s.
È caustico il post che il renziano capogruppo al Senato Andrea Marcucci dedica a Luigi Di Maio e, indirettamente, a qualsiasi ipotesi di apertura: «Ormai Di Maio, pur di fare il premier, chiede l'appoggio esterno a tutti, anche a Qui, Quo, Qua. Ma loro, come è noto, vogliono Paperino alla presidenza del Consiglio. Forse mediazione su Paperon dei Paperoni. Quante revisioni del programma dovrà prevedere Davide Casaleggio per accontentare Di Maio?».
Non è d'accordo su questa linea Giuseppe Sala, sindaco di Milano: «Auspico assolutamente il dialogo tra Pd e M5s, partendo dal presupposto che ovviamente su alcuni principi fondamentali bisogna pure intendersi». «Su alcuni principi fondamentali bisogna intendersi. Tra reddito di cittadinanza e il nostro welfare solidale è chiaro che il modello giusto sia il nostro, però bisogna parlare con tutti», insiste il sindaco. La sensazione è che lo stallo non sia destinato a durare molto. Di fronte a una «chiamata» di Mattarella, Renzi potrebbe chiedere alle truppe parlamentari infarcite di suoi fedelissimi a compiere una giravolta. L'ennesima in questi ultimi mesi.
Antonio Ricchio
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Il leader azzurro prova a rassicurare il Carroccio dopo l'uscita aperturista sui dem: «Ho solo detto di prendere i voti in Parlamento». Fattore «stallo» sempre più cruciale per i sondaggi: Forza Italia perde un punto.Senza una rottura formale tra i due alleati di centrodestra, il Colle è orientato a dare l'incarico esplorativo a Roberto Fico. Obiettivo: sondare l'intesa tra Movimento 5 stelle e Partito democratico.Luigi Di Maio vuole Palazzo Chigi a ogni costo, ma la base sta con il presidente della Camera e Alessandro Di Battista: cambiamo uomo e andiamo al governo. Luigi vuole il leader lumbard («Con lui si può fare un buon lavoro»), ma lancia l'amo pure alla sinistra.Il segretario reggente dem Maurizio Martina si mostra cauto in attesa delle decisioni di Matteo Renzi, mentre il sindaco di Milano Beppe Sala apre ai 5 stelle. Lo speciale contiene quattro articoli.«Un colpo a Di Maio e uno alla botte; il Cavaliere deve decidere se mangiarla al burro o al sugo». 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Conta sul fatto che il 65% dei neoparlamentari è alla prima esperienza e non ha mai visto 14.000 euro tutti insieme per 30 giorni di lavoro. È sicuro che dal 28 mattina nessuno, tantomeno i grillini, avrà voglia di tornare alle urne e rinunciare al bengodi (tutto o a metà, a seconda degli accordi interni). Nel centrodestra il weekend è stato il benvenuto, le acque si stanno calmando (anche se forse solo in superficie) e tutti sembrano pronti ad ascoltare il capo dello Stato. Berlusconi si è messo il cuore in pace: dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l'accordo con i grillini non si farà. Di Maio aveva bisogno di una manina amica che lo aiutasse a tenere lontano il Cavaliere e l'ha ottenuta (come spesso è avvenuto in passato) dai giudici. In questo contesto in movimento, irromperanno i risultati delle elezioni regionali. In Molise, dove si vota oggi, centrodestra e 5 stelle vanno verso un testa a testa, con il Pd a picco. 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Sono in tanti ad essere travolti da angosce culinarie, non solo il Cavaliere elettrico.Giorgio Gandola<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/berlusconi-ci-mette-qualche-pezza-2562084654.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mattarella-pronto-a-cogliere-il-fico" data-post-id="2562084654" data-published-at="1765400826" data-use-pagination="False"> Mattarella pronto a cogliere il Fico Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, salvo clamorosi imprevisti, domani archivierà definitivamente la possibilità di un governo tra il centrodestra e il Movimento 5 stelle, che è stato ampiamente esplorato sia nella prima fase delle consultazioni, quelle effettuate direttamente dal capo dello Stato, che con il mandato ad hoc conferito alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Lo scenario di un governo dei «ragazzi», vale a dire Luigi Di Maio e Matteo Salvini, finisce in freezer, salvo essere scongelato se e quando il leader della Lega romperà ufficialmente e formalmente l'alleanza con Forza Italia (sul rapporto con Fratelli d'Italia si attende la decisione che il partito di Giorgia Meloni non ha ancora preso circa il proprio destino all'interno della coalizione), aprendo uno scenario nuovo, e sempre che intanto M5s e Pd non trovino un'intesa. L'addio di Matteo Salvini a Silvio Berlusconi, per il momento, è una ipotesi giornalistica, probabile quanto si vuole ma mai concretizzata in un documento. Così ora Mattarella può passare alla fase due: verificare le possibili convergenze tra M5s e Pd. C'è un dettaglio da non trascurare: il presidente della Repubblica può procedere a cuor leggero a una esplorazione che metta da parte il centrodestra, la coalizione che ha vinto le elezioni, senza essere accusato di agire come un «nuovo Giorgio Napolitano». Mattarella ha concesso, sulla carta, al centrodestra tutte le chance immaginabili per mettere in piedi un'alleanza di governo; anche i due giorni di tempi supplementari concessi dal Quirinale a Matteo Salvini e Luigi Di Maio per trovare una quadra sono trascorsi invano. La ferrea logica quirinalizia, partita dalla esplorazione dell'ipotesi di alleanza di governo con il maggior consenso in Parlamento, ovvero quella tra centrodestra e M5s, procede a scalare: a questo punto, tocca a M5s e Pd, primo e secondo partito. Poi, se anche questo tentativo dovesse andare male, si passerebbe, sempre che il centrodestra si sia a quel punto «formalmente» diviso, a un tentativo che coinvolga primo e terzo partito: M5s e Lega. Il Colle ha colto, attraverso i suoi stretti collaboratori, i segnali di apertura giunti dal Pd nei confronti del M5s. È il momento quindi, salvo clamorose iniziative dei due «ragazzi», che si proceda in questa direzione. Domani, quindi, con ogni probabilità, Mattarella convocherà al Quirinale il presidente della Camera, Roberto Fico, e gli conferirà un incarico esplorativo speculare a quello della Casellati. A Fico toccherà verificare la possibilità di un accordo tra M5s e Pd, accordo che, dal punto di vista della politica estera, dopo il «signorsì signore» di Luigi Di Maio a Donald Trump e l'ok all'attacco alla Siria, e con la svolta ultraeuropeista del «capo politico» del M5s, agli occhi di Mattarella appare non solo possibile, ma meno complicato di un'intesa tra M5s e Salvini. Fico, giovedì scorso, mentre la Casellati esplorava le residue speranze di un accordo tra il centrodestra e il M5s, ha ricevuto a Montecitorio l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Armando Varricchio. Tra il Movimento 5 stelle e Washington il rapporto è strettissimo, e l'incontro tra Fico e Varricchio non è stato certamente casuale: dalle parti del Dipartimento di Stato le notizie sulla politica italiana, mai come ora, vengono monitorate con estrema attenzione. Mattarella, dunque, concederà a Fico tutto il tempo che l'esplorazione a sinistra richiederà: rispetto al tentativo della Casellati, la strada appare al Colle meno irta di ostacoli insormontabili. Fico non dovrà confrontarsi con diversi partiti, ma solo con due (uno dei quali è il suo), e il Pd, seppure diviso in numerose correnti interne, ha una direzione nazionale in grado di prendere decisioni che impegnano tutti. Certo, al netto delle influenze esogene di Matteo Renzi. Luigi Di Maio ha sempre ripetuto che per lui Lega e Pd sono la stessa cosa, perché il M5s l'accordo lo stringerà sui programmi, e non è un caso che proprio ieri Giggino da Pomigliano d'Arco abbia fatto sapere che il lavoro del docente universitario Giovanni della Cananea, che sta verificando le compatibilità tra il programma del M5s da un lato e quelli di Lega e Pd dall'altro sia terminato, e che a breve il risultato di questa istruttoria sarò pubblicato. Da Salvini a Renzi: Luigi Di Maio si prepara a cambiare «Matteo», ma il contratto alla tedesca permette, secondo i governisti a tutti i costi del M5s, di passare dall'uno all'altro con estrema disinvoltura. Della Cananea, del resto, è una figura gradita al Quirinale: allievo di Sabino Cassese, ottime entrature a Washington e Bruxelles, potrebbe essere il «nome terzo» che metta d'accordo M5s e Pd. Immaginare che Renzi, che ha ancora saldamente in pugno il Pd e che influenza in maniera decisiva le mosse del «reggente» Maurizio Martina dia l'ok a Di Maio a Palazzo Chigi è considerata pura fantascienza anche tra i consiglieri del presidente della Repubblica. Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/berlusconi-ci-mette-qualche-pezza-2562084654.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="duri-e-puri-del-m5s-contro-di-maio-lui-vuole-resistere-e-guarda-al-pd" data-post-id="2562084654" data-published-at="1765400826" data-use-pagination="False"> Duri e puri del M5s contro Di Maio. Lui vuole resistere e guarda al Pd LaPresse Il M5s vive ore di grandissimo tormento. Luigi Di Maio può contare sul sostegno incondizionato solo di una parte del partito, quella che non vede l'ora di avvitare le stellate terga sulle comode poltrone governative. I movimentisti, gli ortodossi, i seguaci di Roberto Fico e Alessandro Di Battista, però, non sopportano più di doversi sorbire gli insulti dei sempre effervescenti elettori, che iniziano a manifestare chiari segni di insofferenza nei confronti della linea «Di Maio a Palazzo Chigi o niente». Anche tra i parlamentari il clima è incandescente: il «capo politico» è sulla graticola, per la sua testardaggine a non voler accettare nessun altro nome come presidente del Consiglio. Di Maio, ritenendo probabile un incarico da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Roberto Fico per una esplorazione delle possibilità di intesa tra M5s e Partito democratico, si prepara al salto da Matteo Salvini a Maurizio Martina rispolverando il famigerato «contratto alla tedesca», ovvero l'accordo su un programma dettagliatissimo che convinca gli elettori pentastellati della bontà di un'intesa con Matteo Renzi e Maria Elena Boschi. Ovvero, con i principali bersagli della propaganda elettorale grillina. «Ho incontrato il professor Giacinto Della Cananea», ha detto ieri Di Maio, al salone del mobile di Milano, «che ha pronto il lavoro istruttorio per passare ai contratti di governo. Questo lavoro ha già individuato i punti di contatto tra le forze politiche: tra noi e la Lega e tra noi e il Pd. Al centro ci sono i grandi temi dei diritti sociali, della sicurezza, della disoccupazione. A breve renderemo pubblico questo lavoro istruttorio. Da diverse settimane siamo al lavoro per creare un governo fatto bene», ha aggiunto Di Maio, «il M5s vuole mettere in piedi un governo con al centro i cittadini e una maggioranza di governo in grado di cambiare tutto». In realtà, se nelle prossime ore Sergio Mattarella affiderà a Roberto Fico l'incarico esplorativo, per Luigi Di Maio sarà notte fonda. Fico, infatti, una volta montato a cavallo, difficilmente verrebbe disarcionato, se l'esplorazione andasse a buon fine e si trovasse l'accordo tra M5s e Pd. Il premier potrebbe essere proprio Fico, ideologicamente schierato a sinistra e acerrimo avversario interno di Di Maio; il presidente della Camera, in ogni caso, avrebbe comunque gioco facile a spalancare a un «nome terzo» le porte di Palazzo Chigi. «Aspettiamo il presidente della Repubblica», ha detto ieri Di Maio a proposito di Fico, «Roberto Fico è il nostro presidente della Camera, guardiamo a lui come una figura che è stata in grado in questo momento fondamentale di partenza dei lavori parlamentari di essere una figura di garanzia e ha saputo assicurare la sua imparzialità. Aspettiamo Mattarella, ma è chiaro che se mi chiedete di Roberto Fico ho solo cose buona da dirvi». Traduzione: «Fico sta bene dove sta». Questo, almeno, secondo Di Maio, che però continua a sperare in un accordo con Matteo Salvini, ben sapendo che il tramonto dell'ipotesi di governo Lega-M5s sancirebbe il suo addio a ogni speranza di premiership. Di Maio continua, tra l'altro, attraverso dichiarazioni pubbliche a raffica, a invitare Salvini a scaricare Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, mettendo in grande difficoltà il leader del Carroccio: più Di Maio insiste a entrare a gamba tesa sul centrodestra, più costringe Salvini a restare incollato, seppure controvoglia, a Berlusconi e alla Meloni. «Credo fortemente», ha ripetuto anche ieri Di Maio, «che con la Lega di Salvini si possa fare un buon lavoro per questo Paese. Possiamo fare cose molto importanti. So bene il momento che sta vivendo Salvini, e so bene il momento politico che sta attraversando la Lega. Ho auto modo di testare la sua affidabilità», ha aggiunto Di Maio, «quando abbiamo eletto le cariche istituzionali in Parlamento: sono sicuro che se la Lega firma un contratto, tiene fede ai patti». Tutto molto bello, ma Fico incombe e Salvini non divorzia da Berlusconi. Dunque, a Di Maio non resta che prepararsi all'ipotesi Pd. «Il Partito democratico», ha sottolineato ieri Di Maio, «ha detto che le distanze con il M5s non sono incolmabili. A me fa piacere. Ho sempre detto che la nostra proposta per firmare un contratto di governo era rivolta a due forze politiche: la Lega e il Pd». Alessandro Di Battista ieri ha parlato di immigrazione, tanto per spargere altro sale sulle ferite dell'asse Di Maio-Salvini: «Non si può pensare», ha affermato Di Battista, «di gestire esclusivamente i flussi, quando si è continuato a fare guerre di invasione, spesso mascherate, che hanno poi causato danni incredibili, come in Libia. Per quanto concerne l'accoglienza», ha aggiunto Di Battista, «secondo noi quelli che hanno diritto ad essere accolti devono essere accolti, ma suddivisi equamente tra tutti i Paesi europei». Carlo Tarallo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/berlusconi-ci-mette-qualche-pezza-2562084654.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="i-dem-si-nascondono-dietro-al-colle-ma-sala-apre-al-m5s-dialoghiamo" data-post-id="2562084654" data-published-at="1765400826" data-use-pagination="False"> I dem si nascondono dietro al Colle ma Sala apre al M5s: «Dialoghiamo» Tutti appesi alla decisioni del presidente della Repubblica e alle scelte di Matteo Renzi. Nel Pd sono giorni di riflessioni e attesa. Il dilemma è sempre il solito: il dogma renziano dell'opposizione a tutti e tutto è ancora valido? Il segretario reggente, Maurizio Martina, lascia intendere che ogni decisione sarà presa dopo aver valutato le conclusioni cui giungerà il Colle: «Adesso noi dobbiamo fare una cosa: aspettare le indicazioni del presidente Sergio Mattarella e capire quale sarà lo scenario da lunedì. Noi vogliamo essere assolutamente rispettosi di questo passaggio che il presidente sta facendo». Se non è una vera e propria apertura, sicuramente non è un «no» a priori simile a quelli pronunciati nelle scorse settimane da altri big del partito. Martina, infatti, lascia aperto uno spiraglio a un'eventuale collaborazione con i pentastellati. Non senza risparmiare qualche accento polemico. Ieri il nuovo affondo: «Quello che abbiamo visto fino a qui da parte dei cosiddetti vincitori è sinceramente uno spettacolo sbagliato. Siamo al quarantottesimo giorno di stallo, di polemiche, veti e controveti. Diciamo che siamo passati da “prima gli italiani" a “prima i fatti loro" e questo è inaccettabile per un Paese che ha bisogno di certezze». Tra i dem, in ogni caso, le distanze sono importanti. C'è chi vede come fumo negli occhi un'intesa con il M5s. Andrea Orlando, ministro della Giustizia e tra i principali rappresentanti della minoranza, è tranchant: «Mi sembra che oggi il Movimento 5 stelle stia alacremente lavorando per costruire un asse con la destra, ed è una cosa sulla quale è giusto che anche i molti elettori di centrosinistra che hanno votato per i 5 stelle riflettano. I loro voti, dati spesso anche come elemento di critica al centrosinistra e al Pd, oggi saranno utilizzati per costruire un rapporto con Matteo Salvini». Per Orlando, dunque, all'orizzonte c'è la saldatura tra Lega e M5s. È caustico il post che il renziano capogruppo al Senato Andrea Marcucci dedica a Luigi Di Maio e, indirettamente, a qualsiasi ipotesi di apertura: «Ormai Di Maio, pur di fare il premier, chiede l'appoggio esterno a tutti, anche a Qui, Quo, Qua. Ma loro, come è noto, vogliono Paperino alla presidenza del Consiglio. Forse mediazione su Paperon dei Paperoni. Quante revisioni del programma dovrà prevedere Davide Casaleggio per accontentare Di Maio?». Non è d'accordo su questa linea Giuseppe Sala, sindaco di Milano: «Auspico assolutamente il dialogo tra Pd e M5s, partendo dal presupposto che ovviamente su alcuni principi fondamentali bisogna pure intendersi». «Su alcuni principi fondamentali bisogna intendersi. Tra reddito di cittadinanza e il nostro welfare solidale è chiaro che il modello giusto sia il nostro, però bisogna parlare con tutti», insiste il sindaco. La sensazione è che lo stallo non sia destinato a durare molto. Di fronte a una «chiamata» di Mattarella, Renzi potrebbe chiedere alle truppe parlamentari infarcite di suoi fedelissimi a compiere una giravolta. L'ennesima in questi ultimi mesi. Antonio Ricchio
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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